Fanfic su attori > Robert Pattinson
Segui la storia  |       
Autore: Frytty    16/04/2013    4 recensioni
Solephine non ha mai smesso di credere nel futuro.
Quando la incontra, Robert capisce che il suo futuro è lei.
Stanno per coronare il loro primo anno di matrimonio con la nascita di un bambino, quando Solephine rimane coinvolta in un incidente stradale, entrando in coma.
Robert si trova in una situazione in cui non ha mai pensato di potersi trovare: solo, costretto a crescere un bambino che non sa se vedrà mai la mamma, ossessionato dal pensiero che Sole possa non svegliarsi più, troppe cose da fare, mille altre da gestire, emozioni da tenere a freno.
Dal Prologo
Non potevo sapere che avrei fatto bene ad essere spaventato; non sapevo che, quando il telefono era squillato ed io avevo letto il nome di mia madre, la mia vita non sarebbe stata più la stessa. D’altronde, come potevo?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Buonasera a tutte!

Per questo aggiornamento, purtroppo, non posso prendermi il tempo e la calma che vorrei, perché sono un po' di fretta, ma sono anche una persona di parola e, poiché vi avevo promesso che avrei aggiornato con il primo capitolo martedì, eccomi :)

Risponderò a tutte le recensioni, promesso, ma, per questa volta, ho preferito dare precedenza al capitolo e sono sicura che sarete d'accordo con me.

Cosa dire? Nel primo capitolo avrete già diverse risposte, perciò, non posso anticiparvi davvero nulla ;)

Ci tengo, invece, a ringraziare le persone che hanno commentato il Prologo e la Ff appena conclusa, C'era una stella che danzava, e sotto quella sono nata, tutte coloro che hanno letto e che hanno già aggiunto la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare: GRAZIE! Non so davvero in che altro modo esprimervi la mia riconoscenza *.* la fiducia che riponete in me è un grande stimolo, davvero <3

Vi auguro una buonissima continuazione di settimana e, ovviamente, una...

 

 

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

How to save a life-The Fray

 

 

1. Time

 

 

 

< Robert… > Quando esco dall’ascensore, mia madre mi viene incontro e riesco a leggere sul suo volto la preoccupazione e l’orrore, così come riesco ad inquadrare i suoi occhi stanchi e lucidi di lacrime che sta cercando di trattenere.

< Lei dov’è? > Chiedo con un filo di voce, l’impressione che potrei svenire da un momento all’altro, proprio lì, nel caos di infermieri e medici che mi sfiorano appena per raggiungere un paziente o per richiedere l’intervento di un’assistente.

< E’ ancora in sala operatoria; l’intervento potrebbe durare più del previsto… > Mormora, come se non potessi sentirla, come se potesse evitarmi altro dolore.

Guardo oltre la sua figura e noto mio padre e le mie sorelle seduti sui seggiolini di plastica del corridoio, che osservano confusi il via vai concitato del personale di servizio e hanno l’aria di chi vorrebbe essere ovunque, tranne che seduto lì, in attesa; e poi noto Sofia, lo sguardo perso, un bicchiere di the fumante in mano, dal quale sembra non avere intenzione di bere e i capelli scarmigliati, lei, che si rifiuta anche solo di fare colazione in vestaglia, e penso che è sola, che non ha un marito disposto a poggiarle una mano sulla spalla a mo’ di conforto, che deve sentirsi persa, sapendo che sua figlia è in pericolo di vita e che adesso, ora come ora, a dispetto della situazione drammatica, ha solo me e allora vado da lei, lanciando uno sguardo di scuse a mia madre.

Quando mi siedo accanto a lei, neanche se ne accorge, così interessata alle luci intermittenti del distributore automatico di fronte a noi, a qualche metro di distanza. Non alza gli occhi su di me, non da’ segni di essersi accorta della mia presenza ed io per un po’ faccio come lei: osservo le luci del distributore automatico, ignorando i colori dei camici dei medici e il chiacchiericcio generale che alberga presso il banco informazioni; per un po’, mi isolo da ciò che mi circonda e chiudo gli occhi, non completamente in me. Quando li riapro, probabilmente sono diventato evanescente, un essere senza forma, né consistenza, perché non provo alcuna emozione, quasi mi stessi osservando dall’alto, quasi la mia anima si fosse divisa dalla mia parte corporea, e adesso mi stesse osservando dal soffitto. Sono in un’altra dimensione e potrebbero fare di me ciò che vogliono, perché io glielo permetterei.

