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Autore: Luna_R    17/04/2013    0 recensioni
“Posso invitare la mia futura sposa per un ballo?!”
Quelle furono le prime parole che gli sentii pronunciare.
Acconsentii a farmi trascinare al centro della pista sotto i gridolini eccitati delle giovani presenti; eccoci quà, la fiaba vivente del vissero per sempre felici e contenti. O perlomeno questo era quello che gli altri vedevano in noi. Soprattutto mia madre che nel momento esatto in cui le nostre mani si sfiorarono si sciolse in un brodo di giuggiole.
DAL CAPITOLO 12:
“Io ti credo. Se fossimo di facile comprensione non esisterebbe la scienza. L’uomo non si porrebbe domande e ci costringeremo a vivere una vita piatta, blanda, senza trasporto. Siamo fatti di emozioni incalcolabili e imprevedibili. Credi nel destino, Deesire?!”
Annuii; non ero forse la miglior rappresentazione di foglio bianco sul quale si era sfogato?!
“Le cose accadono perché siamo noi che vogliamo succedano. Dio mi liberi da questa società retrograda e puritana, siamo donne e possiamo decidere della nostra vita! Perciò ti dico: il destino è una bufala amica mia, ascolta il tuo cuore e segui ciò che dice, senti la tua pancia, le vibrazioni del tuo corpo, ascolta la mente ma filtra i divieti.. e non sbaglierai. Decidi. Tu.”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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ZENZERO E CANNELLA

Capitolo 7.

 

“Margaret, non correre tesoro!” La testolina castana e riccia di una bambina sbucò da dietro il mobile; con una corsetta impacciata venne verso di me e si appigliò al mio vestito con le sue manine; mi piegai su di lei prendendola in braccio. Adorava quel gioco, ed io adoravo lei.

“Zia! Zia! Zia!” Non la smetteva di chiamarmi, con la vocina acuta e strillante.

“Allora Deesire, a quando un pargolo Chedjou?!”

Erano passati appena sette mesi dal nostro matrimonio e praticamente tutta la famiglia non faceva altro che ricordarmi l’assenza di un figlio; come se per me e Aurelien fosse impensabile desiderare almeno del tempo prezioso tutto nostro, prima di figli, pappe e pannolini. Alzai le spalle, passando alla bambina il succo di frutta poggiato sul tavolo.

“Stiamo bene così.”

Sapevo di essere vaga, ma l’argomento mi rendeva ansiosa; in sette mesi di rotolamenti e abbarbicamenti degni di contorsionisti circensi, del pargoletto in questione, desiderato o non, non se n’era avuta traccia e nemmeno mezza avvisaglia; continuavo come ogni donna a questa terra a dannarmi ogni ventotto giorni per poi tornare in aggrovigliamenti degni di nota con il mio bellissimo marito.

Ero felice e al momento non desideravo altro, ma il mondo a quanto pare no.

“Dovresti farli subito invece..” Mi guardò maliziosa; sapevo esattamente cosa avrebbe voluto dire se la sua stupida bocca a sedere di gallina avesse potuto pronunciarsi. Le sue mire erano su chi sarebbe stato il primo erede Chedjou, non le importava nulla del pargoletto in quanto tale e quando notò che arcuai il sopracciglio proseguì vagheggiando. “A vent’anni si è giovani è forti.”

Come no, pensai. E molto maturi, proprio come tuo marito Lolla –che era una delle cugine di Aurelien- sempre chiuso in qualche locanda con donnine poco raccomandabili della Parigi notturna. Si raccontava che Lolla fosse incinta quando conobbe Lucas -figlio di un blasonato notaio in città- e che in qualche modo fosse riuscita ad incastrarlo sulle prime convincendolo della paternità ma che lui poi sia riuscito e smascherare l’inganno in un secondo momento, mentendo tacitamente la verità per proteggere gli interessi suoi e della sua famiglia, passando il tempo a sollazzarsi con allegre fanciulle e che lei gli perdoni tutto per essersela tenuta. E per i sonanti franchi ovviamente.

Voci certo, ma si sa in mezzo a un mare di bugie una goccia di verità c’è sempre.

Le sorrisi disarmante. “Ma io ho diciotto anni, Lolla. E il matrimonio ormai è sigillato.” Le donne presenti in salotto risero. Quella mi guardò sgranando gli occhi, mettendo a tacere le compagne intavolando vecchie chiacchiere precedenti su vestiti, stoffe e colori alla moda. Scossi il capo, adagiando Margaret nella culla; guardandola bene aveva ben poco di Lucas e anche meno di sua madre, era vivace, allegra, intelligente. Una fortuna direi, con i genitori che gli erano capitati. Le accarezzai il capo e tornai al mio posto.

