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Autore: lewisherondale    16/04/2013    0 recensioni
Brividi e vertigini, poi più nulla. Cinque immortali, un amore passionale quanto estremamente pericoloso, un solo destino. Lexie ha quasi diciassette anni e seguitamente all'assassinio di suo nonno comincia ad avere strane visioni di se stessa in altre epoche sconosciute quanto inspiegabilmente familiari. I suoi ricordi sono criptati nella sua mente, per proteggerla. Ignara della sua stessa natura, Lexie fa parte dell'Ordine dei Cinque, può essere infatti uccisa soltanto nel suo passato, ragion per la quale è stata costretta a dimenticare. L'incontro di Kyle sconvolge la sua mente, ne riapre le conoscenze, una nuova consapevolezza sorge solenne quanto un dovere. L'Ordine dovrà dunque riunirsi ed unire le proprie essenze, come alle origini. Amicizia, orgoglio, valori tipici d'una normale adolescente, non andranno a mancare nella vita di un'impacciata e leggermente sfigata ragazza da un grande potere.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
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1.
Erano le otto del mattino, un lieve fascio di luce sfidò la pesantezza delle tende di seta scura e m'arrivò dritto al viso, costringendomi ad aprire gli occhi. 
Sbattei pesantemente le palpebre e strinsi forte la coperta. Non volevo alzarmi, avrei voluto rimanere sepolta nelle mie stesse macerie per tutto il giorno, con la testa nascosta sotto il cuscino. Con le lacrime che pian piano s'incrostavano al viso, un viso che sapeva di sale e mascara colato. Bloccai la sveglia prima che potesse suonare, desiderai ardentemente di restare intrappolata in quel silenzio inviolabile. Mi sfilai di dosso le lenzuola e lanciai uno sguardo allo specchio. Inorridii, strofinandomi forte gli zigomi macchiati di nero, strofinado gli occhi rossi e riavviando i capelli. Spalancai le ante dell'armadio con una forza tale, che buona parte dei vestiti finirono rovesciati a terra e mi trattenni dall'imprecare pesantemente. Scavai a fondo tra le pile di vestiti, ma nulla sembrava mio. Troppi fronzoli, troppo grigio, troppo scialbo, troppo niente. 'Qualcosa di nero' pensai, e ripresi a rovistare nel chaos alla ricerca di qualcosa che vi si avvicinasse. Riemersi con in mano un vestito di raso nero, lungo fino alle caviglie con un profondo spacco a V sul petto. Sembrava perfetto. Sorrisi stringendolo tra le braccia, con scrupolo, era davvero bello. Sciolsi i capelli corvini che ricaddero come una nuvola indomabile sulle spalle diafane, e mi voltai di nuovo verso lo specchio. Abbozzai un'espressione interrogativa alla ragazza riflessa, per niente alta, pallida come porcellana, il viso spruzzato da un sottile velo di lentiggini aranciate.
Espirai a lungo, accasciandomi sul letto di nuovo, nascondendo il viso fra le mani, accarezzandomi la nuca con carezze incerte. Lui lo faceva, lo faceva sempre, ma l'effetto non era lo stesso. Indossai quel vestito, sperando di sentirmi bella. Mi girai e rigirai su me stessa, l'orlo dell'abito danzava nell'aria come una macchia d'ombra.  
Tutti quanti erano già al piano di sotto, sentivo il loro vociare sommesso, le loro preghiere, il silenzioso gridare delle loro angoscie. Avrei voluto urlare, urlare così forte, che anche lui avrebbe potuto sentirmi.
Avrei voluto chiedergli come aveva potuto andarsene a quel modo, senza neppure un saluto, senza neppure un biglietto, un bacio d'addio. E lasciai che il trucco colasse nuovamente sulla pelle lattea.
Che importanza aveva? Lui non c'era più. Non avrebbe potuto vedermi. 
- Sei pronta? - una voce gentile irruppe nel silenzio, mia madre.
- Quasi - risposi, ripulendo il viso con il dorso della mano.
- Tesoro, mi dispiace - sussurrò, mentre la voce le moriva in gola.
- Non è colpa tua -
- Lo so. - e silenziosamente com'era apparsa, svanì dietro la porta, richiudendola impercettibilmente. 
Decisi che quel giorno non mi sarei truccata, che non m'importava del fatto qualcuno avese potuto immortalare ogni mia piccola imperfezione.
