Kise non aveva mai avuto
problemi ad apparire naturale anche quando alcune situazioni lo mettevano a
disagio: il carattere già di per sé espansivo che aveva sempre avuto fin da
bambino aveva indubbiamente aiutato, e il resto era stato storia da quando il lavoro
di modello era entrato a far parte della sua vita adolescenziale. Essere sempre
guardato attraverso un obiettivo fotografico, o riconosciuto – nel suo piccolo
– dopo essere stato visto sulle riviste aveva contribuito a cancellare
totalmente quell’imbarazzo che sopraggiunge nel ritrovarsi al centro
dell’attenzione, volente o nolente. In questo processo, poi, un ruolo
altrettanto fondamentale era stato giocato proprio dagli anni alla Teikou:
prima il suo emergere immancabilmente, club dopo club, e poi il suo far parte
della Generazione dei Miracoli. L’attenzione su di sé era diventata lentamente
e in modo naturale come una seconda pelle.
Forse per questo processo graduale, Kise non era mai diventato il tipo di
persona che ricercava attenzioni: la
cosa si doveva probabilmente al riceverne già abbastanza senza impegnarsi e di
certo aveva giocato in qualche modo a suo favore – sarebbe scaduto
nell’irritante, scoprirlo egocentrico.
In più, quel tipo di attenzione dalla quale non poteva tirarsi indietro – non
facevi il modello per poi lamentarti del fatto di essere sulla bocca di molti o
chiamato a destra e a manca – e della quale sarebbe stato ipocrita dirsi
infastidito lo aveva “temprato”, regalandogli una spontaneità quasi
incrollabile di fronte a qualsiasi situazione, più o meno.
Ma non era infallibile, e soprattutto non era insensibile: perciò quando si
ritrovò di fronte la persona che a conti fatti poteva considerare la causa di
tutti i suoi problemi, non ebbe la prontezza né la forza morale di far tesoro
di tutta quell’esperienza nel dissimulare.
«Ohi.» lo salutò il moro, amichevole, e sentì le proprie labbra incurvarsi di
riflesso in un sorriso che, però, temeva risultasse tutt’altro che convincente:
«Aominecchi, che ci fai da queste parti?» domandò – si chiese se fosse normale
che, ora, qualsiasi frase sembrasse un tentativo di conversazione palesemente forzato. Anche se la domanda era
legittima a modo suo: Aomine non abitava in quella zona.
«Satsuki mi ha trascinato in giro e poi mi ha mollato per un’amica.» replicò
seccato, in un modo di fare così familiare che per un attimo Kise riuscì a
rilassarsi: «Tu anche sei fuori zona, no?» rimbeccò poi.
«Non tanto, ma ero… a casa di un collega.» ammise il biondo rimanendo sul vago,
ma il ghigno di Aomine anticipò di qualche istante la natura della domanda a
cui diede voce il moro: «Oh, e bravo Kise. Ma spero per te che non fosse
nessuna delle mie modelle preferite1.» insinuò.
«È un collega maschio, Aominecchi!»
esclamò, mordendosi il labbro inferiore istintivamente e per un breve momento:
era davvero nella posizione di pronunciare una frase simile, come se l’essere
uomo di Jun bastasse a rendere l’insinuazione del moro irreale?
Per essere sinceri, ora come ora sarebbe stato più corretto dire “è
fidanzato!”, sebbene fosse abbastanza sicuro che con Jun non avrebbe mai potuto
avere quel tipo di rapporto, con o senza Akira.
Era strano, pensò: fino a quel momento una frase come quella era stata naturale
da pronunciare ed era sempre stata sufficiente ad implicare diverse cose. Cose
che ora erano sbagliate, che improvvisamente non riuscivano più a dipingere
fedelmente la sua realtà. Ma non erano le parole ad essere improvvisamente
sbagliate, inadatte.
Era la realtà che avevano sempre descritto ad essere stata stravolta.
«Tu mi devi un pranzo, comunque.» riprese l’altro cambiando del tutto
argomento, nel tono una sfumatura quasi offesa che nell’insieme allontanò Kise
da quelle considerazioni.
«Eh?» fece eco perplesso, senza capire.
«Mi hai mollato da solo con Satsuki come tutti gli altri!» ribatté e ci volle
qualche secondo al biondo per capire che si riferiva al giorno del suo
compleanno, cosa che lo sorprese comunque: era vero che dopo aver confermato a
Momoi che non ci sarebbe stato non si era più interessato della cosa – più per
il proprio bene che per menefreghismo – ma era convinto che fosse ormai cosa
fatta, decisa e che si fossero incontrati.