“Se vuoi ce ne andiamo.” Ines mi avvicinò con una tazza di the e dei pasticcini al limone.

“Perché mai. E’ così divertente stare qui..” La donna mi sgomitò divertita ed io agitai il capo in segno di approvazione. “Sì, ti prego andiamocene.” La mia bellissima e flessuosa suocera si congedò scusandosi per il cattivo tempismo e per impegni inderogabili, sorrise molto spesso e sciorinò un repertorio di complimenti che nel giro di dieci minuti ci portò in macchina, direzione casa. Amavo passare il mio tempo in sua compagnia, era una donna incantevole, con mille storie di viaggi da raccontare, posti da visitare –come minimo, grazie a lei, ho la conoscenza di almeno tre quarti di botteghe e buchi di antiquariato, vecchie librerie le sue preferite e le mie, presenti in città- più tutta una lista di personaggi blasonati e meno catalogati per età, impegni culturali e sociali, favori da chiedere o ricevere.

Ines Lefebvre era una vera forza, il mio passatempo preferito, che magari può risultare come una cosa poco carina.. ma avreste dovuto conoscerla per giudicare da voi.

Il tempo libero era una cosa che non mi mancava, sebbene Aurelien avesse mantenuto la promessa di continuare a farmi scrivere senza farmi subire strane pretese da marito, quella parte di tempo passava in fretta e lui era spesso via per lavoro; ora che condividevamo lo stesso tetto mi rendevo conto di quanto questa responsabilità verso le aziende di famiglia lo assorbissero, da fidanzati era bello aspettare con impazienza il momento di rivedersi, ma alla sera quando insieme ad Ygritte –una cameriera russa che mia madre aveva voluto a tutti i costi rifilarmi- apparecchiavamo la tavola e il suo posto era ancora vuoto sentivo una sensazione alla bocca dello stomaco come una pugnalata. Mi mancava, volevo le sue risate, il suo profumo inebriante per la casa, i suoi vestiti sparsi in camera. Avevo scatenato una vera avversione per l’ordine, vietando severamente ad Ygritte di toccare qualsiasi cosa Aurelien lasciasse in giro.

Sì, lo so cosa starete pensando; ecco le paranoie da stupida signora ricca e annoiata.

Non era proprio così. Avevo i miei interessi, oltre la scrittura certo, io e mia madre passavamo dall’essere membri e in alcuni casi presidentesse di alcune charity umanitarie, a pomeriggi socialmente inutili il cui tema principale era il mondo della moda; mi davo da fare nell’organizzazione così che non mi scocciasse troppo per i musi lunghi che mettevo su quando il mio Aurelien era via.. ma cosa volete, essere moglie di uno degli uomini più ricchi di Parigi negli anni trenta mi permetteva di avere -a dispetto di tutto- del tempo libero, troppo tempo libero.

 

“Che c’è?! Sei pensierosa mia Deesire?!” Ines ed io eravamo solerti confrontarci molto di ritorno dai salotti borghesi delle pettegole, ma stavolta il mio profilo era stagliato contro il vetro dell’auto su di un tramonto sulla Senna. “Ahimè Lolla non brilla d’arguzia.”

Sorrisi, guardandola grata. “Ines.. dimmi la verità è così terribile non desiderare un figlio più di tutto?!”

Mi toccò la mano, penetrandomi con i suoi intensi occhi verde bottiglia. “Ci sono donne e donne Deesire. Prima di avere Aurelien ho perso due figli. Uno di questi è nato morto, un vero shock, tu comprendi?!” La guardai a bocca aperta, non sapevo nulla di questo, l’avevo sempre immaginata come la ballerina sinuosa e perfetta che aveva prima centrato la carriera e poi messo su famiglia. Perfetta da sembrare inumana. Mi sentii stupida. “Non ne volevo più sapere, avevo pregato Martin di trovarsi un’altra donna, che forse io non ero fatta per questo, gli dicevo che era la mia colpa perché per me, la vita, erano sempre state solo le mie scarpette e il tutù e per questo punita per tanto egoismo. Poi è arrivato Aurelien e ho dimenticato tutto, persino la danza.” Guardò lontano, gli occhi lucidi. “Siamo così complesse Deesire, il nostro cuore è una mappa con vie indecifrabili. Chi può dire dove ci porterà domani?! Perciò no, non è così terribile, quando arriverà il momento te lo sentirai dentro e allora nulla avrà più importanza.”

Sapevo che aveva ragione e sapevo che sarebbe stato così. Avrei goduto dell’amore per mio marito fino a quando un piccolo esserino mi avrebbe ordinato di essere il centro del suo mondo ed io obbediente avrei accettato, perchè anche se non avevo capito e provato fino in fondo cosa significava tutto quell’amore, le lacrime di Ines si erano spiegate bene. E fu così, che mi chiusi in silenzio tombale e mi persi su un volo di gabbiani portati via dal vento.