Raccolsi i capelli in uno chignon disordinato, e calzati un paio di stivali neri in pelle fino al ginocchio, uscii dalla mia stanza. 
Quando scesi le scale, sentii gli occhi di tutti i presenti aderirmi alla pelle, quasi come un secondo vestito. Nessuno parlava, eppure i loro pensieri erano così limpidi, che non potei non pensare d'essere pazza. 
Le finestre erano spalancate e una pozza immensa di luce abbracciava l'intero salone. Ognuno calzava il proprio abito buono per le occasioni importanti.
La nonna sedeva sul divano, immobile, circondata da almeno una diecina di donne che a turno le accarezzavano la schiena e le baciavano la mano. La mamma era indaffarata in cucina mentre papà conversava
con gli ospiti, graditi o meno. Le zie erano appollaiate davanti al camino, non capendo che, il freddo che sentivano, ce l'avevano dentro. 
- Stai bene, cara? - la prozia Julien m'avvolse la vita nel suo braccio grassoccio, da bambina pensavo che avesse potuto sorreggere l'intero mondo con tutti quei muscoli e quella ciccia messi insieme,
per un istante le fui immensamente grata per quella stretta vigorosa, che in qualche modo, riusciva a tenermi ancorata proprio dov'ero, senza permettermi di fuggire.
- Si, è okay. - risposi, sforzandomi d'assumere un'aria imperturbabile. 
- Non possiamo continuare a fingere che non sia successo niente, tesoro. Affronteremo quest'orribile situazione insieme - affermò, stringendomi a sè.
- Non ho alcun problema. - sentenziai, liberandomi dalla morsa infallibile delle sue braccia. 
- Sei pallida come un cadavere, non parli con nessuno - continuò, aumentando la pressione della sua stretta.
- Mi stai soffocando, sto bene, ricordo ancora come si sta in piedi. Tra l'altro, sono appena arrivata - conclusi, voltando il viso dall'altra parte, sforzandomi di non guardarla negli occhi.
- Se non fossi arrivata io, avresti parlato con qualcuno? - 
- Probabilmente no, ma solo perchè non ne ho alcun interesse. Sono un branco di poveri idioti, ipocriti per giunta - 
- Volevano bene a tuo nonno - disse, lanciando uno sguardo fulmineo al resto della sala.
- Molti di loro non lo conoscevano nemmeno, sappiamo bene perchè tutta questa gente è qui - bofonchiai, desiderando di tornare al piano di sopra.
- E perchè mai, sentiamo? - 
- Vogliono vedere la ragazza che ha trovato il proprio nonno morto sulla veranda di casa. La ragazza che ha come migliore amico uno strizzacervelli, la pazza che è stata sospesa da scuola. - 
- Non essere egocentrica, Lexie. Hai tentato di dare fuoco alla macchina del tuo professore di lettere, quella sospensione te la sei meritata. Ritieniti fortunata che non ti abbiano fatto ripetere l'anno - obiettò la zia.
- Una vera fortuna - sputai. 
- Vai da tua nonna, aiuta tua madre con gli ospiti, parla con qualcuno che non sia io, fa' qualcosa - 
- Me ne torno in camera, divertiti - replicai, voltandomi.
Il silenzio piombò sulla sala proprio come poco prima, un silenzio opprimente ed insostenibile.
Instintivamente, feci per rivolgermi a tutti i presenti.
- Se avete qualcosa da chiedermi, rivolgetevi alla diretta interessata, o fatevi gli affari vostri - 
Lessi lo sgomento sui loro volti e non me ne curai, lanciando un ultima occhiata alla folla, ripercorsi le scale e me ne andai.
 
Quando mi chiusi la porta alle spalle avvertii di nuovo quella sensazione, come se mancasse l'aria e la stanza si restringesse. Sentii qualcosa disgregarsi dentro di me, come se non ci fossero più vincoli a tenermi stretta alla realtà, caddi a terra con il petto che si alzava e abbassava a spasmi irregolari, rivolsi il volto al soffitto, come se il bianco dell'intonaco potesse ancorarmi a quella dimensione terrena. Stava succedendo di nuovo, proprio come quella sera. Conficcai le unghie nel palmo della mano, sperando che il dolore potesse mettere fine a quella straziante condizione d'impotenza, ma a malapena riuscii a percepire il fastidio sulla pelle. Feci per gridare, ma la voce si affievolì fino a soffocarsi in un rantolo, mentre la bocca si riempiva del sapore acre e metallico del sangue. Infine il buio, e l'impressione d'essere strappata dal mio stesso corpo e scaraventata altrove, inghiottita dalle ombre.