«Gli altri non c’erano?» chiese sorpreso.
«No, Midorima è dovuto andare fuori con i suoi e Tetsu all’ultimo minuto ha
chiamato per dire che hanno anticipato il loro campo estivo. O che la loro
allenatrice aveva trovato un posto inaspettato e li aveva minacciati di
andarci.» spiegò distrattamente, e Kise dedusse da solo che – di conseguenza –
Kagami non avesse potuto presenziare per lo stesso motivo.
«Quindi Satsuki ha insistito per andare lo stesso a festeggiare, lamentandosi
dell’assenza di Tetsu e tu mi hai
mollato solo con lei e le sue chiacchiere da femmina. Averla aiutata con il
regalo non ti basterà.» concluse, spiegando implicitamente il perché del
pranzo.
Il biondo accennò ad un broncio: «Ma Aominecchi, anche io avevo il campo
estivo, perché non chiedi anche a Kagamicchi di offrirti qualcosa?!» si
lamentò, ritrovando momentaneamente un poco della naturalezza e spontaneità che
era sempre stata alla base del loro rapportarsi l’uno all’altro.
«Tch.» fece il moro, insofferente «Bakagami è un
altro discorso, sei tu quello che mi è sempre stato appresso scodinzolante.
“Aominecchi, Aominecchi, facciamo un uno contro uno!” continuo.» lo sfotté
facendogli il verso. Kise stava per ribattere, ma l’altro lo anticipò: «O mi
stai dicendo che il compleanno del sottoscritto è meno importante dei tuoi
senpai, lì? Traditore.» lo accusò ghignando, segno che non era serio in
quell’accusa. Il biondo, però, aveva sussultato impercettibilmente: perché ogni
parola, ora, sembrava assumere un significato diverso, una sfumatura a cui
prima non avrebbe nemmeno mai pensato?
Dissimulare.
Doveva solo dissimulare.
«Questo è sleale, Aominecchi. Non è che tu non sappia stare senza di me.» lo riprese,
l’intento scherzoso reso meschino – forse solo ai suoi occhi – dal peso tutto
nuovo che le sue parole assumevano.
Doveva cambiare argomento.
«Ma un uno contro uno sono disposto a concedertelo.» aggiunse con falsa arroganza,
ridacchiando.
Mai nella sua vita Kise aveva pensato che sarebbe arrivato il giorno in cui una
partitella a basket si sarebbe rivelata a dir poco catastrofica da un punto di
vista che non aveva nulla a che fare con lo sport.
Non si era rivelato così strano che Aomine accettasse, anzi, proprio perché si
trattava di basket la risposta era stata quasi scontata fin dall’inizio. Senza
contare che, a ben pensarci, era tanto tempo che non si affrontavano senza
sentire sulle spalle – ognuno a modo suo – il peso del ruolo di ace della
squadra.
Anche nella recente partita in cui si erano rivisti non erano stati faccia a
faccia, essendo finiti a giocare come compagni; in quel senso, l’uno contro uno
era stato più che apprezzato.
Come volevasi dimostrare per il basket Aomine riusciva persino ad essere
puntuale e si erano incontrati senza il minimo intoppo: Kise aveva approfittato
di un giorno di riposo senza servizi fotografici, ripiegando per forza di cose
su un sabato. Si erano prosciugati di ogni minima energia – non potevi star
dietro ad Aomine senza mettercela tutta – andando avanti per ore con, come
uniche pause, quelle per bere e riprendere un minimo di fiato. A ridosso del
tramonto si erano arresi ai muscoli che gridavano pietà; soprattutto Kise aveva
dovuto riconoscere un principio di sforzo eccessivo alla gamba che gli era
costata la Winter Cup – si stava riprendendo e il campo estivo era stato un
modo sano per lui di riformare completamente la muscolatura così che fosse da
sostegno e non da richiamo all’infortunio, ma si erano raccomandati di non
esagerare, specie in allenamenti solitari.
Ora erano fermi, seduti a terra riprendere fiato, entrambi con l’asciugamano
intorno al collo.