 

Sfilai soprabito, guanti e cappellino e lasciai tutto a Ygritte; l’inverno più rigido che ricordassi si stava manifestando nella Ville Lumiere in tutta la sua glaciale bellezza. Le strade si ghiacciavano in fretta, sarebbe caduta la neve si diceva. Mi accomodai davanti al caminetto, sciogliendo le mani al calore delle fiamme crepitanti, ed attesi con un buon libro e un bicchiere di cognac l’arrivo della sera.

“Madame è pronto in tavola.” La voce della cameriera mi arrivò distorta oltre la corte di cognac e sonno; fissai l’elegante orologio a pendolo notando con stupore che erano quasi le otto.

“Ti prego lascia tutto dove è.” Mi alzai, sbadigliando. “Torna pure a casa Ygritte, fa molto freddo e non vorrei che arrivassi tardi dai tuoi bambini a causa mia.”

“Come Madame desidera.” Si affrettò a tornare nelle cucine, mentre varcavo i corridoi ciondolando e rendendomi conto che Aurelien non era ancora rincasato; passai per la sala dei pranzi e delle cene, Ygritte aveva coperto i piatti e spento le candele. Sul tavolo un mazzo di rose rosse e un biglietto.

 

“Farò tardi ma saprò farmi perdonare.

Ti amo.

tuo Aurelien.”

 

“Li ha mandati Monsier Chedjou quando era via, madame.” La donna tornò alle mie spalle con il cappotto fra le braccia, le sorrisi annuendo, si congedò e richiuse la porta alle sue spalle.

“Addio alla bella cena..” Sprofondai sulla sedia alzando uno dei coperchi; l’odore del cibo mi nauseò e lo abbassai di nuovo. Qualcuno suonò alla porta, mi alzai ad aprire, ma il movimento fu preceduto dal suono di un giro di chiavi nella toppa; mi tremarono le gambe.

Deesire?!” La voce di Aurelien sopraggiunse prima di un mio pianto a dirotto e una crisi isterica; si affacciò alla stanza e mi trovò ammusonita, con gli occhi gonfi e lucidi bivaccata sulla sedia.

“Amore non stai bene?!” Lasciò scivolare via le sue cose, la ventiquattrore, sciarpa e cappello e mi fu addosso; mi misurò la temperatura con la mano, corrucciando la fronte in una buffa espressione ansiosa.

“Aurelien sto bene, mi ero solo addormentata.” Sorrisi scostando la sua mano fredda dal viso; passai gli occhi sulle sue spalle, mi irrigidii percorsa da una scossa. “Hai un fiocco di neve sulla giacca!” Cercai, come una bambina che vede la neve per la prima volta in vita sua, di acchiapparlo con un dito, ma questo al contatto con il calore si squagliò inesorabilmente. Risi, prendendo Aurelien per mano.

“Mia madre dice che porta fortuna.” Ci spostammo vicino alle finestre, scostando le pesanti tende di broccato; nel frattempo il gelo si era fatto prepotentemente bianco e le strade andavano cambiando colore.

”Hai preso un fiocco Aurelien, ora puoi esprimere un desiderio.”

“Cosa potrei chiedere di più?!” Mi strinse teneramente al suo petto, baciandomi i capelli.

 

Restammo in silenzio ad ascoltare il “rumore” sordo della neve, abbracciati e nudi, sui tappeti bianchi di pelo attorno al caminetto, l’aria era fredda dagli spifferi dei vetri e il cielo si era tinto di arancio riflesso della luce dei lampioni contro il bianco della neve; fuori un cane abbaiava alla luna nascosta dalle nuvole, le candele era spente da un po’ e la cena fredda come il marmo nelle nostre stanze.

“Ti riscaldo qualcosa.”

“Non osare alzarti..” Mi buttò il suo peso addosso, muovendosi alla ricerca del piacere. “Non ho ancora finito!” Mi soffocò di baci le guance, il collo, le braccia, facendomi ridere a crepapelle, poi un sussulto, il mio, quando con le mani smise di giocare e cominciò a fare sul serio. Di nuovo.

“Mi chiedevo..” Finito di fare l’amore Aurelien era un fiume in piena di parole, come se donarsi a me lo sbloccasse nei pensieri, ogni tanto scherzando lo chiamavo liege, sughero, come il tappo che conserva il vino dalla rovina, così Aurelien preservava il suo meglio per momenti come questo. “E se ce ne andassimo per un po’ad Auvers? Potremmo trascorrere qualche giorno lontano da tutto e tutti.”