 
Avvertii un dolore lancinante alla testa, quando mi svegliai, stordita e completamente sola, in un'enorme salone rinascimentale. Trattenni il fiato e spalancai gli occhi, constatando quanta magnificenza avessi intorno a me.
Ogni parete era coperta da un affresco raffigurante scene di vita quotidiana, una battuta di caccia, donne rapite da preghiere devote, un tramonto meraviglioso sulle
acque oscure di un lago circondato da arbusti e querce imponenti. Alte colonne barocche si ergevano fino al soffitto, congiungendosi come fili sottili d'edera selvatica in disegni astratti ed intricati. Sembrava tutto così surreale che credetti di sognare, o peggio, d'essere morta, ma il dolore penetrante alla tempia escludeva entrambe le possibilità, da qualche parte, quel posto esisteva davvero. Mi alzai in piedi, massaggiandomi lentamente gomiti e ginocchia e continuai a guardarmi intorno. Chiunque abitasse quel luogo, non se la passava male di certo. Cercai di trovare una spiegazione plausibile che non includesse la pazzia, senza riuscirci. Vagai per la sala come se sapessi dove andare, dove guardare, come se ai miei occhi fosse tutto così limpido da poter cogliere ogni singolo particolare: i motivi floreali sulle tazze da tè sul tavolo in ferro battuto, il color cremisi delle stoffe che ricoprivano le sedie disposte in maniera perfettamente simmetrica. In qualche modo, ero sicura d'essere già stata in quel luogo, anche se ero perfettamente consapevole del contario. ''Dev'essere un sogno'' pensai. Sfiorai con la mano la superficie di un arazzo egizio sulla parete Ovest, come se quel gesto contenesse nella sua inesperienza un'inconscia consuetudine, meravigliandomi che la stoffa consunta dal tempo facesse al tatto proprio lo stesso effetto che immaginavo. D'improvviso dei passi ruppero il silenzio e fui pervasa da un irrefrenabile terrore. Dopo tutto, sogno, dimensione parallela, giardino dell'Eden o Isola Che Non C'è, insomma, ovunque fossi, ero un'intrusa e sentii l'impellente bisogno di nascondermi, senza sapere dove. Per la prima volta, da quando fui arrivata, mi sentii persa. Poi lo vidi, un immenso armadio di almeno due tonnellate, sembrava vecchio di secoli, decorato da ornamenti d'oro e argento, siglillato da una maniglia d'ottone lievemente arrugginita. La volsi prima a destra e poi a sinistra con uno scatto repentino, come se l'avessi fatto un milione di volte, ed entrai, immersa in un nauseabondo odore di vecchio e legno corroso. Raccolsi le gambe al petto, cercando di spiare dalla serratura quanto potevo. Ora i passi erano più vicini e potevo avvertire due voci appena distanti, un uomo e una donna. Il modo in cui i due erano vestiti m'inquietò. Nessuno sano di mente si sarebbe vestito a quel modo, la donna indossava un lungo vestito tutto pizzo e crinoline color panna, che s'infrangeva in pieghe morbide e regali fin sul marmo turchese, aveva il busto compresso in un corsetto dorato e stretto, tanto che provai pena per i suoi polmoni, schiacciati in una cassa toracica che a breve avrebbe ceduto sotto la pressione dei ferretti di quel busto infernale. L'uomo era alto ed esile, la prima cosa che notai, subito dopo il frac e le scarpe di vernice col tacco, fu il suo naso importante. Aveva i capelli nascosti da un insolito cappello spiovente, dal quale fuoriuscivano diversi pennacchi variopinti. Sembrava una scena d'altri tempi, o forse, lo era. I due parlavano a diversi metri di distanza, divisi da un palese pudore formale, mi chiesi come riuscissero a sentirsi l'un l'altro. L'uomo sembrava quasi dispiaciuto. Dopo alcuni minuti, in cui non riuscii a capire neppure una parola, i due si alzarono nuovamente in piedi, avvicinandosi pericolosamente al mio nascondiglio,non ero ancora riuscita ad inquadrare il viso della ragazza, ma aveva qualcosa di estremamente..familiare. Il gentiluomo le poggiò affabilmente una mano sulla spalla, e le inchiodò gli occhi nei suoi. 
