ZENZERO E CANNELLA
Capitolo 7.
“Margaret, non correre
tesoro!” La testolina castana e riccia di una bambina sbucò da dietro il
mobile; con una corsetta impacciata venne verso di me e si appigliò al mio
vestito con le sue manine; mi piegai su di lei prendendola in braccio. Adorava
quel gioco, ed io adoravo lei.
“Zia! Zia! Zia!” Non
la smetteva di chiamarmi, con la vocina acuta e strillante.
“Allora Deesire, a quando un pargolo Chedjou?!”
Erano passati appena
sette mesi dal nostro matrimonio e praticamente tutta la famiglia non faceva
altro che ricordarmi l’assenza di un figlio; come se per me e Aurelien fosse
impensabile desiderare almeno del tempo prezioso tutto nostro, prima di figli,
pappe e pannolini. Alzai le spalle, passando alla bambina il succo di frutta
poggiato sul tavolo.
“Stiamo bene così.”
Sapevo di essere vaga,
ma l’argomento mi rendeva ansiosa; in sette mesi di rotolamenti e
abbarbicamenti degni di contorsionisti circensi, del pargoletto in questione,
desiderato o non, non se n’era avuta traccia e nemmeno mezza avvisaglia;
continuavo come ogni donna a questa terra a dannarmi ogni ventotto giorni per
poi tornare in aggrovigliamenti degni di nota con il mio bellissimo marito.
Ero felice e al
momento non desideravo altro, ma il mondo a quanto pare no.
“Dovresti farli subito
invece..” Mi guardò maliziosa; sapevo esattamente cosa avrebbe voluto dire se
la sua stupida bocca a sedere di gallina avesse potuto pronunciarsi. Le sue
mire erano su chi sarebbe stato il primo erede Chedjou,
non le importava nulla del pargoletto in quanto tale e quando notò che arcuai
il sopracciglio proseguì vagheggiando. “A vent’anni si è giovani è forti.”
Come no, pensai. E
molto maturi, proprio come tuo marito Lolla –che era una delle cugine di
Aurelien- sempre chiuso in qualche locanda con donnine poco raccomandabili
della Parigi notturna. Si raccontava che Lolla fosse incinta quando conobbe
Lucas -figlio di un blasonato notaio in città- e che in qualche modo fosse
riuscita ad incastrarlo sulle prime convincendolo della paternità ma che lui
poi sia riuscito e smascherare l’inganno in un secondo momento, mentendo
tacitamente la verità per proteggere gli interessi suoi e della sua famiglia,
passando il tempo a sollazzarsi con allegre fanciulle e che lei gli perdoni
tutto per essersela tenuta. E per i sonanti franchi ovviamente.
Voci certo, ma si sa
in mezzo a un mare di bugie una goccia di verità c’è sempre.
Le sorrisi disarmante.
“Ma io ho diciotto anni, Lolla. E il matrimonio ormai è sigillato.” Le donne presenti in salotto risero. Quella mi
guardò sgranando gli occhi, mettendo a tacere le compagne intavolando vecchie
chiacchiere precedenti su vestiti, stoffe e colori alla moda. Scossi il capo,
adagiando Margaret nella culla; guardandola bene aveva ben poco di Lucas e
anche meno di sua madre, era vivace, allegra, intelligente. Una fortuna direi,
con i genitori che gli erano capitati. Le accarezzai il capo e tornai al mio
posto.
“Se vuoi ce ne
andiamo.” Ines mi avvicinò con una tazza di the e dei pasticcini al limone.
“Perché mai. E’ così
divertente stare qui..” La donna mi sgomitò divertita ed io agitai il capo in
segno di approvazione. “Sì, ti prego andiamocene.” La mia bellissima e
flessuosa suocera si congedò scusandosi per il cattivo tempismo e per impegni
inderogabili, sorrise molto spesso e sciorinò un repertorio di complimenti che
nel giro di dieci minuti ci portò in macchina, direzione casa. Amavo passare il
mio tempo in sua compagnia, era una donna incantevole, con mille storie di
viaggi da raccontare, posti da visitare –come minimo, grazie a lei, ho la
conoscenza di almeno tre quarti di botteghe e buchi di antiquariato, vecchie
librerie le sue preferite e le mie, presenti in città- più tutta una lista di
personaggi blasonati e meno catalogati per età, impegni culturali e sociali, favori
da chiedere o ricevere.
Ines Lefebvre era una
vera forza, il mio passatempo preferito, che magari può risultare come una cosa
poco carina.. ma avreste dovuto conoscerla per giudicare da voi.
