Ma
buondì, bella gente!
Ebbene
sì, ecco il nuovo capitolo, uscito fresco fresco dalla
cartella e
pubblicato subito per voi.
Spero
che il capitolo piaccia e, piccolo spoiler, aspettatevi tristezza.
Tristezza
a palata, davvero.
Per
il resto, vi lascio alla storia.
Buona
lettura^^
Questo capitolo è ispirato dalla bellissima storia di Sissi Bennet
nel fandom "Il diario del vampiro", nella
sezione libri.
Vi lascio il link e vi consiglio di leggerla perché credo
che sia fantastica.
Grazie.
I can't stand the pain, how could this happen to me?
And
I can't stand the pain
And I can't make it go away
No
I can't stand the pain
How could this happen to me
I
made my mistakes
I've got no where to run
Untitled-
Simple Plan
Erano
tornati a Mystic Falls da una settimana e Julya non aveva ancora
accennato a uscire dalla sua stanza.
Ogni
mattina sentiva suonare la sveglia e lasciava che continuasse a farlo
fino a quando non si spegneva o veniva spenta. Non
lo sapeva. Aveva solo una certezza: non avrebbe abbandonato il suo
nascondiglio neanche con la forza.
Non
aveva dormito per giorni fino a quando la stanchezza non aveva avuto
il sopravvento, facendola piombare in un sonno dal quale si era
svegliata ancora più provata. Non aveva nemmeno pianto
perché
avrebbe richiesto troppe forze.
Era
solo rimasta immobile avvolta nel piumone che aveva trascinato con
sé, con la gambe strette al petto con tanta forza da
arrivare a
pensare che non sarebbe mai più riuscita a stenderle.
Aveva
provato a pensare a cosa fare, ma si era accorta di essere senza
prospettive.
Solo
in quel momento, dovendo fare i conti con il proprio fallimento, si
rese conto di non aver mai davvero contemplato la
possibilità che
qualcosa andasse storto.
Certo,
aveva pensato che ci potessero essere intoppi nella sua ricerca,
ritardi, problemi, ma il risultato... quello, dall'alto della sua
presunzione, non lo aveva mai messo in dubbio.
E
non aveva pensato neanche per un attimo che, se avesse fallito, si
sarebbe improvvisamente trovata a fare i conti con il lutto che non
aveva affrontato quasi un secolo prima.
Le
piombò tutto sulle spalle e fu come una doccia fredda, ma
non ebbe
la forza di fare altro che sussultare e fremere per un attimo, prima
di tornare immobile, fissando il pavimento con aria assente.
Il
primo a provare a farla uscire era stato Stefan, ma Julya non era
riuscita nemmeno a guardarlo in faccia.
Aveva
scoperto di essere terrorizzata da lui quando aveva sentito la sua
voce: ogni cosa di lui le ricordava ciò che era appena
successo e la
ferita che le squarciava il petto pulsava più forte, come se
qualcuno vi avesse versato sopra del sale. L'aveva chiamata per un
po', poi se n'era andato senza aver ottenuto nulla.
Poi
era stato il turno di Caroline e persino Damon si era scomodato.
Le
aveva rifilato una frase del tipo “Smetti di fare
l'adolescente
sociopatica e vieni fuori” alla quale lei non aveva risposto
e alla
fine anche lui, il più testardo di tutti, aveva capitolato
con
un'imprecazione.
Non
pensava che potessero mandare qualcun altro perciò quando
vide la
porta aprirsi ebbe un guizzò di sorpresa.
Si
appiattì contro il pavimento e seguì con
circospezione gli stivali
che muovevano passi incerti per la stanza.
“Julya?”
Era
Elena.
Ovvio
che fosse
Elena: chi altri
avrebbero potuto mandare?
“Non
staresti più comoda sul letto? Vorrei parlarti”
Julya
non rispose, ma se non altro alzò gli occhi dal pavimento
per
fissarli in quelli di Elena.
“Va
bene, allora vengo io”
L'espressione
nelle iridi di Julya la spinse a desistere e alzare le mani in segno
di resa, stendendosi poi sul pavimento, abbastanza lontano da Julya
da concederle il suo spazio.