- Mi dispiace molto, Marguerite. E' l'unico modo per salvare il regno, vi auguro tanta felicità - sospirò, costernato.
- Mi siete molto caro Sir Jean. Quando ho accettato di ereditare le ricchezze della prozia Marian mi sono assunta le responsabilità che avrebbe comportato il possesso di un regno così vasto. La povertà sta decimando la nostra gente e capisco perfettamente perchè i miei genitori abbiano combinato questo accordo con la famiglia Raynolds. Fa parte dei miei doveri. - dichiarò la ragazza, con un filo di voce estremamente cortese. 
- Sposerete uno sconosciuto, nessuna ragazza della vostra età desidera questo per se stessa, eppure avete accolto la faccenda con estrema maturità - affermò Sir Jean, in un misto d'ammirazione e compassione.
Marguerite passò una mano esile tra i riccioli castani che le ricadevano lungo la schiena fino ad accarezzarle la vita sottile, poi sorrise timidamente ed esibì un inchino aggraziato.
- La ringrazio. Dunque è confermata la data delle nozze? Il signor Raynolds vuole celebrare l'unione in primavera - l'informò ricomponendosi, assumendo le fattezze di una bambola di porcellana.
- Vada per Aprile allora, riferirò al principe la vostra disponibilità. Sinceri auguri, purtroppo sono costretto a congedarmi dalla vostra presenza, ho un mucchio di affari burocratici da sbrigare - così dicendo, si tolse il cappello in segno di rispetto ed accennò un inchino a sua volta, chiudendosi la porta alle spalle con estrema cura, svanendo nel ticchettio dei propri passi.
Eravamo sole nella stanza, e la giovane doveva essere indubbiamente sicura che nessuno la stesse guardando quando, accucciandosi scompostamente a terra, iniziò a piangere e ad intonare un canto cristallino. 
Le parole erano a malapena comprensibili, la voce era interrota dai singhiozzi e resa saltuaria dalle contorsioni del petto. Eppure mi sembrava di conoscere le parole, tanto che la melodia cominciò a prendere forma nella
mia mente. Provai un'agghiacciante sensazione nelle costole, come se quel dolore che tanto lacerava il cuore della fanciulla, appartenesse anche a me. 
D'un tratto mi accorsi di ciò su cui ero seduta, un abito tanto sfarzoso da occupare in volume tre quarti dell'armadio, bianco come la neve, tempestato di piccole perle e pietre dure. Il suo abito, l'abito da sposa. Immediatamente presi a lisciarne le pieghe, pregando di non aver sporcato i merletti con le logore scarpe da ginnastica, quando dalla minuscola fessura intravidi un movimento blando, una figura snella che s'avvicinava. La ragazza stava per aprire l'armadio, ed io? Sarei saltata fuori gridando 'Ehi, sei su Candid Camera!' ? Ovviamente no, visto che in quel secolo non c'era neppure l'elettricità. 
Avrei approfittato della vicinanza per vederle il viso, finalmente, ciò che sarebbe successo dopo non avrebbe avuto importanza, probabilmente mi sarei semplicemente svegliata da quello strano sogno.
Quando la vidi in volto, quasi non soffocai. Aveva i miei stessi occhi, le stesse lentiggini libertine su un volto estremamente pallido. Rabbrividii. Ero io
 
Aprii gli occhi e mi sembrò di respirare per la prima volta dopo tempo immemore. Fu come riprendere vita, l'aria fresca e pungente nei polmoni mi costrinse ad una tosse forzata, ma inspirai a lungo per averne ancora. Ero stesa, sul pavimento gelido della mia stanza, non meno pallida di un cadavere. Ora nel mio sguardo vidi riflesso quello di Marguerite, le stesse sofferenze. Non poteva essere vero. 
'E' stato solo un brutto sogno' sussurrai, come per bisogno di convincere me stessa. Eppure sembrava così reale, i suoi occhi erano i miei. Lei era me. Ma tutto ciò non aveva senso. Nessuno che fossi in grado di comprendere, almeno. twitter: @lewisherondale
   
 
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