Con un gesto della mano Kise scostò una ciocca di capelli biondi appiccicatisi
fastidiosamente alla fronte a causa del sudore, portando la frangia indietro;
lo sguardo, mantenuto di fronte a sé fino a quel momento, occhieggiò Aomine che
– seduto a sua volta – stava svuotando la propria borraccia bevendo avidamente.
Si concesse quei momenti per osservarlo indisturbato: nulla della figura del
moro gli era sconosciuto, nel complesso. Gli erano familiari persino tutti quei
piccoli dettagli che si potevano notare soltanto nella quotidianità – quando
sedeva a terra o sul pavimento della
palestra teneva sempre la gamba sinistra semi piegata, con la pianta del piede
a far da sostegno e la destra poggiata a terra, mai il contrario; se si
sgranchiva il collo la sequenza in cui inclinava la testa era sempre
destra-sinistra.
Eppure non aveva mai guardato l’altro soffermandosi in particolare sul suo
aspetto fisico in termini di canoni di bellezza: certo, se gli avessero chiesto
a bruciapelo in quale categoria rientrasse, Kise avrebbe affermato senza troppi
dubbi in proposito che l’ex compagno di squadra era un bel ragazzo – doveva pur
esserci una ragione per il suo successo con il gentil sesso, e non era certo
conosciuto per il suo romanticismo, come la breve durata delle sue “relazioni”
suggeriva.
Ma non era mai stato suo interesse scoprire quali dettagli dell’aspetto altrui
contribuissero al giudizio complessivo sulla sua persona. Ora invece notava con
quasi rinnovata attenzione la pelle scura leggermente lucida per il sudore che
gli appiattiva persino i capelli contro la fronte, gli occhi di quel blu più
occidentale che tipicamente giapponese, il petto che si alzava e si abbassava
mentre il respiro si regolarizzava sempre di più, la canotta chiara che aderiva
al corpo…
«Ohi, Kise!» lo richiamò il moro, facendolo dapprima sussultare e portandolo
poi a spostare istintivamente lo sguardo sul viso dell’altro: «Ti sei
incantato?!» aggiunse, facendo gelare il biondo nonostante il caldo ancora
afoso di inizio Settembre.
Cercando di non cadere inutilmente nel panico abbozzò un sorrisetto divertito: «Uhm,
scusami Aominecchi» disse, muovendo leggermente la caviglia dell’infortunio a
destra e a sinistra, come a controllare
che fosse a posto «è solo un po’ intorpidita e stavo pensando di
metterci del ghiaccio a casa, tanto per stare sicuri.» mentì.
Il moro lo fissò per qualche istante, per poi allungare un piede verso quello –
sano – di Kise dandogli un calcio leggero: «Sei stupido?» lo riprese brusco,
con quel modo di interessarsi agli altri che sembrava solo un commento fine a
se stesso, ma che Kise aveva imparato a riconoscere ai tempi delle medie,
ritrovandolo ora quasi con nostalgia. Si sentì in colpa per quella bugia, ma
riuscì comunque ad allargare il proprio sorriso e, persino, a ridacchiare: «Ma
sto bene, è solo che andarci leggeri con te è impossibile, Aominecchi.» si
lamentò scherzosamente.
L’altro incurvò le labbra in quel ghigno quasi arrogante che era sempre stato
tipico di lui: «Mi sembra ovvio.» ribatté.
Kise pensò che quella era l’unica costante: anche se inconsapevolmente, aveva
sempre trovato bella quell’espressione di Aomine.
Girò le chiavi nella serratura, aprendo la porta e varcando la soglia accolto
dal fresco dell’interno, riconoscendo senza troppe difficoltà l’opera del
climatizzatore.
«Ryouta?» lo accolse la voce di sua sorella prima ancora di poter notare le sue
scarpe lì all’ingresso. Tolse le proprie, posando la sua copia sul mobile ed
entrando completamente, richiudendosi la porta alle spalle e attraversando il
corridoio; notò sua sorella in salotto intenta a guardare la tv: «Sono tornato.»
pronunciò con un sorriso, ricevendone uno in risposta.
Sua sorella maggiore frequentava l’università, condividendo l’alloggio studenti
con una compagna di corso: in occasione delle vacanze o, più raramente, dei
weekend – e compatibilmente con il periodo degli esami – tornava a casa.
«Cielo, ho caldo solo a guardarti.» commentò divertita, notando la mise da
basket e immaginando da dove tornasse: «Mamma e papà rientrano tardi, ordiniamo
fuori?» propose, trovando subito risposta affermativa nello sguardo entusiasta
del fratello.