“Parleremo
da qui. Sai, mi sono accorta che da quando sei arrivata io e te non
abbiamo mai parlato.
Ed è strano perché Stefan ti vuole molto bene,
davvero molto”
Attese,
sperando che Julya rispondesse, ma la ragazza si limitò a
continuare
a fissarla.
“Sono
contenta che tu non sia partita”
“Rimango
solo perché non ho nessun altro, ora” ammise.
“Perciò
non pensi di andartene tanto presto?”
“Dove
dovrei andare, Elena? Mio fratello è morto, non ho trovato
il Graal
e non tornerà mai da me. Non ho più nulla”
le
spiegò con calma, la voce così piatta che Elena
sentì un brivido
lungo la schiena e le sembrò di provare un po' della
tristezza che
sentiva Julya.
“Sai,
io ti capisco. Mio padre e mia madre sono morti e io mi sono sentita
esattamente come ti senti tu ora”
“Perciò
immagino che sarai venuta qui a dirmi che dovrei rialzarmi e farmi
forza, che le cose brutte accadono e non si può fare niente
per
evitarle”
“In
realtà, ero venuta a dirti il contrario”
Quello
la sorprese e Elena riuscì addirittura a leggere la
perplessità sul
suo viso, nonostante la poca luce, e si voltò di lato per
guardarla
meglio.
“Quando
sono morti i miei genitori, la gente non faceva che dirmi quelle cose
e io li odiavo per questo. Certo, non mi sono mai infilata sotto un
letto per una settimana, ma cavolo!, se hai voglia di startene
lì,
fallo”
“Dici
davvero?”
“Sì.
Hai diritto ad avere il tempo di guarire e non è giusto
pretendere
da te che tu reagisca subito. Con il tempo, troverai un modo di
venire a patti con tutto quel dolore” le promise e c'era una
tale
sincerità nel suo sguardo che Julya non ne dubitò.
“Ora
devo andare. Suppongo che ci vedremo, prima o poi”
Detto
questo, si sollevò e uscì dalla stanza, non prima
di averle
regalato un sorriso motivante.
Julya
le fu grata per quelle parole. Le pareva strano che fosse stata
proprio Elena a darle la spinta che le serviva per fare il passo
successivo, ma si trovò a desiderare di
provare
qualcosa che non fosse
più solo un vuoto devastante.
Non
era ancora un vero sentimento, ma era un passo avanti rispetto al
nulla e all'apatia.
Ora,
la cosa più sensata sarebbe stato alzarsi e cercare di
mettere
insieme qualcosa per
tirare avanti ogni giorno.
Lo
avrebbe fatto, ma non in quel momento. Aveva ancora bisogno di
restare sola perché, nonostante tutto, non era ancora sicura
di aver
superato la fase di negazione della realtà.
Lo
capiva dal fatto che ogni volta che si risvegliava dal suo sonno
agitato sperava ancora che fosse tutto frutto della sua fantasia.
Un
giorno avrebbe ripreso in mano le redini della sua vita. Con cura e
attenzione si sarebbe costruita una quotidianità e avrebbe
trovato
un nuovo sogno, qualcosa a cui dedicarsi, ma fino a quando non si
fosse sentita pronta avrebbe tirato dritto per la propria strada
senza curarsi di tutto.
A
ben pensarci, sarebbe stato facile smettere di provare qualunque
cosa. Sarebbe
bastato premere
l'interruttore e non avrebbe più sentito nulla, come per
magia.
Eppure
non voleva farlo.
Julya
si conosceva: se avesse spento la propria umanità in quel
momento,
l'avrebbe riaccesa prima o poi e allora riaffrontare quell'inferno
sarebbe stato mille volte più doloroso, come essere bruciata
viva
con lentezza esasperante.
Non
sarebbe stata così codarda da tirarsi indietro di fronte al
dolore.
Per un essere umano soffrire era una sorta di garanzia sulla vita,
una conferma di esserci ancora,
ma la maggior parte dei vampiri credeva che la stessa regola non
valesse per loro.
Stupidamente,
pensavano che essere morti fisicamente li rendesse anche morti
dentro, incapaci di
provare emozioni intense che non fossero l'odio, la brama di sangue,
la vendetta.