Il tempo libero era
una cosa che non mi mancava, sebbene Aurelien avesse mantenuto la promessa di
continuare a farmi scrivere senza farmi subire strane pretese da marito, quella
parte di tempo passava in fretta e lui era spesso via per lavoro; ora che condividevamo
lo stesso tetto mi rendevo conto di quanto questa responsabilità verso le
aziende di famiglia lo assorbissero, da fidanzati era bello aspettare con
impazienza il momento di rivedersi, ma alla sera quando insieme ad Ygritte –una cameriera russa che mia madre aveva voluto a
tutti i costi rifilarmi- apparecchiavamo la tavola e il suo posto era ancora
vuoto sentivo una sensazione alla bocca dello stomaco come una pugnalata. Mi
mancava, volevo le sue risate, il suo profumo inebriante per la casa, i suoi
vestiti sparsi in camera. Avevo scatenato una vera avversione per l’ordine,
vietando severamente ad Ygritte di toccare qualsiasi
cosa Aurelien lasciasse in giro.
Sì, lo so cosa starete
pensando; ecco le paranoie da stupida signora ricca e annoiata.
Non era proprio così.
Avevo i miei interessi, oltre la scrittura certo, io e mia madre passavamo
dall’essere membri e in alcuni casi presidentesse di alcune charity umanitarie,
a pomeriggi socialmente inutili il cui tema principale era il mondo della moda;
mi davo da fare nell’organizzazione così che non mi scocciasse troppo per i
musi lunghi che mettevo su quando il mio Aurelien era via.. ma cosa volete,
essere moglie di uno degli uomini più ricchi di Parigi negli anni trenta mi
permetteva di avere -a dispetto di tutto- del tempo libero, troppo tempo libero.
“Che c’è?! Sei
pensierosa mia Deesire?!” Ines ed io eravamo solerti
confrontarci molto di ritorno dai salotti borghesi delle pettegole, ma stavolta
il mio profilo era stagliato contro il vetro dell’auto su di un tramonto sulla
Senna. “Ahimè Lolla non brilla d’arguzia.”
Sorrisi, guardandola
grata. “Ines.. dimmi la verità è così terribile non desiderare un figlio più di
tutto?!”
Mi toccò la mano,
penetrandomi con i suoi intensi occhi verde bottiglia. “Ci sono donne e donne Deesire. Prima di avere Aurelien ho perso due figli. Uno di
questi è nato morto, un vero shock, tu comprendi?!” La guardai a bocca aperta,
non sapevo nulla di questo, l’avevo sempre immaginata come la ballerina sinuosa
e perfetta che aveva prima centrato la carriera e poi messo su famiglia.
Perfetta da sembrare inumana. Mi sentii stupida. “Non ne volevo più sapere,
avevo pregato Martin di trovarsi un’altra donna, che forse io non ero fatta per
questo, gli dicevo che era la mia colpa perché per me, la vita, erano sempre
state solo le mie scarpette e il tutù e per questo punita per tanto egoismo.
Poi è arrivato Aurelien e ho dimenticato tutto, persino la danza.” Guardò
lontano, gli occhi lucidi. “Siamo così complesse Deesire,
il nostro cuore è una mappa con vie indecifrabili. Chi può dire dove ci porterà
domani?! Perciò no, non è così terribile, quando arriverà il momento te lo
sentirai dentro e allora nulla avrà più importanza.”
Sapevo che aveva
ragione e sapevo che sarebbe stato così. Avrei goduto dell’amore per mio marito
fino a quando un piccolo esserino mi avrebbe ordinato di essere il centro del
suo mondo ed io obbediente avrei accettato, perchè
anche se non avevo capito e provato fino in fondo cosa significava tutto
quell’amore, le lacrime di Ines si erano spiegate bene. E fu così, che mi
chiusi in silenzio tombale e mi persi su un volo di gabbiani portati via dal
vento.
Sfilai soprabito,
guanti e cappellino e lasciai tutto a Ygritte;
l’inverno più rigido che ricordassi si stava manifestando nella Ville Lumiere
in tutta la sua glaciale bellezza. Le strade si ghiacciavano in fretta, sarebbe
caduta la neve si diceva. Mi accomodai davanti al caminetto, sciogliendo le
mani al calore delle fiamme crepitanti, ed attesi con un buon libro e un
bicchiere di cognac l’arrivo della sera.
“Madame è pronto in
tavola.” La voce della cameriera mi arrivò distorta oltre la corte di cognac e
sonno; fissai l’elegante orologio a pendolo notando con stupore che erano quasi
le otto.
“Ti prego lascia tutto
dove è.” Mi alzai, sbadigliando. “Torna pure a casa Ygritte,
fa molto freddo e non vorrei che arrivassi tardi dai tuoi bambini a causa mia.”