Poi avverto un calore estraneo sul braccio e allora abbasso lo sguardo, accorgendomi che si tratta di una mano, una mano e un calore amici, una mano che conosco fin troppo bene, con le rughe in rilievo e gli anelli d’oro dai quali non si separa mai.

< Andrà tutto bene. > Mormoro, ma la voce non è la mia e non so da dove proviene, anche se Sofia mi osserva con le lacrime agli occhi e il volto struccato che la fa sembrare fragile e indifesa come una bambina.

Annuisce e chiude gli occhi e poi annuisce ancora, mentre le lacrime le solcano dolcemente le guance, stringendomi il cuore e lo stomaco. Vorrei vomitare, o forse no, forse è solo la paura, forse è solo il terrore.

E pensare che non volevo che prendesse la macchina, non volevo che guidasse. Mi ero offerto di mandarle una macchina per raggiungermi, perché se lei si metteva al volante, io avrei trascorso il quarto d’ora peggiore della mia vita, preoccupandomi che potesse succederle qualcosa, qualsiasi cosa; ma lei non aveva voluto darmi retta, aveva insistito e poi ho voglia di guidare, aveva detto, anche se era all’ottavo mese di gravidanza, anche se non poteva allacciarsi la cintura di sicurezza, anche se il traffico era un inferno, considerato l’orario. E allora io avevo sospirato e le avevo detto di fare attenzione, di essere prudente e la sua risata allegra, quella di chi pensa che l’interlocutore stia dicendo solo un mucchio di stupidaggini, mi risuona nelle orecchie anche adesso, anche ora che stringo sua madre tra le braccia e cerco di convincermi anch’io che andrà tutto bene, perché Solephine è forte, perché ha sempre lottato per le cose alle quali teneva e lei alla vita ci tiene, vuole viverla e ce la farà.

L’uomo che l’ha travolta con il suo camion è al pronto soccorso e non ha riportato gravi ferite, solo un leggero trauma cranico e qualche contusione, invece lei è in sala operatoria e forse non ce la farà, perché, nonostante la speranza sia l’ultima a morire, nonostante i medici si siano ripromessi di fare il possibile, l’imprevedibile è dietro l’angolo e loro non possono fare miracoli, lo so.

Una ragazza dai capelli lunghi, castani con qualche riflesso rosso, occupa la mia visuale per qualche minuto. E' davanti al distributore di bibite, inserisce le monete e preme qualche pulsante. Il tonfo della lattina di aranciata arrivata a destinazione, mi spaventa e mi fa sussultare, mentre la ragazza piega appena le ginocchia, aprendo lo sportello di plastica trasparente per recuperarla. La apre subito, con dimestichezza, come se non facesse altro tutto il giorno, e beve un sorso, allontanandosi di qualche passo verso l'uscita d'emergenza. Non so perché la osservo; forse perché è troppo giovane per essere in un ospedale, forse perché non so cosa le è successo e sto cercando di immaginarlo. Prima di riuscire ad alimentare le mie fantasie, però, lei scompare, così come è apparsa.

Mi manca l'aria qui, ma non posso andare via, non posso abbandonare i miei genitori e Sofia, non se si tratta di Solephine.

I secondi, i minuti, le ore, trascorrono lentamente, quasi come se si divertissero a vederci soffrire, quasi come se godessero della nostra attesa straziante. E' trascorsa un'ora e mezza dall'ultima comunicazione dell'infermiera e ancora nessun dottore è uscito dalla sala operatoria alla fine del corridoio, la stessa sala con le porte di metallo, fredde e asettiche. Non è mai un buon segno quando passa così tanto tempo, no? E' quello che fanno sempre capire nei film, quando improvvisamente i familiari cominciano a piangere e il protagonista sembra sospeso in una bolla di sapone, distante da tutti.