Julya
non era dello stesso parere. Al contrario, vedeva nei vampiri
creature in grado di provare sentimenti di un'intensità
disarmante,
mille volte più potenti di quelli degli esseri umani.
Per
loro, rabbia, dolore, frustrazione, desiderio, amore... tutto veniva
amplificato.
Era
per quel motivo che i vampiri si rifugiavano dietro l'interruttore e
spegnevano la loro umanità, a volte per sempre:
perché era più
facile non sentire.
Dopotutto,
si riduceva tutto a quello: codardia e coraggio, facce speculari
della stessa medaglia.
Con
quel pensiero, socchiuse gli occhi e si addormentò senza
accorgersene.
*
Non
sapeva quando fosse
successo, ma lentamente Julya aveva ripreso a provare emozioni.
Non
sapeva se considerarlo un miglioramento, però.
Passava
dalla tristezza alla rabbia così in fretta che i suoi sbalzi
d'umore
non avrebbero avuto nulla da invidiare a una donna incinta.
Era
come una bomba a orologeria, pronta a esplodere in qualsiasi momento
e un po' le faceva paura perché non sapeva cosa aspettarsi
dalla
detonazione.
Poteva
andare meglio, ma sicuramente la situazione sarebbe solo peggiorata
perché sapeva cosa voleva dire toccare il fondo e sapeva di
non
esserci neanche vicina.
Non
poteva fare altro che attendere l'esplosione.
Alla
fine, arrivò a notte fonda, paradossalmente nell'unica sera
in cui
fosse riuscita a trovare un po' di quiete nell'alcool.
Era
appena tornata a casa e ondeggiava pericolosamente mentre saliva le
scale. Ad un certo punto, si tolse le scarpe e continuò la
salita,
ma non sembrò andare molto meglio perché alla
fine capitolò sul
pianerottolo ridacchiando.
Rimase
lì fino a quando non sentì una porta aprirsi e
all'improvviso
apparve Stefan. Anche da sbronza, Julya avrebbe saputo riconoscere le
sue espressioni senza problemi e lui aveva addosso proprio quella da
“cavaliere in scintillante armatura”, quella che
odiava di più
in situazioni come quelle.
“Hai
bevuto” constatò, il volto così
impassibile da farle credere che
quella fosse più che altro l'espressione da
“è il momento della
ramanzina, spero che tu non abbia fretta”.
“Io
l'ho sempre detto che tu sei così perspicace”
biascicò
lei, concludendo la frase con qualche difficoltà di
pronuncia.
Il
suo accento russo, di solito sapientemente occultato,
contaminò la
pronuncia e rese più difficile per Stefan capirla.
“Cosa
hai bevuto?” le domandò scendendo un paio di
gradini, giusto per
essere a portato di mano nel caso fosse scivolata di nuovo mentre
tentava con scarso successo di rimettersi in piedi.
“Rilassati,
Stef. Ho...” e ci mise un po' a ricordare quanti anni avesse,
contando velocemente un paio di volte “140 anni. Sto bene e
posso
cavarmela da sola”
“Indubbiamente
non hai bisogno di essere difesa e non mi preoccupo della tua salute
fisica. Ma tu non stai bene”
“Ah
no?” gli domandò con un ghigno seducente e uno
sguardo lascivo,
quasi osceno “Potresti farmi stare bene tu”
Si
alzò in punta di piedi e gli posò una mano
intorno alla nuca,
stringendo con l'altra i capelli. Stefan si voltò appena in
tempo
perché le labbra di lei sfiorassero la sua guancia, poi la
afferrò
e la scostò da sé.
“Sei
ubriaca” la freddò, ma Julya era davvero troppo
brilla per
prendere qualcosa sul serio.
Ridacchiò
ancora.
“E'
così importante?”
“So
cosa stai cercando di fare” la ammonì. Le voleva
bene, la amava
davvero -anche se non nel modo in cui amava Elena- e l'idea
di
essere duro con lei lo feriva, ma sapeva che doveva farlo.