Avevo sentito già parlare di Auvers-sur-Oise, un piccolo borgo di campagna fuori città, noto alle cronache per il pittore Van Gogh che ci aveva passato gli ultimi mesi di vita prima del tragico suicidio, ma anche perché Aurelien, da piccolo per problemi di salute aveva vissuto lì, lontano dagli umori nefasti della città; da ragazzina trovavo la vita da campagnolo assolutamente allettante, lì dove il tempo sembrava fermarsi nonostante il lavoro da spaccarsi le mani, i ruscelli cristallini, gli animali delle fattorie, i fiori.. sì, dovevamo andarci, non avevo alcun dubbio. “ Il prima possibile, ti prego!” E mi appesi al suo collo.

“Mah vediamo.. questo fine settimana?! Prima che la neve attecchisca.”

“Sì! Mi farò aiutare da Ygritte.” Mi alzai e corsi dal corridoio alle scale, in stanza afferrai una vestaglia, alzai i capelli e tornai in basso; con la velocità di un fulmine mi recai in cucina e ne uscii dopo una ventina di minuti con dei fumanti piatti da portata. Aurelien mi guardò esterrefatto. “Che c’è?! Non voglio farti morire di fame.. non prima di andare ad Auvers!” E scoppiammo a ridere all’unisono.

 

 

All’indomani della nostra chiacchierata avevamo la casa piena di valigie e borsoni da caricare in auto; la luna di miele che non avevamo mai avuto –Ines e Martin ci avevano regalato una traversata via mare per l’Africa che non avevamo avuto il tempo materiale di compiere dato i giorni di navigazione necessari, ripromettendoci di farlo presto che però.. non era ancora arrivato- era solo un vago ricordo fastidioso, adesso avremmo goduto come tutti i novelli sposi di un momento di quiete tutto nostro, lontano dal chiacchiericcio della città e questo mi rendeva assai felice, liberarmi delle pettegole.. non avrei potuto chiedere di meglio.

“Quindi non ti ha detto quanto resterete là?!” Avevo invitato mia madre a colazione per darle la notizia ma neanche il tempo di far freddare il latte in tazza che mi stava riempiendo la testa di chiacchiere.

“No mamma, non l’ha detto.” Alzai gli occhi al cielo e mi sorrise. “E tanto meglio. Non mi mancherà questa città per un po’. Papà come sta? Non si fa vedere spesso dalla sua figlia maritata. Digli che andrò fino ai sobborghi a cacciarlo fuori da quelle aziende se necessario.”

Mi scrutò guardinga, posò una mano sulla mia. “Glielo dirò. Tu pensa solo a stare bene, alla tua felicità e a quella di tuo marito.. che alle chiacchiere ci penso io.” Non usò un tono minaccioso, ma da lei ci si sarebbe potuti aspettare di tutto, era stata un vero genio a rigirare la crisi delle nostre aziende facendo passare la fusione quasi un vantaggio più per i Chedjou che per noi.

“Ben detto Clorine.” Aurelien ci raggiunse vestito con abiti leggeri e informali; si avvicinò a mia madre baciandole la mano prendendo posto fra le vettovaglie da prima colazione. “Ahmed sta bene?!”

“Impegnato ma forte come una roccia. Si scusa se non può raggiungerci e vi augura un buon viaggio.”

“Dirò a mio nonno di allentare la presa, serve a tutti un po’ di tregua.” Guardò mia madre sorridendo angelico; lei lo ringraziò, prese il fazzoletto dalle sue gambe pulendosi gli angoli della bocca e guardandoci soddisfatta si alzò. “Fate buon viaggio. E siate prudenti.” Suonai la campanella sul tavolo e Ygritte apparì in sala come un fulmine; qualsiasi raccomandazione mia madre le avesse fatto prima di assumerla aveva funzionato, ritrovandomi stupita ogni volta di quanto la donna fosse celere nel suo lavoro. Mi alzai per scortala all’uscita e Aurelien con me, ma ci congedò con una veloce battuta lasciandoci a mezzaria vederla andare via.

“Giurerei che è passata solo per la tregua.” Sorrisi ad Aurelien che per mascherare una risata d’approvazione si nascose dietro la tazza. “Non l’ho mai vista abbandonare una colazione a quel modo.”

“E’ molto determinata.” Posò la tazza, ridendo all’angolo della bocca. “Sappiamo da chi hai preso..”

“Monsieur Chedjou c’è una nota di sarcasmo nelle sue parole?!”