“Come Madame
desidera.” Si affrettò a tornare nelle cucine, mentre varcavo i corridoi
ciondolando e rendendomi conto che Aurelien non era ancora rincasato; passai
per la sala dei pranzi e delle cene, Ygritte aveva
coperto i piatti e spento le candele. Sul tavolo un mazzo di rose rosse e un
biglietto.
“Farò tardi ma saprò farmi perdonare.
Ti amo.
tuo Aurelien.”
“Li ha mandati Monsier Chedjou quando era via,
madame.” La donna tornò alle mie spalle con il cappotto fra le braccia, le
sorrisi annuendo, si congedò e richiuse la porta alle sue spalle.
“Addio alla bella
cena..” Sprofondai sulla sedia alzando uno dei coperchi; l’odore del cibo mi
nauseò e lo abbassai di nuovo. Qualcuno suonò alla porta, mi alzai ad aprire,
ma il movimento fu preceduto dal suono di un giro di chiavi nella toppa; mi
tremarono le gambe.
“Deesire?!”
La voce di Aurelien sopraggiunse prima di un mio pianto a dirotto e una crisi
isterica; si affacciò alla stanza e mi trovò ammusonita, con gli occhi gonfi e
lucidi bivaccata sulla sedia.
“Amore non stai
bene?!” Lasciò scivolare via le sue cose, la ventiquattrore, sciarpa e cappello
e mi fu addosso; mi misurò la temperatura con la mano, corrucciando la fronte
in una buffa espressione ansiosa.
“Aurelien sto bene, mi
ero solo addormentata.” Sorrisi scostando la sua mano fredda dal viso; passai
gli occhi sulle sue spalle, mi irrigidii percorsa da una scossa. “Hai un fiocco
di neve sulla giacca!” Cercai, come una bambina che vede la neve per la prima
volta in vita sua, di acchiapparlo con un dito, ma questo al contatto con il
calore si squagliò inesorabilmente. Risi, prendendo Aurelien per mano.
“Mia madre dice che
porta fortuna.” Ci spostammo vicino alle finestre, scostando le pesanti tende
di broccato; nel frattempo il gelo si era fatto prepotentemente bianco e le
strade andavano cambiando colore.
”Hai preso un fiocco
Aurelien, ora puoi esprimere un desiderio.”
“Cosa potrei chiedere
di più?!” Mi strinse teneramente al suo petto, baciandomi i capelli.
Restammo in silenzio
ad ascoltare il “rumore” sordo della neve, abbracciati e nudi, sui tappeti
bianchi di pelo attorno al caminetto, l’aria era fredda dagli spifferi dei
vetri e il cielo si era tinto di arancio riflesso della luce dei lampioni
contro il bianco della neve; fuori un cane abbaiava alla luna nascosta dalle
nuvole, le candele era spente da un po’ e la cena fredda come il marmo nelle
nostre stanze.
“Ti riscaldo
qualcosa.”
“Non osare alzarti..”
Mi buttò il suo peso addosso, muovendosi alla ricerca del piacere. “Non ho
ancora finito!” Mi soffocò di baci le guance, il collo, le braccia, facendomi
ridere a crepapelle, poi un sussulto, il mio, quando con le mani smise di
giocare e cominciò a fare sul serio. Di nuovo.
“Mi chiedevo..” Finito
di fare l’amore Aurelien era un fiume in piena di parole, come se donarsi a me
lo sbloccasse nei pensieri, ogni tanto scherzando lo chiamavo liege, sughero, come il tappo che conserva il
vino dalla rovina, così Aurelien preservava il suo meglio per momenti come
questo. “E se ce ne andassimo per un po’ad Auvers? Potremmo
trascorrere qualche giorno lontano da tutto e tutti.”
Avevo sentito già
parlare di Auvers-sur-Oise, un piccolo borgo di
campagna fuori città, noto alle cronache per il pittore Van Gogh che ci aveva
passato gli ultimi mesi di vita prima del tragico suicidio, ma anche perché
Aurelien, da piccolo per problemi di salute aveva vissuto lì, lontano dagli umori
nefasti della città; da ragazzina trovavo la vita da campagnolo assolutamente
allettante, lì dove il tempo sembrava fermarsi nonostante il lavoro da
spaccarsi le mani, i ruscelli cristallini, gli animali delle fattorie, i
fiori.. sì, dovevamo andarci, non avevo alcun dubbio. “ Il prima possibile, ti
prego!” E mi appesi al suo collo.
“Mah vediamo.. questo
fine settimana?! Prima che la neve attecchisca.”