Trascorre un'altra mezz'ora nell'apatia più totale, nel silenzio più agghiacciante, fin quando un vagito forte, simile ad uno strillo, spezza l'intera sala, tornando a farmi alzare lo sguardo per incontrare gli occhi confusi di mia madre. Non siamo nel reparto maternità.

Dopo qualche istante, il camice verde bottiglia di un dottore, ci sventola davanti ed io, senza neanche rendermene conto, sono già in piedi, dietro lui, e lo chiamo, sperando che si volti.

< Dottore! Dottore! > Insisto, seguendolo.

< Non posso dire niente, mi dispiace. > Commenta rapido, fermandomi con una mano.

< Sono ore che aspettiamo, dottore, la prego. > Sembra cambiare improvvisamente idea dopo le mie parole, così si ferma, osservandomi.

Ricambio l'occhiata, aspettando che sia lui ad intraprendere il discorso.

< Abbiamo fatto tutto il possibile, signor Pattinson, mi creda. E' entrata in coma e non sappiamo se e come potrà risvegliarsi. > Una stilettata al cuore avrebbe fatto meno male. Sento gli occhi riempirsi di lacrime.

< E il bambino...? > Riesco a stento a pronunciare quel nome.

< Abbiamo dovuto operare chirurgicamente con un taglio cesareo, ma il bambino sta bene, è in salute e presto potrà vederlo. > Accenna un sorriso, ma sembra capire che non era quella la notizia che aspettavo.

Dovrò crescere un bambino da solo, è questo quello che il suo sguardo, implicitamente, sta esprimendo; dovrò convivere con il dolore di non avere più mia moglie accanto; dovrò arrendermi a vederla in un letto d'ospedale per sempre, fino a quando non avrò il coraggio di sospendere le cure.

Abbasso lo sguardo sul pavimento bianco, mentre il dottore mi stringe una spalla con forza, cercando di trasmettermi il coraggio che non ho, prima di allontanarsi.

Torno indietro come un orfano sperduto, come un bambino che non può ancora capire che i suoi genitori lo hanno abbandonato e crede che qualsiasi donna sia sua madre, che qualsiasi uomo sia suo padre e continua a chiamarli senza sosta, anche se loro non si voltano. Sono io quel bambino abbandonato, adesso.

Mi accascio sulla sedia, prendendomi il volto tra le mani, il desiderio di strappare i capelli alla radice, di urlare tutta la mia disperazione, mentre sento gli occhi di tutti su di me, concentrati, in attesa di risposte, ma io non ho parole, non ho voglia di parlare, non ho voglia di piangere davanti a loro, davanti all'infermiera che avanza con un fagottino bianco tra le braccia, sorridente, mentre il mio mondo crolla senza che io possa fare altro che osservare il suo lento avanzare, il suo sorriso felice.

Non alzo lo sguardo quando si posiziona di fronte a me, intravedo soltanto le sue pantofole bianche e la sua gonna chiara.

< Signor Pattinson, questo è il suo bambino ed è uno splendido maschietto. > La sua voce appena stridula mi infastidisce, la sua felicità mi infastidisce, come se non sapesse che questo bambino dovrebbe conoscere prima la sua mamma, ma non può e si deve accontentare del viso deluso e rassegnato di suo padre.

Ripenso alla volontà di Solephine di non conoscere il sesso del bambino fino al giorno del parto, perché così sarebbe stata una sorpresa e lei adorava le sorprese; ripenso ai giocattoli che abbiamo accumulato nella stanza che avevamo fatto dipingere di giallo, perché è un colore neutro ed è adatto ad un maschietto, così come ad una femminuccia; ripenso alla carrozzina che ci hanno regalato i miei genitori non appena saputa la notizia della gravidanza e ripenso al suo volersi esercitare con un bambolotto per imparare a mettere bene i pannolini.

Piango e non so se di gioia o di dolore, fin quando non interviene mia madre, che afferra con delicatezza il fagottino tra le braccia e il suo viso si illumina di gioia e amore, avanzando con cautela verso di me, prendendo posto sulla sedia accanto.

< E' bellissimo, Robert. > Mormora e quando ho il coraggio di abbassare gli occhi e guardare il viso del mio primogenito, le lacrime premono ancora di più per uscire: ha i miei occhi azzurri, i pochi capelli che riescono ad intravedersi sono biondi, mentre le labbra sono della madre, sono sue, rosse, piene, perfette.