Julya
non sarebbe tornata a essere se stessa senza una terapia d'urto. Una
volta guarita gli avrebbe tenuto il broncio per mesi o, più
probabilmente, gli avrebbe conficcato un pugnale nello stomaco per
vendetta, ma poi sarebbe passata oltre, di nuovo normale.
“Stai
fuori da casa per giorni interi, torni a orari improponibile puzzando
di alcool e sangue, fai la sgualdrina con me: stai cercando di
attirare l'attenzione, Julya?” la prese in giro tenendole il
viso
tra le mani perché non potesse evitare il suo sguardo.
A
sorpresa, Julya lo inchiodò con occhi lampeggianti di furia
e
indignazione “Non me ne importa niente della tua attenzione!
Perché
dovrebbe importarmi se ho una vita sregolata quando non mi sembra
neanche di viverne una? Non ho più niente, Stefan!”
Per
un attimo provò la sua stessa tristezza e gli venne voglia
di
stringerla a sé quando si rese conto di non poter cedere ora
che
aveva iniziato.
Aveva
scelto la linea dura e doveva essere coerente fino alla fine se
voleva che funzionasse.
“Hai
deciso di fare la vittima? Io ho provato a starti accanto: sono
rimasto steso sul tuo pavimento per quasi due giorni e tu non mi hai
neanche guardato in faccia!”
“Non
te l'ho chiesto”
“No,
l'ho fatto perché ti voglio bene e vedere che sei l'ombra di
te
stessa mi spezza il cuore. Dimmi cosa devo fare, dimmi cosa
vuoi”
la pregò guardandola negli occhi con uno sguardo
così intenso e
appassionato che probabilmente avrebbe fatto sospirare di desiderio
anche la ragazza più frigida.
Ma
Julya rimase impassibile; forse Stefan aveva ragione e lei era
davvero diventava un fantasma.
“Non
voglio niente” rivelò “non faccio i
capricci, non cerco
attenzioni. Non mi importa di nulla, neanche di me
stessa”
A
quel punto Stefan capì e si sentì quasi
sommergere dal peso di
quella dichiarazione.
Julya
andava in giro a bere sangue umano, ubriaca, senza controllo, con il
pericolo di essere scoperta esattamente per
quello: perché
per lei vivere o morire erano diventati la stessa cosa.
“Vorrei
che tu non fossi seria”
“Perché
non dovrei? Ho così tante cose per cui
continuare a
sopportare questa eternità...”
“Va'
a dormire, Julya. Ne parleremo un'altra volta”
Stefan
aveva bisogno di un po' di tempo per metabolizzare tutte quelle
informazioni e per decidere come comportarsi.
La
verità era che lo stato emotivo di Julya lo aveva sconvolto
e
turbato più che se l'avesse vista spegnere per sempre le sue
emozioni per cercare di placare un po' la sofferenza.
Doveva
dormirci su e anche Julya, ma prima aveva bisogno una conferma.
“Promettimi
che non farai nulla di avventato”
Ma
Julya tacque e lo guardò con sprezzo, come a sfidarlo a
proibirle di
fare qualunque cosa volesse.
“Julya...”
Nelle
sue parole c'era un avvertimento a non andare troppo oltre
perché
avrebbe fatto ciò che doveva fare per proteggere Mystic
Falls e
farla ritornare la Julya di un tempo.
“Che
c'è Stefan?” sbottò allora
“Se non mi comporterò da bambina
obbediente cosa farai? Mi rinchiuderai? Mi ucciderai? Fallo”
lo
incitò facendo un passo avanti “strappami il
cuore!” gli gridò
in faccia “Strappalo
ora! Credi mi importerebbe? Fallo!” lo incitò
ancora, nella
disperata speranza che la esaudisse, che mettesse davvero fine a
quell'inferno.
Furono
le parole che fecero traboccare il vaso. Stefan se la caricò
in
spalle e si catapultò giù dalle scale e poi
ancora più giù, in
cantina.
La
lasciò cadere quando furono nella stanza accanto a quella
dove un
tempo Zach coltivava la verbena e si richiuse la porta alle spalle,
appena in tempo per evitare che lei fuggisse.