“Sì! Mi farò aiutare
da Ygritte.” Mi alzai e corsi dal corridoio alle
scale, in stanza afferrai una vestaglia, alzai i capelli e tornai in basso; con
la velocità di un fulmine mi recai in cucina e ne uscii dopo una ventina di
minuti con dei fumanti piatti da portata. Aurelien mi guardò esterrefatto. “Che
c’è?! Non voglio farti morire di fame.. non prima di andare ad Auvers!” E scoppiammo a ridere all’unisono.
All’indomani della nostra
chiacchierata avevamo la casa piena di valigie e borsoni da caricare in auto;
la luna di miele che non avevamo mai avuto –Ines e Martin ci avevano regalato
una traversata via mare per l’Africa che non avevamo avuto il tempo materiale
di compiere dato i giorni di navigazione necessari, ripromettendoci di farlo
presto che però.. non era ancora arrivato- era solo un vago ricordo fastidioso,
adesso avremmo goduto come tutti i novelli sposi di un momento di quiete tutto
nostro, lontano dal chiacchiericcio della città e questo mi rendeva assai
felice, liberarmi delle pettegole.. non avrei potuto chiedere di meglio.
“Quindi non ti ha
detto quanto resterete là?!” Avevo invitato mia madre a colazione per darle la
notizia ma neanche il tempo di far freddare il latte in tazza che mi stava
riempiendo la testa di chiacchiere.
“No mamma, non l’ha
detto.” Alzai gli occhi al cielo e mi sorrise. “E tanto meglio. Non mi mancherà
questa città per un po’. Papà come sta? Non si fa vedere spesso dalla sua
figlia maritata. Digli che andrò fino ai sobborghi a cacciarlo fuori da quelle
aziende se necessario.”
Mi scrutò guardinga,
posò una mano sulla mia. “Glielo dirò. Tu pensa solo a stare bene, alla tua
felicità e a quella di tuo marito.. che alle chiacchiere ci penso io.” Non usò
un tono minaccioso, ma da lei ci si sarebbe potuti aspettare di tutto, era
stata un vero genio a rigirare la crisi delle nostre aziende facendo passare la
fusione quasi un vantaggio più per i Chedjou che per
noi.
“Ben detto Clorine.” Aurelien ci raggiunse vestito con abiti leggeri e
informali; si avvicinò a mia madre baciandole la mano prendendo posto fra le
vettovaglie da prima colazione. “Ahmed sta bene?!”
“Impegnato ma forte
come una roccia. Si scusa se non può raggiungerci e vi augura un buon viaggio.”
“Dirò a mio nonno di
allentare la presa, serve a tutti un po’ di tregua.” Guardò mia madre
sorridendo angelico; lei lo ringraziò, prese il fazzoletto dalle sue gambe
pulendosi gli angoli della bocca e guardandoci soddisfatta si alzò. “Fate buon
viaggio. E siate prudenti.” Suonai la campanella sul tavolo e Ygritte apparì in sala come un fulmine; qualsiasi
raccomandazione mia madre le avesse fatto prima di assumerla aveva funzionato,
ritrovandomi stupita ogni volta di quanto la donna fosse celere nel suo lavoro.
Mi alzai per scortala all’uscita e Aurelien con me, ma ci congedò con una
veloce battuta lasciandoci a mezzaria vederla andare via.
“Giurerei che è
passata solo per la tregua.” Sorrisi ad Aurelien che per mascherare una risata
d’approvazione si nascose dietro la tazza. “Non l’ho mai vista abbandonare una
colazione a quel modo.”
“E’ molto
determinata.” Posò la tazza, ridendo all’angolo della bocca. “Sappiamo da chi
hai preso..”
“Monsieur Chedjou c’è una nota di sarcasmo nelle sue parole?!”
“No madame Chedjou. Una nota di verità, piuttosto.” Si avvicinò
scalando le innumerevoli sedie che ci separavano, ridendo di me e del mio
broncio. “Ma ti amo per questo.” Mi baciò la mano e si alzò. “Faccio portare i
bagagli in auto, un ora o ti serve altro tempo, amore?!” Lo guardai annuendo,
non mi sarebbe servita più di un ora. Fremevo. Fremevo d’andare via.