“No madame Chedjou. Una nota di verità, piuttosto.” Si avvicinò scalando le innumerevoli sedie che ci separavano, ridendo di me e del mio broncio. “Ma ti amo per questo.” Mi baciò la mano e si alzò. “Faccio portare i bagagli in auto, un ora o ti serve altro tempo, amore?!” Lo guardai annuendo, non mi sarebbe servita più di un ora. Fremevo. Fremevo d’andare via.

 

Auvers era esattamente come me l’aspettavo, nel verde distretto dell’ile de la France spiccava e rispecchiava in pieno il termine campagna, o meglio quello che la mia immaginazione avrebbe assegnato a tale posto; la neve aveva per lo più coperto le dolci colline degradanti -che Aurelien mi aveva spiegato nella bella stagione si ricoprivano di distese di grano, campi di papaveri e girasoli- un lungo e unico viale dissestato di bruno terriccio, deliziose case di mattoni rustiche con i comignoli sbuffanti e le stalle serrate per la rigidità dell’inverno. Rimasi delusa alla vista del fiume ghiacciato ma sorrisi per una famigliola di anatre che attraversarono la lastra andandosi a nascondere fra l’erba non ancora ammantata di neve. Defilammo senza intoppi fino ad un incrocio, la famosa chiesa dipinta da Van Gogh a fare da spartiacque, imboccando la salita verso sinistra e poi oltre un ponte dove la strada si rimpiccioliva e la macchina sbuffò un po’; Aurelien mi sorrise stringendomi la mano per tutto il tempo, Jerome gentilmente “prestatoci” dai miei stringeva il volante come se dovesse cedere da un momento all’altro, ma per fortuna capii di aver superato il difficile quando Aurelien indicò un casale sulla sinistra, circondato d’edera e rovi di rose sui muri alti.

Alcune testoline giovani sbucarono da dietro le mura, all’entrata del vialetto di ciottoli, sorridendoci nei loro camici celesti e bianchi inamidati; accennai ad una protesta ma Aurelien mi baciò i capelli.

“Si occupano della manutenzione della casa, mia signora.” Mi guardai attorno, difatti quella che avevo difronte a me non sembrava proprio l’antico rustico che Ines mi aveva descritto; tutto era in ordine, i roveti spogli data la stagione ma curati, il giardino molto più grande dell’impressione che dava all’esterno, nessun segno d’abbandono davano subito all’occhio una sensazione di caldo focolare domestico. “Prego, prima le signore.”

Entrai e fui avvolta dal profumo di pane caldo e un tepore rilassante; una giovane ragazza mi salutò con affetto e cordialità. “ Madame Chedjou è un piacere fare la vostra conoscenza. Il mio nome è Rose e mi occupo di questa casa da due anni ormai e prima di me mia madre. Vogliate lasciarmi le vostre cose, prego vi mostro il resto della casa.” Guardai mio marito entusiasta, lui annuì avvicinandosi al giovanotto che trafficava con la legna nel camino.

“Cuocete voi il pane?!” Rose camminava svelta per le camere ed io le stavo dietro chiedendo il perché di questo o quello; scoprii che i pavimenti in pietra e cotto erano originali di almeno cinquanta anni e che la casa fu rilevata dai Chedjou trenta anni dopo la sua costruzione, esattamente, calcoli alla mano, pochi anni prima che Aurelien nascesse. Lo immaginai sgambettare per quelle stanze grandi e pensai alla felicità di un bambino nel giocare libero, senza freni, in un posto così altamente stimolante. Benedissi il mio taccuino sempre a portata di mano.

“Oh sì madame, se ha qualche preferenza lo comunicherò a maitre Gerald.”

“Gerald.. Picard?!”

“Sì madame, proprio lui.”

Il nostro aiuto cuoco. L’uomo salvatore dei banchetti organizzati da mia madre, la persona alla quale avrei affidato io stessa l’intero sostentamento del paese; ecco dove andava a cacciarsi quando non era in città.

“Lui è di Auvers, ma come ogni grande chef ovviamente è di Parigi.” Sottolineò l’ovviamente con una nota di sarcasmo, lasciandomi difronte un enorme porta di legno massiccio. “Questa è la vostra stanza Madame. Resto a disposizione.” Fece un leggero inchino e andò via. Aprii la porta cauta, ma delle mani grandi accompagnarono il gesto; Aurelien dietro il mio orecchio inspirava flebile.

“La nostra stanza..” Spinse via la porta lasciandomi una visuale completa; dire che fosse bellissima sarebbe stato superfluo. Il pavimento era di un caldo cotto color miele, i mobili odoravano del legno scuro che avevo scorto nel resto della casa e per tutto il perimetro di larghezza la stanza era attraversata da ampie finestre che davano sul giardino sottostante e la campagna aperta difronte a noi. Ad occhio e croce ci trovavamo esattamente al centro della casa, intorno a noi poche costruzioni al quale buttai un fugace occhiata; nessuna casa era lontanamente paragonabile alla nostra se non una, dal lato opposto e nascosta dagli alberi della radura circostante. Sembrava deliziosa e disabitata. Immaginai già il titolo per una storia.