“Fammi
uscire di qui, Stefan! Fammi uscire!” strillò con
tutta l'aria che
aveva nei polmoni e la sua voce raggiunse in effetti toni piuttosto
notevoli, ma avrebbero dovuto farci l'abitudine.
Julya
era stata una cantante, le sue corde vocali erano più che
allenate e
ci sarebbe voluto un po' perché si stancasse di urlare,
cocciuta
com'era.
Ma
lui non aveva fretta.
Mentre
se ne andava si disse che l'avrebbe guarita, in un modo o nell'altro.
*
“Falle
i complimenti per i polmoni: per urlare così da due giorni
devono
essere allentatissimi” gli ricordò Damon mentre
scendeva con una
sacca di sangue per Julya.
Era
rinchiusa nella cella da quarantotto ore e aveva fatto il possibile
per non far passare inosservata la sua presenza almeno fino a un paio
di ore prima.
Aveva
urlato chiamando il nome di Stefan, poi era passata alle minacce, poi
alle suppliche per poi tornare alle intimidazioni.
All'inizio
Damon lo aveva trovato divertente, ma alla seconda notte in bianco
aveva smesso di ridere.
Nessuno
avrebbe potuto dire che non fosse una vampira perseverante.
Raggiunse
la cella e la trovò rannicchiata in un angolo che lo
guardava da
sotto le ciglia, attraverso una ciocca di capelli scivolatale davanti
al viso.
Se
gli sguardi avessero potuto uccidere Stefan sarebbe morto
all'istante, trafitto da migliaia di coltelli.
“Oggi
il carrello della mensa passa prima?” gli domandò
facendo
schioccare la lingua contro il palato e aprendosi in un sorriso
beffardo, mentre nei suoi occhi brillava ancora la rabbia.
“Io
e Damon andiamo a casa di Klaus per trattare” la
informò con
disinvoltura.
Ma
Julya non poteva sapere cosa era accaduto negli ultimi giorni. Non
sapeva che Stefan aveva sottratto a Klaus le bare che si trascinava
dietro dovunque andasse e le aveva nascoste dove lui non poteva
trovarle.
O
almeno, così aveva pensato fino a quando Damon non era stato
costretto a nascondere quella sigillata per evitare che Klaus se le
riprendesse tutti.
A
ben pensarci, era solo grazie a lui se avevano ancora qualcosa da
scambiare.
“Ti
aggiornerò quando torno” le promise.
A
una parte di lui piangeva nel cuore nel doverla trattare
così, come
se fosse una prigioniera, ma lo faceva per lei: aveva già
dimostrato
di aver preso una pessima china e non sembrava intenzionata a
rimettersi in carreggiata troppo presto.
Fino
a quando non fosse rinsavita, sarebbe rimasta lì, anche se
avesse
supplicato e pregato fino alle lacrime.
Julya
aveva avuto due giorni per pentirsi di essere esplosa in quel modo.
Si
era ripromessa di tenersi tutto dentro per non dover più
vedere
quegli sguardi di compassione che la mandavano su tutte le furie, ma
l'altra sera era scoppiata definitivamente e ora si trovava in quella
schifosissima cella a bere sangue e mangiare toast che, peraltro,
neanche le piacevano.
Era
arrabbiata con se stessa e con Stefan e lo era stata anche la notte
scorsa, quando gli aveva mostrato la parte peggiore del suo dolore
solo per togliergli dalla faccia quell'espressione severa.
Era
tanto chiedere di essere semplicemente ignorata? Julya non credeva.
Dopotutto,
aveva tante cose a cui pensare perciò perché non
poteva lasciare
che lei sprofondasse lentamente nel proprio baratro?
Nessuno
pensava che fosse giusto lasciare che sentisse ciò
che voleva
e provavano tutti a guarirla, ma lei non lo voleva.
“Non
sprecarti. Il mio udito è piuttosto buono e da qui si sente
tutto
perfettamente” replicò con asprezza guardando con
desiderio il
sangue.
Aveva
sete e Stefan gliene dava abbastanza per farla stare bene, ma non per
renderla forte. Il che era una seccatura perché se avesse
bevuto
abbastanza sangue avrebbe potuto scappare, anche con la verbena che
lui si era premurato di cospargere sulla porta, per tenerla lontana.