Auvers era esattamente come me l’aspettavo, nel verde
distretto dell’ile de la France spiccava e rispecchiava in pieno il termine
campagna, o meglio quello che la mia immaginazione avrebbe assegnato a tale
posto; la neve aveva per lo più coperto le dolci colline degradanti -che
Aurelien mi aveva spiegato nella bella stagione si ricoprivano di distese di
grano, campi di papaveri e girasoli- un lungo e unico viale dissestato di bruno
terriccio, deliziose case di mattoni rustiche con i comignoli sbuffanti e le
stalle serrate per la rigidità dell’inverno. Rimasi delusa alla vista del fiume
ghiacciato ma sorrisi per una famigliola di anatre che attraversarono la lastra
andandosi a nascondere fra l’erba non ancora ammantata di neve. Defilammo senza
intoppi fino ad un incrocio, la famosa chiesa dipinta da Van Gogh a fare da
spartiacque, imboccando la salita verso sinistra e poi oltre un ponte dove la
strada si rimpiccioliva e la macchina sbuffò un po’; Aurelien mi sorrise
stringendomi la mano per tutto il tempo, Jerome gentilmente “prestatoci” dai
miei stringeva il volante come se dovesse cedere da un momento all’altro, ma
per fortuna capii di aver superato il difficile quando Aurelien indicò un
casale sulla sinistra, circondato d’edera e rovi di rose sui muri alti.
Alcune testoline
giovani sbucarono da dietro le mura, all’entrata del vialetto di ciottoli,
sorridendoci nei loro camici celesti e bianchi inamidati; accennai ad una
protesta ma Aurelien mi baciò i capelli.
“Si occupano della
manutenzione della casa, mia signora.” Mi guardai attorno, difatti quella che
avevo difronte a me non sembrava proprio l’antico rustico che Ines mi aveva
descritto; tutto era in ordine, i roveti spogli data la stagione ma curati, il
giardino molto più grande dell’impressione che dava all’esterno, nessun segno
d’abbandono davano subito all’occhio una sensazione di caldo focolare domestico.
“Prego, prima le signore.”
Entrai e fui avvolta
dal profumo di pane caldo e un tepore rilassante; una giovane ragazza mi salutò
con affetto e cordialità. “ Madame Chedjou è un
piacere fare la vostra conoscenza. Il mio nome è Rose e mi occupo di questa
casa da due anni ormai e prima di me mia madre. Vogliate lasciarmi le vostre
cose, prego vi mostro il resto della casa.” Guardai mio marito entusiasta, lui
annuì avvicinandosi al giovanotto che trafficava con la legna nel camino.
“Cuocete voi il
pane?!” Rose camminava svelta per le camere ed io le stavo dietro chiedendo il
perché di questo o quello; scoprii che i pavimenti in pietra e cotto erano
originali di almeno cinquanta anni e che la casa fu rilevata dai Chedjou trenta anni dopo la sua costruzione, esattamente,
calcoli alla mano, pochi anni prima che Aurelien nascesse. Lo immaginai
sgambettare per quelle stanze grandi e pensai alla felicità di un bambino nel
giocare libero, senza freni, in un posto così altamente stimolante. Benedissi
il mio taccuino sempre a portata di mano.
“Oh sì madame, se ha
qualche preferenza lo comunicherò a maitre Gerald.”
“Gerald.. Picard?!”
“Sì madame, proprio
lui.”
Il nostro aiuto cuoco.
L’uomo salvatore dei banchetti organizzati da mia madre, la persona alla quale
avrei affidato io stessa l’intero sostentamento del paese; ecco dove andava a
cacciarsi quando non era in città.
“Lui è di Auvers, ma come ogni grande chef ovviamente è di Parigi.”
Sottolineò l’ovviamente con una nota di sarcasmo, lasciandomi difronte un
enorme porta di legno massiccio. “Questa è la vostra stanza Madame. Resto a
disposizione.” Fece un leggero inchino e andò via. Aprii la porta cauta, ma
delle mani grandi accompagnarono il gesto; Aurelien dietro il mio orecchio
inspirava flebile.
“La nostra stanza..” Spinse
via la porta lasciandomi una visuale completa; dire che fosse bellissima
sarebbe stato superfluo. Il pavimento era di un caldo cotto color miele, i
mobili odoravano del legno scuro che avevo scorto nel resto della casa e per
tutto il perimetro di larghezza la stanza era attraversata da ampie finestre
che davano sul giardino sottostante e la campagna aperta difronte a noi. Ad
occhio e croce ci trovavamo esattamente al centro della casa, intorno a noi
poche costruzioni al quale buttai un fugace occhiata; nessuna casa era
lontanamente paragonabile alla nostra se non una, dal lato opposto e nascosta
dagli alberi della radura circostante. Sembrava deliziosa e disabitata.
Immaginai già il titolo per una storia.