Il biondo si spostò quindi dal corridoio e si avviò alle scale, salendole e
raggiungendo la propria stanza, dove abbandonò il borsone e recuperò degli
abiti freschi e puliti; si spostò quindi in bagno, posando il cambio sul ripiano
e spogliandosi quindi dei vestiti sudati. Optò per una doccia veloce, troppo
spossato all’idea di aspettare che l’intera vasca si riempisse.
Aprì il getto, attese che l’acqua fosse tiepida e vi si posizionò sotto,
beandosi della sensazione dell’acqua che lavava via il sudore e faceva sparire
la sensazione di sporco e caldo del proprio corpo, la tensione dei muscoli che
si allentava piacevolmente facendo sembrare che ad essere lavata fosse anche la
stanchezza.
Inspirò, rimanendo immobile per diverso tempo, gli occhi chiusi e solo il
rumore dell’acqua e del proprio respiro regolare udibili. Si era sentito una
persona orribile: finché la sua mente era stata occupata dal basket l’incontro
non era stato un problema – non aveva certo avuto tempo per distrarsi con altro
– ma quando avevano fatto le brevi pause per bere o riprendere fiato lo sguardo
aveva continuamente cercato Aomine, soffermandosi su particolari che lo
facevano vergognare, portandolo a distogliere poi lo sguardo con una latente
sensazione di imbarazzo.
Non era il semplice fatto di guardare Aomine con un interesse del tutto diverso
da quello che c’era stato un tempo – o meglio, da un principio di interesse –
ma la consapevolezza di immaginare
cose diverse; ad un certo punto, quando avevano saggiamente deciso di fermarsi
definitivamente e aveva avuto tutto il tempo di studiarlo, un pensiero lo aveva
colto alla sprovvista e spaventato.
Era così che le ragazze guardavano Aomine?
Era quello che intendeva Jun quando gli chiedeva se il pensiero di fare
determinate cose con il moro lo disgustava o meno?
No. In quel momento, guardandolo, aveva capito che se provava a figurare nella
propria mente un abbraccio di Aomine o un suo bacio, o se addirittura
considerava l’idea delle mani di Aomine sul proprio corpo… non era disgusto il
suo primo pensiero, non era l’istinto di allontanarsi la prima urgenza che
provava. Ed era stato quello a turbarlo più di qualsiasi altra cosa, perché un
conto era affermarlo in modo tutto sommato ipotetico e teorico, un altro era
averne prova nel farlo, nel concretizzare mentalmente più che poteva
quell’eventualità e scoprirsi—
«…Mnh.»
Eccitato.
E quello portava ad un senso di colpa che mai avrebbe creduto di poter provare
nei confronti del moro, diverso e ben più forte di quello di non essere stato
in grado di riportarlo su un campo da basket senza che cambiasse, e si sentisse
abbandonato – lo aveva capito, in fondo, all’epoca: Aomine non era mai tornato
indietro perché si era sentito come se, anche facendolo, non ci sarebbe stato
nessuno ad accoglierlo.
E Kise lo sapeva, perché per molto tempo lui non aveva avuto nessuno da cui
tornare, solo persone che si arrendevano di fronte al suo talento e alla
facilità con cui otteneva le cose; aveva desiderato a lungo qualcuno che invece
gli dicesse che non importa quante volte tornava, non sarebbe mai stato
abbastanza e si sarebbe dovuto impegnare per superarlo davvero o anche solo
sperare di ottenere qualcosa con le proprie forze – ed era apparso Aomine, che
non lo aveva detto ma che era sempre, tacitamente stato quella persona.
Annaspò, cercando nel freddo delle mattonelle contro cui posò la fronte – i
capelli bagnati leggermente fastidiosi, ma in quel momento totalmente ignorati
– un sostegno con la testa e con la mano sinistra, il pugno chiuso.
La temperatura dell’acqua passava ormai sulla pelle calda senza quasi essere
notata, mentre la mano destra si muoveva sul proprio sesso, risvegliato dalla
persona che già una volta aveva tenuto a fatica lontana da tutto quello, da un
gesto tanto intimo e personale.
Quando le dita avevano lentamente raggiunto il pube, esitanti, aveva avuto
l’istinto di fermarsi e girare la manopola della doccia, nella speranza che
dell’acqua gelida lo placasse; al tempo stesso però qualcosa – un misto, forse,
di curiosità e grezzo desiderio – lo aveva spinto a scendere ancora, e
toccarsi, chiudere degli occhi e focalizzare una figura precisa e distinta
ancora prima di provare a darle forma.