“E’ meravigliosa Aurelien.” Mi abbracciò, baciandomi la spalla; so che mi avrebbe spogliata nell’esatto istante in cui avvertii l’impercettibile –ma per me ormai chiarissimo- sfregamento delle sue labbra contro la mia pelle –chiaro segno di desiderio- e il tremolio della mano. Non aveva smesso di essere nervoso neanche dopo l’empasse della prima volta e i chiari approcci che da sette mesi a questa parte avevamo avuto modo di sperimentare; per me era una goduria, lo trovavo straordinariamente tenero e dolcissimo.

Chiusi la porta, serrai le tende e mi buttai sul letto portandolo giù con me.

 

Riemergemmo dalle coltri di lenzuola e desiderio due giorni dopo; dormimmo per ore lunghissime, facevamo l’amore come se non ci fosse domani, spiluccando ogni tanto i caldi piatti che Gerald ci faceva arrivare dalle cucine. Quella mattina misi piede a terra per la prima volta dal nostro arrivo, la casa era stranamente silenziosa, si sentivano solo i miagolii da baruffa di due gatti lontani; infilai la vestaglia ed uscii dall’alcova rovente. C’era caldo, il camino nei piani bassi crepitava, alcune ceste con ortaggi e frutta erano state lasciate sulle panche sotto alle finestre in attesa di esser riordinate.

“Madame Chedjou!” La nota di colore e di stupore di Gerald mi fece arrossire; credo che a tutto si riferisse tranne che al tempo passato dall’ultima volta di un nostro incontro. “Le preparo subito un ricostituente.” Appunto, questo mi fece decisamente arrossire; presi una mela dalla cesta, la spolverai sulla vestaglia e diedi un morso. Avevo decisamente anche fame.

Dopo un po’ riapparì con una ciotola con dello zabaione e -a giudicare dall’odore forte- marsala amalgamati, ordinandomi di buttarlo giù senza proteste. “Quindi è ad Auvers che si rifugia in periodi come questo?!” Lo guardai distratta, ben attenta a non ferire i suoi sentimenti; non che mi importasse la provenienza di un genio simile, ma se lui ci teneva tanto ad ometterla non ero certo io che potevo impedirglielo. E poi odiavo il silenzio fra estranei –anche se in passato mi aveva permesso di aiutarlo in cucina non mi sarei mai permessa di ritenerlo mio amico- e ancora di più odiavo mangiare con una persona muta che mi osservava.

“Mi preparo per la stagione della cucina, madame Chedjou.”

Mi guardò come se sapessi di cosa stava parlando. “Cioè?!”

“Tutte le estati organizzo corsi di cucina per giovani aspiranti delle accademie e.. ricche signore annoiate, madame.” Lo guardai accigliata. “Quindi io sarei fra queste?!”

“Oh no, no..” Tossicchiò. “Auvers non è Parigi, qui è diverso. La ricchezza è intesa in altro modo; se per esempio io posseggo trenta vacche e cinquanta pecore.. io sono ricco. Se ho solo galline ma buona terra per sementi.. non sono ricco, ma vivo che è già tanto.” Sorrise guardandomi lievemente rosso in viso. “Non oserei mai paragonarla a noi, madame.”

“E perché mai?! Preferirei essere viva e ricca alla vostra maniera che ricca e morta alla mia maniera!” Risi raschiando il fondo della ciotola con il cucchiaino. “Facciamo così Gerald, adesso mi cambio e lo fai anche tu, ti togli quel grembiule che tanto monsieur Chedjou ne avrà per molto da dormire, mi accompagni per Auvers e mi fai vedere un po’ come si vive da queste parti, ok?!”

“Sì!” Si affrettò a rispondere, “faccio portare subito la macchina.”

“Eh no Gerald.. così non vale. Ho detto alla tua maniera. Non ho visto macchine qui, perciò a piedi!”

“A piedi?!”

“Sì.” Salii le scale di fretta. “Forza! Forza!”

Non avevo il minimo senso del gusto che invece possedeva mia madre, ma reputavo che fossi il genere di ragazza assennata che va incontro alle situazioni di testa ed è per questo che quando tirai fuori dai borsoni il tipo di abbigliamento che mi madre avrebbe usato certo per appiccare il fuoco nel caminetto, sorrisi tutta entusiasta; potevo sfoggiare stivaloni degni di uno svuota pozzanghere, vestiti di lana informi come piacevano a me e coprirmi con cappotti larghi che non avessero nulla a che fare con i tagli sartoriali appesi nell’armadio a Parigi. Ero veramente soddisfatta di me, sarei stata al caldo, pratica e decisamente anti glamour. Perfetta.