“E’ meravigliosa
Aurelien.” Mi abbracciò, baciandomi la spalla; so che mi avrebbe spogliata
nell’esatto istante in cui avvertii l’impercettibile –ma per me ormai
chiarissimo- sfregamento delle sue labbra contro la mia pelle –chiaro segno di
desiderio- e il tremolio della mano. Non aveva smesso di essere nervoso neanche
dopo l’empasse della prima volta e i chiari approcci
che da sette mesi a questa parte avevamo avuto modo di sperimentare; per me era
una goduria, lo trovavo straordinariamente tenero e dolcissimo.
Chiusi la porta,
serrai le tende e mi buttai sul letto portandolo giù con me.
Riemergemmo dalle
coltri di lenzuola e desiderio due giorni dopo; dormimmo per ore lunghissime,
facevamo l’amore come se non ci fosse domani, spiluccando ogni tanto i caldi
piatti che Gerald ci faceva arrivare dalle cucine. Quella mattina misi piede a
terra per la prima volta dal nostro arrivo, la casa era stranamente silenziosa,
si sentivano solo i miagolii da baruffa di due gatti lontani; infilai la
vestaglia ed uscii dall’alcova rovente. C’era caldo, il camino nei piani bassi
crepitava, alcune ceste con ortaggi e frutta erano state lasciate sulle panche
sotto alle finestre in attesa di esser riordinate.
“Madame Chedjou!” La nota di colore e di stupore di Gerald mi fece
arrossire; credo che a tutto si riferisse tranne che al tempo passato
dall’ultima volta di un nostro incontro. “Le preparo subito un ricostituente.”
Appunto, questo mi fece decisamente arrossire; presi una mela dalla cesta, la
spolverai sulla vestaglia e diedi un morso. Avevo decisamente anche fame.
Dopo un po’ riapparì
con una ciotola con dello zabaione e -a giudicare dall’odore forte- marsala amalgamati,
ordinandomi di buttarlo giù senza proteste. “Quindi è ad Auvers
che si rifugia in periodi come questo?!” Lo guardai distratta, ben attenta a
non ferire i suoi sentimenti; non che mi importasse la provenienza di un genio
simile, ma se lui ci teneva tanto ad ometterla non ero certo io che potevo
impedirglielo. E poi odiavo il silenzio fra estranei –anche se in passato mi
aveva permesso di aiutarlo in cucina non mi sarei mai permessa di ritenerlo mio
amico- e ancora di più odiavo mangiare con una persona muta che mi osservava.
“Mi preparo per la
stagione della cucina, madame Chedjou.”
Mi guardò come se
sapessi di cosa stava parlando. “Cioè?!”
“Tutte le estati
organizzo corsi di cucina per giovani aspiranti delle accademie e.. ricche
signore annoiate, madame.” Lo guardai
accigliata. “Quindi io sarei fra queste?!”
“Oh no, no..”
Tossicchiò. “Auvers non è Parigi, qui è diverso. La
ricchezza è intesa in altro modo; se per esempio io posseggo trenta vacche e
cinquanta pecore.. io sono ricco. Se ho solo galline ma buona terra per
sementi.. non sono ricco, ma vivo che è già tanto.” Sorrise guardandomi
lievemente rosso in viso. “Non oserei mai paragonarla a noi, madame.”
“E perché mai?!
Preferirei essere viva e ricca alla vostra maniera che ricca e morta alla mia
maniera!” Risi raschiando il fondo della ciotola con il cucchiaino. “Facciamo
così Gerald, adesso mi cambio e lo fai anche tu, ti togli quel grembiule che
tanto monsieur Chedjou ne avrà per molto da dormire,
mi accompagni per Auvers e mi fai vedere un po’ come
si vive da queste parti, ok?!”
“Sì!” Si affrettò a
rispondere, “faccio portare subito la macchina.”
“Eh no Gerald.. così
non vale. Ho detto alla tua maniera. Non ho visto macchine qui, perciò a
piedi!”
“A piedi?!”
“Sì.” Salii le scale
di fretta. “Forza! Forza!”
Non avevo il minimo
senso del gusto che invece possedeva mia madre, ma reputavo che fossi il genere
di ragazza assennata che va incontro alle situazioni di testa ed è per questo
che quando tirai fuori dai borsoni il tipo di abbigliamento che mi madre
avrebbe usato certo per appiccare il fuoco nel caminetto, sorrisi tutta
entusiasta; potevo sfoggiare stivaloni degni di uno svuota pozzanghere, vestiti
di lana informi come piacevano a me e coprirmi con cappotti larghi che non
avessero nulla a che fare con i tagli sartoriali appesi nell’armadio a Parigi.
Ero veramente soddisfatta di me, sarei stata al caldo, pratica e decisamente
anti glamour. Perfetta.