Era così che il corpo di Aomine era divenuto nitido e quasi reale, la pelle
abbronzata imperlata di sudore, i muscoli tesi della partita di quel
pomeriggio, le labbra dischiuse a lasciar uscire il respiro affannato della
corsa. Le mani a contatto con il pallone che nella sua immaginazione si
muovevano su di lui, e il pensiero ormai contorto e portato avanti dal solo
piacere di sentire quello stesso respiro veloce in un punto imprecisato vicino
al proprio orecchio.
E la mano si muoveva – su e giù, con velocità sempre maggiore – facendogli
salire alle labbra mugolii di piacere che venivano ricacciati indietro,
bloccati nella gola a fatica come quando si cerca strenuamente di non piangere,
e i brividi gli percorrevano il corpo scuotendolo appena in quello che era un
tremore istintivo e incontrollabile.
Aomine era lì e lui non riusciva ad allontanarlo dalla sua mente, l’unico
barlume di lucidità relegato in un angolo non bastava ad annullare la
sensazioni di quella mano che era la propria e al tempo stesso non lo era; poi
l’orgasmo lo aveva raggiunto, inaspettato e incontrollato, e la voce aveva
raschiato contro la gola in un gemito di piacere liberatorio, mentre le gambe
si facevano meno stabili, il corpo ancora interamente scosso.
Così come si era formata l’immagine del moro svaniva, sfocata come un miraggio
che perde di realismo quando ciò che lo ha causato lentamente sparisce – il
freddo delle mattonelle tornava palpabile e vero sotto la sua mano e contro la
sua fronte, la pelle tornava sensibile al getto della doccia, gli occhi si
aprivano ritrovando di sé niente più di un corpo nudo e stanco e l’evidenza di
quanto appena consumato nell’intimità della stanza in cui era.
Con la spossatezza e la strana ma piacevole sensazione di vuoto che seguiva
l’orgasmo, non arrivò niente a confortare l’opprimente senso di colpa che lo
colpì.
Sentì di essere stato ingenuo e sciocco,quando aveva detto a Jun come se nulla
fosse che avrebbe fatto le cose con calma, dandosi il tempo di accettare tutto,
di capire e capirsi; di aver preso
tutto troppo alla leggera, convinto dalla serenità e dalla naturalezza del
rapporto del castano con Akira, prendendo la verità di quel piccolo mondo che
era la loro casa come assoluta e totale.
Ma la realtà era diversa, era fuori, era fatta di pensieri stupidi e del senso
di colpa che ti mangiava dentro, di accettazione del corpo ma non della mente,
di mani che sfioravano il proprio corpo sostituendosi ad altre, di un desiderio
naturale e al tempo stesso terribile quasi – che faceva star male, e quando
tutto finiva, non rimaneva niente.
«Kise, vedi di muoverti!» gli abbaiò contro Kasamatsu, l’espressione scocciata,
stanco di attendere ancora dopo che aveva dovuto andare a minacciare il kohai
di piantarla di fare il cretino e firmare autografi – se ne fregava che le sue fans lo volevano
per loro, doveva allenarsi e portare il suo culo in palestra (testuali parole,
quasi).
«Scusami, senpai, scusami.» assicurò, un sorriso scemo in perfetta reazione per
il rapporto che avevano sempre avuto, ricevendo dall’altro un sospiro
rassegnato – c’era da dire, a onor del vero, che Kasamatsu si allenava ormai
poco e niente ma presenziava in palestra ogni volta che poteva: «Senpai» gli si
rivolse infatti «verrai in palestra spesso?» domandò incuriosito.
L’altro scosse la testa: «No. Solo ogni tanto quando posso, con gli orari
universitari, per salutare.» ammise, una sfumatura burbera nel tono. Kise era
certo che non gli andasse giù, benché razionalmente sapessero entrambi – il moro
soprattutto – che ora che non era più uno studente di quella scuola era
impensabile continuare a star dietro al club di basket.
Era sempre strano prendere il discorso con Kasamatsu, perché da quando era
entrato nella squadra del Kaijou l’altro c’era sempre stato, e pensare alla
palestra senza di lui – anche senza i suoi calci, sì – faceva un effetto tale
che nemmeno il biondo, con tutta la sua spontaneità e chiacchiera, sapeva bene
come prendere o affrontare.