Arrotolai una grande sciarpa al collo, scrissi due righe ad Aurelien tanto da non fargli credere che fossi scappata a gambe levate ed uscii con Gerald sotto braccio; era una giornata piuttosto fredda, non nevicava ed il cielo era talmente terso che dubitavo in altra magia bianca, l’aria frizzante e pungente. Scendendo a valle il maitre mi accompagnò nei punti di maggiore interesse del borgo, ammirammo la chiesa tanto famosa per il dipinto universale che girò in Europa grazie a Van Gogh, passammo per il Ravoux la pensione dove l’artista passò i suoi ultimi giorni e soffrì il martirio della ferita mortale che si inflisse e per incanalare energie sufficienti per risalire le colline – dalla quale si godeva a suo dire di una vista meravigliosa- mi offrì la colazione in un tipico forno del posto proprio lì vicino, salutando energicamente le tre persone che occupavano le panche più defilate del negozio una volta entrati. Tutto era un tripudio di bontà, i croissant morbidi e fragranti e la baguette al burro si scioglieva in bocca. Comprammo alcune specialità per Aurelien ed attraversammo di nuovo il viale per la sua lunghezza, stavolta deviando, alla chiesa, verso destra per una salita ripida; avevo ripreso colore e forze ne ero certa, sentivo le guance pizzicare e come l’impressione che il freddo non centrasse nulla. Gerald mi guardava divertito e allo stesso tempo chiacchierava di aneddoti e storie che solo chi è originario del posto poteva conoscere. Lo ascoltavo rapita e rapita mi fermai dinnanzi a quello che sembrava un castello abbandonato, poche spanne dalla vetta della collina.

“Quello cos’è?! Sembra un fortino.”

“Oh madame, la sua vena artistica è stupefacente.” Gerald si portò le mani ai fianchi riprendendo fiato. “Quella era la torretta di controllo, ai tempi medievali. Il castello apparteneva a ricchi feudali che si racconta furono i primi uomini ad insediare il territorio.” Prese il respiro alterando il tono della voce. “Per me, un inutile roccaforte che non vogliono lasciarmi usare.” Berciò, con l’amaro in bocca.

“Usare.. per cosa?!”

“Un idea folle. Se vuole seguirmi, manca ancora poco al punto più alto..”

Mi misi in marcia ma non lasciai il fortino con lo sguardo per tanto che la visuale me lo permettesse; il castello era piccolo e in rovina, il tetto crollato sotto le intemperie e le mura perimetrali tutto ciò che rimanevano di quel fantasma. La torre era il suo proseguimento e forse la cosa più intatta che esisteva là attorno. Qualsiasi cosa ci avesse visto Gerald costava un certo sforzo di fantasia.

“Mi permetta.. quale sarebbe questa idea folle?!” Lo vidi arrestarsi e guardarmi perplesso. “Voglio dire, cosa c’è di tanto poetico in un mucchio di macerie che la turba così tanto, maitre?!”

Tentennò a rispondere e lo fece solo dopo essersi rimesso in marcia. “Sono un sentimentalista madame Chedjou, ci ho visto una scuola di cucina, i ragazzi di Auvers con un futuro e storie d’amore legate al cibo. Ma purtroppo la burocrazia è un male per il progresso, quindi non mi permettono ne di avere un prestito, ne di metterci le mani.”

E questo poteva essere assolutamente un buon motivo per avercela con chi mette freni a un sogno; guardai ancora alle rovine e poi a Gerald, mi convinsi a lasciar perdere ma una vocina dentro di me continuava a dirmi dillo, diglielo! “Magari potrei metterci io una buona parola, maitre Gerald.” Esordii come un pallottola impazzita. “Come ben sa il cognome che ho acquisito mi permette di aprire anche porte arrugginite.” Scherzai cercando di sdrammatizzare quella che dal mio tono di voce sembrava una cospirazione allo stato; l’uomo abbassò le spalle, un tremolio di speranza e agitazione infondo agli occhi.

“Il signorino Chedjou certo.. è un po’ meno biondo di come lo ricordavo l’ultima volta.” Sorrise ricordando la curiosa scenetta e la piccola bugia che gli avevo rifilato al pranzo di fidanzamento. “Ma non le chiederei tanto madame. E’ stata così gentile anche solo nel propormelo ma..”