Arrotolai una grande
sciarpa al collo, scrissi due righe ad Aurelien tanto da non fargli credere che
fossi scappata a gambe levate ed uscii con Gerald sotto braccio; era una
giornata piuttosto fredda, non nevicava ed il cielo era talmente terso che
dubitavo in altra magia bianca, l’aria frizzante e pungente. Scendendo a valle
il maitre mi accompagnò nei punti di maggiore
interesse del borgo, ammirammo la chiesa tanto famosa per il dipinto universale
che girò in Europa grazie a Van Gogh, passammo per il Ravoux
la pensione dove l’artista passò i suoi ultimi giorni e soffrì il martirio
della ferita mortale che si inflisse e per incanalare energie sufficienti per
risalire le colline – dalla quale si godeva a suo dire di una vista
meravigliosa- mi offrì la colazione in un tipico forno del posto proprio lì
vicino, salutando energicamente le tre persone che occupavano le panche più
defilate del negozio una volta entrati. Tutto era un tripudio di bontà, i
croissant morbidi e fragranti e la baguette al burro si scioglieva in bocca.
Comprammo alcune specialità per Aurelien ed attraversammo di nuovo il viale per
la sua lunghezza, stavolta deviando, alla chiesa, verso destra per una salita
ripida; avevo ripreso colore e forze ne ero certa, sentivo le guance pizzicare
e come l’impressione che il freddo non centrasse nulla. Gerald mi guardava
divertito e allo stesso tempo chiacchierava di aneddoti e storie che solo chi è
originario del posto poteva conoscere. Lo ascoltavo rapita e rapita mi fermai
dinnanzi a quello che sembrava un castello abbandonato, poche spanne dalla
vetta della collina.
“Quello cos’è?! Sembra
un fortino.”
“Oh madame, la sua
vena artistica è stupefacente.” Gerald si portò le mani ai fianchi riprendendo
fiato. “Quella era la torretta di controllo, ai tempi medievali. Il castello
apparteneva a ricchi feudali che si racconta furono i primi uomini ad insediare
il territorio.” Prese il respiro alterando il tono della voce. “Per me, un
inutile roccaforte che non vogliono lasciarmi usare.” Berciò, con l’amaro in
bocca.
“Usare.. per cosa?!”
“Un idea folle. Se
vuole seguirmi, manca ancora poco al punto più alto..”
Mi misi in marcia ma
non lasciai il fortino con lo sguardo per tanto che la visuale me lo
permettesse; il castello era piccolo e in rovina, il tetto crollato sotto le
intemperie e le mura perimetrali tutto ciò che rimanevano di quel fantasma. La
torre era il suo proseguimento e forse la cosa più intatta che esisteva là
attorno. Qualsiasi cosa ci avesse visto Gerald costava un certo sforzo di
fantasia.
“Mi permetta.. quale
sarebbe questa idea folle?!” Lo vidi arrestarsi e guardarmi perplesso. “Voglio
dire, cosa c’è di tanto poetico in un mucchio di macerie che la turba così
tanto, maitre?!”
Tentennò a rispondere
e lo fece solo dopo essersi rimesso in marcia. “Sono un sentimentalista madame Chedjou, ci ho visto una scuola di cucina, i ragazzi di Auvers con un futuro e storie d’amore legate al cibo. Ma
purtroppo la burocrazia è un male per il progresso, quindi non mi permettono ne
di avere un prestito, ne di metterci le mani.”
E questo poteva essere
assolutamente un buon motivo per avercela con chi mette freni a un sogno;
guardai ancora alle rovine e poi a Gerald, mi convinsi a lasciar perdere ma una
vocina dentro di me continuava a dirmi dillo, diglielo! “Magari potrei metterci
io una buona parola, maitre Gerald.” Esordii come un
pallottola impazzita. “Come ben sa il cognome che ho acquisito mi permette di
aprire anche porte arrugginite.” Scherzai cercando di sdrammatizzare quella che
dal mio tono di voce sembrava una cospirazione allo stato; l’uomo abbassò le
spalle, un tremolio di speranza e agitazione infondo agli occhi.
“Il signorino Chedjou certo.. è un po’ meno biondo di come lo ricordavo
l’ultima volta.” Sorrise ricordando la curiosa scenetta e la piccola bugia che
gli avevo rifilato al pranzo di fidanzamento. “Ma non le chiederei tanto
madame. E’ stata così gentile anche solo nel propormelo ma..”