Ho paura di accarezzarlo, così come di prenderlo in braccio, ma mia madre non vuole sentire ragioni e mi incita a farlo, depositandomelo delicatamente tra le braccia, mentre mio padre, le mie sorelle e Sofia si avvicinano, commuovendosi.

< Avevate già deciso per un nome? > La voce dell'infermiera mi riscuote appena e il suo sorriso, adesso, non mi sembra più così fastidioso.

< Noi... eravamo ancora indecisi... non sapevamo sarebbe stato un maschietto, perciò... > Tentenno, impotente.

< Non c'è fretta, non si preoccupi. Torno a prenderlo fra qualche minuto, d'accordo? > Sorride ancora, prima di allontanarsi senza attendere una risposta.

< Dovresti chiamarlo James, a Sole piaceva molto, vero? > Commenta mia sorella, cercando un appoggio negli occhi di Sofia.

< Sì, è vero, le piaceva molto. > Afferma in risposta, osservandomi.

Io, di rimando, osservo lui, il mio bambino, che con i suoi grandi occhi azzurri sembra interrogarmi, mentre le manine e i piedini si agitano incontrollati, liberandolo dalla costrizione della coperta, rivelando una tutina bianca dai bordi blu.

Gli sorrido, permettendogli di stringere il mio dito, facendomi riconoscere. Vorrei che Solephine potesse vederlo, vorrei che fosse lei a stringerlo tra le braccia, adesso.

< Mi spiace separarvi, ma devo riportarlo al nido, sa', per i controlli. > L'infermiera tende le braccia. < Quale nome vuole che inserisca sulla targhetta? > Continua, sistemando la coperta.

< James. > Rispondo sicuro.

< Sua moglie è stata appena sistemata in sala intensiva; se vuole vederla, segua il corridoio e poi giri a destra; chieda di Rupert. > Anche lei mi stringe un braccio con forza, prima di dirigersi verso gli ascensori.

< Robert... > Mia madre mi scuote ed io solo in quel momento realizzo di essere rimasto a fissare il pavimento per dieci minuti abbondanti.

< Sicuro di stare bene? > Continua, sedendosi accanto a me.

< Sì, sto bene, sto bene. > No, non sto bene affatto, mamma. < Dovreste andare a casa, sai? Sono ore che siete qui e sarete stanchi... > Continuo, cercando di sorriderle.

< E tu cosa farai? > Mi domanda.

< Voglio vederla e poi andrò a casa. > Rispondo, stropicciandomi il viso.

< Per qualsiasi cosa chiamaci. > Mi accarezza il viso e mi bacia una guancia. 

Solo Sofia resta con me, in attesa di vedere sua figlia.

 

Rupert mi aiuta a vestirmi dello stesso camice verde bottiglia che indossa anche lui, a coprirmi le scarpe e ad indossare una cuffia per i capelli. Ho il cuore che batte a mille, come se stessi per vederla per la prima volta, come se potessi non riconoscere il suo volto.

< Solo pochi minuti, d'accordo? > Mi raccomanda, prima di lasciarmi entrare.

Solephine è lì, di fronte a me, vestita di un camice di carta bianco, gli occhi chiusi, i capelli sparsi sul cuscino e ancora impiastricciati di sangue. Ha dei lividi sul viso, qualche taglio sul braccio e le mani fredde. Sembra stare bene, non assomiglia alle vittima di un incidente, non ha ferite gravi.

Allora perché non si sveglia? Perché non apre gli occhi?

Il pancione è scomparso, ma lei è bella come sempre.

C'è uno sgabello vicino al letto; mi ci siedo, sfiorandole la mano, il polso, cercando di trasmetterle il calore che non ha.

Non ha un respiratore collegato, respira da sola, ma ha altri tubi collegati al braccio e il bip dell'elettro-cardiogramma mi fa compagnia. I battiti sono regolari. Ha anche una flebo collegata al braccio sinistro e una sacca di sangue.

< Sole, sono qui. > Le mormoro, sperando che possa sentirmi, accarezzandole la fronte e i capelli.