“I ma sono peggio della burocrazia mio caro maitre e comunque non portano da nessuna parte. Non sto dicendo che gliela regalo, le propongo un accordo. Vuole sentire?!” Annuì divertito. “Io ci metterei il capitale, lei il suo genio. La scuola porterà il nome di mio marito il che le favorirà quanti più alunni lei immagina di ricevere e ci fornirà inizialmente un introito diciamo del.. trentacinque percento per iniziare. Quando tale somma raggiungerà il costo dell’impresa.. beh la scuola sarà sua. Ovviamente a mio marito e i suoi collaboratori spetterà l’andamento finanziario, lei guadagnerà pur riscattando il debito. Che ne dice maitre, ha ancora ma davanti a se?!”

Mi guardò incerto e balbettante. “La p-prego.. a-almeno il cinquanta per cento.”

“Quindi è un sì?!”

Allargò le braccia verso il basso, rassegnato dai suoi stessi sogni; passandogli accanto gli posai la mano sulla spalla colpendola affettuosamente due volte. Mi sorrise con gli occhi blu cobalto velati ed io mi sentii stranamente bene; lì, ad Auvers, davanti a un mucchio di rovine su di una salita ripida di campagna avevo compiuto la mia prima opera finanziaria da signora Chedjou. Mio marito ne sarebbe andato fiero.. se solo avessi trovato parole sufficientemente necessarie per spiegargli come e cosa era accaduto.

 

 

Deesire..” Lo trovai accoccolato difronte il camino in vestaglia e con bicchiere di latte adagiato accanto a se; ci sorrise divertito vedendoci arrivare mentre discutevamo sulla morte di Van Gogh e il piccolo cimitero dal quale stavamo tornando dove riposava ancora il maestro. “Fatto spese?!” Guardò ai pacchetti che stringevo fra le mani, li lasciai a Gerald che in tempo record sparì nelle cucine. Mi portai su di lui e mi accomodai sulle sue gambe, rannicchiandomi in un abbraccio. “Ti sei divertita?” Strofinò la guancia contro il mio naso freddo.

Auvers è deliziosa..”

“Sei stata sulla collina alta?!”

“Sì, ho visto la chiesa, ho mangiato brioche, sono passata per la pensione Ravoux e.. ho comprato una scuola.” Mi soffermai sul suo sguardo non più di tanto incredulo, più curioso e divertito che accigliato. “E.. ho stipulato un accordo con Gerald. Mi servono le tue arti intermediarie, il nostro buon nome, dei documenti..”

“Ok Deesire non ci sto capendo nulla! Che ne dici se cominci daccapo?!”

Gli raccontai del sogno del maitre e del mio di aiutarlo, sebbene non trovassi un recondito motivo a questa voglia se non la certa disponibilità economica che avevamo a disposizione. Potevamo permettercelo, ma non era tutto; quel fortino era stato un richiamo, un qualcosa che avevo sentito dentro. Aurelien mi ascoltò rapito, spostandomi ciocche di capelli dal viso quando parlavo concitata delle meravigliose cose che avevo visto e fatto. Poi rimuginò al fortino.

“Sai che il feudatari che lo possedevano sembra discendano dai Moreau?!”

“I Moreau?!” Era mai possibile che Fabien fosse ovunque mi girassi?

“Oh loro sono molto legati a questo posto. Diciamo che è stato il padre di Baptiste ad indirizzare mio nonno all’acquisto di questa proprietà. I primi uomini di Auvers potrebbero essere nostri lontani parenti, forse è questo che ti ha attratta.”

Deglutii scacciando la fastidiosa associazione attrazione-parenti ridendo isterica. Rimasi un po’ delusa dalla scoperta, mi ero immaginata un'altra storia, un’altra fantasia.. ma la terribile famiglia Moreau era sempre fra i piedi. Scossi il capo inorridita, gettandomi la loro presenza alle spalle.

“Sono fiero di te Dee.” Amavo il modo in cui usava quel diminutivo, “non solo ci hai visto del potenziale, sei stata anche coraggiosa nel proporre un accordo. Chiama Gerald e digli che se vuole possiamo discuterne. Appena rientreremo a Parigi cercherò di smuovere le acque.” Mi baciò imprimendo forte le sue labbra alle mie; lo amavo, era chiaro. Il suo modo di ascoltarmi, di darmi fiducia, il suo modo di comprendermi e assoggettare le mie paure e le mie gioie mi rendevano fiera di essere sua moglie.

“Ti amo Deesire.”

Eravamo in simbiosi, questo bastava.

 

*

NDA:

Ringrazio davvero tanto tutte le persone che passano di qui.

E chi lascia una traccia di sé al suo passaggio: _Nihil_ ti ho scritto una risposta lunga un papiro, ma sono davvero contenta delle tue parole. J Resta connessa e.. a presto! ;)

Un abbraccio,

lunadreamy.

  
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