“I ma sono peggio
della burocrazia mio caro maitre e comunque non
portano da nessuna parte. Non sto dicendo che gliela regalo, le propongo un
accordo. Vuole sentire?!” Annuì divertito. “Io ci metterei il capitale, lei il
suo genio. La scuola porterà il nome di mio marito il che le favorirà quanti
più alunni lei immagina di ricevere e ci fornirà inizialmente un introito
diciamo del.. trentacinque percento per iniziare. Quando tale somma raggiungerà
il costo dell’impresa.. beh la scuola sarà sua. Ovviamente a mio marito e i
suoi collaboratori spetterà l’andamento finanziario, lei guadagnerà pur
riscattando il debito. Che ne dice maitre, ha ancora
ma davanti a se?!”
Mi guardò incerto e
balbettante. “La p-prego.. a-almeno il cinquanta per cento.”
“Quindi è un sì?!”
Allargò le braccia
verso il basso, rassegnato dai suoi stessi sogni; passandogli accanto gli posai
la mano sulla spalla colpendola affettuosamente due volte. Mi sorrise con gli
occhi blu cobalto velati ed io mi sentii stranamente bene; lì, ad Auvers, davanti a un mucchio di rovine su di una salita
ripida di campagna avevo compiuto la mia prima opera finanziaria da signora Chedjou. Mio marito ne sarebbe andato fiero.. se solo
avessi trovato parole sufficientemente necessarie per spiegargli come e cosa
era accaduto.
“Deesire..”
Lo trovai accoccolato difronte il camino in vestaglia e con bicchiere di latte
adagiato accanto a se; ci sorrise divertito vedendoci arrivare mentre
discutevamo sulla morte di Van Gogh e il piccolo cimitero dal quale stavamo
tornando dove riposava ancora il maestro. “Fatto spese?!” Guardò ai pacchetti
che stringevo fra le mani, li lasciai a Gerald che in tempo record sparì nelle
cucine. Mi portai su di lui e mi accomodai sulle sue gambe, rannicchiandomi in
un abbraccio. “Ti sei divertita?” Strofinò la guancia contro il mio naso
freddo.
“Auvers
è deliziosa..”
“Sei stata sulla
collina alta?!”
“Sì, ho visto la
chiesa, ho mangiato brioche, sono passata per la pensione Ravoux
e.. ho comprato una scuola.” Mi soffermai sul suo sguardo non più di tanto
incredulo, più curioso e divertito che accigliato. “E.. ho stipulato un accordo
con Gerald. Mi servono le tue arti intermediarie, il nostro buon nome, dei
documenti..”
“Ok Deesire non ci sto capendo nulla! Che ne dici se cominci
daccapo?!”
Gli raccontai del
sogno del maitre e del mio di aiutarlo, sebbene non
trovassi un recondito motivo a questa voglia se non la certa disponibilità
economica che avevamo a disposizione. Potevamo permettercelo, ma non era tutto;
quel fortino era stato un richiamo, un qualcosa che avevo sentito dentro.
Aurelien mi ascoltò rapito, spostandomi ciocche di capelli dal viso quando
parlavo concitata delle meravigliose cose che avevo visto e fatto. Poi rimuginò
al fortino.
“Sai che il feudatari
che lo possedevano sembra discendano dai Moreau?!”
“I Moreau?!” Era mai
possibile che Fabien fosse ovunque mi girassi?
“Oh loro sono molto
legati a questo posto. Diciamo che è stato il padre di Baptiste
ad indirizzare mio nonno all’acquisto di questa proprietà. I primi uomini di Auvers potrebbero essere nostri lontani parenti, forse è
questo che ti ha attratta.”
Deglutii scacciando la
fastidiosa associazione attrazione-parenti ridendo isterica. Rimasi un po’
delusa dalla scoperta, mi ero immaginata un'altra storia, un’altra fantasia..
ma la terribile famiglia Moreau era sempre fra i piedi. Scossi il capo
inorridita, gettandomi la loro presenza alle spalle.
“Sono fiero di te
Dee.” Amavo il modo in cui usava quel diminutivo, “non solo ci hai visto del
potenziale, sei stata anche coraggiosa nel proporre un accordo. Chiama Gerald e
digli che se vuole possiamo discuterne. Appena rientreremo a Parigi cercherò di
smuovere le acque.” Mi baciò imprimendo forte le sue labbra alle mie; lo amavo,
era chiaro. Il suo modo di ascoltarmi, di darmi fiducia, il suo modo di
comprendermi e assoggettare le mie paure e le mie gioie mi rendevano fiera di
essere sua moglie.
“Ti amo Deesire.”
Eravamo in simbiosi, questo bastava.
*
NDA:
Ringrazio davvero
tanto tutte le persone che passano di qui.
E chi lascia una
traccia di sé al suo passaggio: _Nihil_ ti ho scritto una risposta lunga un papiro, ma
sono davvero contenta delle tue parole. J Resta connessa
e.. a presto! ;)
Un abbraccio,
lunadreamy.