Le stringo la mano e non posso impedire a qualche lacrima di rigarmi le guance; le caccio indietro, perché, se può sentirmi, non voglio che senta la mia voce incerta e interrotta dai singhiozzi o dalle lacrime.

< E' un maschietto, sai? L'infermiera ha già affisso la targhetta con il suo nome, sul lettino; ho deciso per James, il nome che ti piaceva tanto, ricordi? > Lo so che non può rispondermi, ma io le parlo lo stesso.

< Vorrei che ci fossi anche tu a prendere queste decisioni, Solephine. Mi manchi come se fossero trascorsi anni e non ore. Devi svegliarti, non puoi lasciarmi da solo, Sole, non puoi. > Tiro su col naso e cerco di non piangere.

< Ti ricordi... ricordi che dicevi che... che volevi che avesse i miei occhi? Saresti contenta, sono azzurri come i miei e grandi come i tuoi... > Altre due lacrime seguono il percorso delle precedenti.

Ha il trucco sbavato ed è immobile, come una statua di marmo.

< Devo andare. Tua madre vuole salutarti, ma torno presto, d'accordo? > Mi alzo e le accarezzo di nuovo i capelli.

< Ti amo. > Le bacio le labbra con delicatezza, come se potessi romperla e la abbandono a malincuore, voltandomi indietro prima di varcare la porta che mi riporterà nel corridoio deserto dell'ospedale, dove solo Sofia mi aspetta.

Ringrazio Rupert con un cenno e mi libero della vestaglia, della cuffia e dei copri-scarpa, cedendo il posto a Sofia.

Voglio tornare a casa.

Voglio addormentarmi e scoprire, domani mattina, che è stato solo un incubo, che Solephine è ancora nella sua parte di letto che dorme, che non si sveglierà fin quando non sarò io a farlo, abbracciandola e accarezzandole il pancione.

Voglio chiudere gli occhi e non essere costretto a riaprirli, ritrovandomi da solo, annientato, i cocci di una vita da rimettere insieme.

Vorrei aver insistito di più per mandarle quella macchina e per non farla guidare.

 

La casa è vuota, nessuna luce accesa, nessuna tavola apparecchiata per la cena; solo la boccia di pesci rossi in un angolo e il senso di vuoto che mi pervade. Non riesco neanche ad essere felice del fatto che da domani dovrò occuparmi di James, che potrò portarlo a casa, perché non era così che l'avevo immaginato.

Lascio le chiavi nello svuotatasche all'ingresso, avvicinandomi alla boccia di vetro dei pesci per dar loro il mangime. Li invidio, in questo momento: hanno una memoria non superiore ai tre minuti, perciò, fra tre minuti, non ricorderanno di trovarsi in una boccia, di essere un gruppo, di avermi mai visto dar loro da mangiare. Vorrei dimenticare tutto anch'io, subito, perché tre minuti sono troppi.

Opto per una doccia e, anche se il letto è troppo grande per una persona sola, mi ci stendo ugualmente, assicurandomi che il cellulare rimanga acceso sul comodino, in caso di emergenza, poi spengo l'abat-jour e chiudo gli occhi.

So già che non dormirò, so già che non farò altro che fissare il soffitto e attendere che faccia giorno, so già che i raggi del sole mi feriranno gli occhi, perché ho dimenticato di chiudere le tende, perché era lei che se ne ricordava, era lei che lo faceva sempre, prima di andare a dormire.

Osservo il cellulare sul comodino; cosa spero? Che squilli, che sia l'ospedale, che sia Rupert che mi comunica che mia moglie ha riaperto gli occhi?

E' troppo presto, devi darle del tempo. 

E' quello che mi suggerisce la mia coscienza; potrebbe svegliarsi anche domani, o fra un mese, nessuno può dirlo, ma stanotte no, stanotte è troppo presto, anche se a me sembrerà comunque troppo tardi.

Chiudo di nuovo gli occhi, ma non riesco ad abbandonarmi, non riesco a sentirmi al sicuro senza di lei.

Mi manca.

E' troppo presto, devi darti del tempo.

   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su attori > Robert Pattinson / Vai alla pagina dell'autore: Frytty