«Ma questo non mi vieta di tenermi informato. Se tardi agli allenamenti per le
tue cose da modello, il nuovo capitano non sarà meno severo di me.» assicurò,
non senza una certa soddisfazione nel tono e nello sguardo; non seppe come
interpretarla – se non come sadismo, ma lo tenne per sé – e si limitò a
ridacchiare.
Stavano voltando l’angolo dell’edificio, trovandosi quindi a non dover fare
altro che avanzare per raggiungere l’entrata della palestra, quando il telefono
gli vibrò nella tasca; meccanicamente lo recuperò ed occhieggiò lo schermo,
rallentando il passo fino a fermarsi.
Kasamatsu, seccato in partenza, fece per riprenderlo ma l’espressione sul viso
del biondo lo fermò: si era aspettato che fosse qualcosa che riguardava il
lavoro o qualche sciocca questione amorosa del biondo – di cui, seriamente, era
felice che Kise non gli parlasse – ma lo sguardo del kohai sembrava dire da sé
quanto indeciso fosse sul prendere o meno la chiamata.
Lo vide sospirare e rispondere: «Momoicchi?» disse, senza riprendere a
camminare e portando Kasamatsu a fare suo malgrado lo stesso. Si concentrò sul
guardare l’orologio da polso con l’intento di non sembrare invadente e di
ascoltare meno possibile di quella che era a conti fatti una chiamata privata,
ma un cenno del biondo – come a sottolineare che non intendeva tirarla per le
lunghe – lo aveva portato a non camminare verso la palestra.
Ed effettivamente non durò granché, la conversazione; Kasamatsu era quasi certo
che, ad un certo punto, Kise avesse interrotto l’ex manager.
«Momoicchi, sono davvero contento che stiate pensando di uscire. Ma non posso.»
fece una pausa, incerto: «E ad essere sincero non me la sento. Sarò anche
impegnato con il lavoro, quindi ti dispiace se ti chiedo di non chiamarmi? Non
per queste cose. Ma per il resto possiamo sentirci quando vuoi.» assicurò, ma
il moro non poté fare a meno di accigliarsi un poco, perplesso. Non era da Kise
quella scortesia di fondo – non importava che stesse indorando la pillola
usando un tono pacato e cretino come
sempre, l’effetto non era lo stesso, qualcosa non andava anche se non capiva
cosa di preciso.
Persino Momoi, dall’altro lato del telefono, doveva essere rimasta stupita,
sebbene sentisse più o meno che stava ancora parlando.
«No, è tutto a posto. È che non avrei tempo, o voglia, e non avrebbe senso.»
ripeté nuovamente: «Scusa se ora sono frettoloso, ma sono in ritardo per gli
allenamenti.» aggiunse, e dopo qualche saluto in più chiuse la chiamata,
riprendendo a camminare con delle scuse distratte per aver fatto attendere l’altro.
Kasamatsu non era una persona che, tendenzialmente, si impicciava dei fatti
altrui, anzi. In quel caso, però, non poté tenere per sé almeno un’osservazione:
«Molte fan piangerebbero se sapessero che Kise Ryouta sa rifiutare un invito
così.» osservò, assicurandosi di non usare il tono di una frecciatina maligna,
ma di monito quasi, da “senpai” in un certo senso – perché era quello per Kise,
anche se quasi del tutto fuori dalla palestra ormai.
«Lo so.» fece lui, abbozzando un sorriso leggero e portando entrambe le mani in
tasca, raggiungendo l’ingresso della palestra e fermandosi per un istante sulla
soglia: «Ma anche io ho persone che non voglio vedere.» disse, entrando del
tutto.
Quando il telefono di Kise squillò di nuovo per una chiamata di Momoi, era
quasi la metà di Ottobre.
1.
Ho giocato volutamente sull’ambiguità della lingua giapponese, dove il genere è
intuibile dal contesto visto che non c’è la differenziazione che vi è in
italiano.
Pertanto Daiki insinua volutamente che il collega sia donna approfittando di
questa stessa ambiguità.
Ringraziamo tutti OhBirds:
se il quarto capitolo vede la luce dopo una sola settimana è per una scommessa –
ah, non dovrei dire che hai perso, ma… hai perso 8D
Aspetto la fanfic che mi hai promesso <3 (momento
d’infamia, sì).