Evidentemente
non aveva ancora capito quanto lei fosse testarda.
“Ho
qualche minuto e io e te dobbiamo parlare” la
informò sedendosi a
su una sedia che si era probabilmente portato dalla cucina.
“Mi
dispiace, ma la mia gola è piuttosto provata”
“Fino
a due ore fa sembrava in perfetta forma”
“Punti
di vista, immagino”
Stefan
le porse l'intera sacca di sangue e Julya ne fu sorpresa. Ovviamente
non si sarebbe mai sognata di protestare e cominciò a
suggere con
calma il delizioso nettare.
AB
positivo, il suo preferito.
Ma
sapeva che Stefan non si sarebbe levato dai piedi troppo in fretta e
perciò lo accontentò sbuffando.
“Va
bene, parliamo”
“Potremmo
iniziare dal tuo show delirante di due sere fa. Saltando il fatto che
mi sei saltata addosso...”
“Andiamo,
mi sarei fermata prima. Non ero così ubriaca”
“No,
lo immagino...”
“Bene,
allora è tutto chiarito. Sono contenta che ne abbiamo
parlato” lo
prese in giro inarcando le sopracciglia con disappunto quando Stefan
scosse la testa.
“Bel
tentativo, ma non funziona. Comunque, non è di questo che
voglio
parlare. Vorrei capire cosa ti passa per l'anticamera di quel
cervello che ho sempre considerato più che
brillante”
Julya
fu ben lungi dal sentirsi lusingata e aggrottò le
sopracciglia in
un'espressione perplessa.
“Allora
prova a leggermi nel pensiero” lo incitò
“Oh, non puoi” si
finse dispiaciuta portandosi una mano alla
bocca in un gesto di finta sorpresa.
Con
uno scatto repentino Stefan si chinò su di lei e la
inchiodò con i
propri occhi verdi. Julya si aspettava di sentire qualcosa -un
rimescolio nello stomaco o uno sfarfallio- ma non provò
nulla che
non fosse rabbia.
A
dire il vero non vedeva oltre il velo di rancore che le offuscava lo
sguardo.
“Sono
sicuro che la vera Julya sia ancora lì dentro”
“Non
c'è una vera e una falsa Julya. Io sono sempre io, ma le
persone
cambiano”
“Lo
dici solo perché stai male e non vedi oltre tutto questo, ma
passerà. Tu sei migliore di così”
“Non
mi conosci, non mi vedi da ottant'anni. Non sai chi sono”
ringhiò
scuotendo i capelli, frustrata.
“Tu
non sei così e questo mi basta. Vedi di tornare in te,
ragazza
interrotta, perché la tua rabbia non ti porterà
da nessuna parte:
non dovresti mai permettere alle ferite di farti diventare qualcuno
che non sei” le ricordò alzandosi.
Il
loro tempo era finito e lui non aveva ottenuto nulla: solo
più
frustrazione e sconforto, ma nessun passo avanti.
Non
sapeva cosa fare con lei perciò l'avrebbe lasciata ancora un
po' lì
ad aspettare che le tornasse un po' di buonsenso.
Julya
guardò Stefan richiudersi la porta alle spalle senza l'ombra
di un
espressione sul volto. Lo sentì salire le scale e solo
quando fu
certa che fosse lontano si permise di sospirare piano.
Poi
si accorse di avere ancora in mano la sacca di sangue: evidentemente
Stefan era stato troppo distratto dalla loro lite per ricordarsi che
gliene aveva data una intera.
Le
si illuminarono gli occhi e guardò la porta come se non la
vedesse,
come se riuscisse già a vedere oltre.
Bevve
dalla sacca fino all'ultima goccia e l'assaporò tutto con
calma,
proprio come avrebbe fatto se avesse avuto tra le mani una tazza di
buon caffè o di whisky.
Voleva
essere sicura che Stefan e Damon fossero andati via di casa e poi
avrebbe avuto tutto il tempo di uscire perché era abbastanza
certa
che la cena sarebbe andata per le lunghe.
Lanciò
di lato la sacca di sangue e si avvicinò con circospezione
alla
porta. Si sentiva rinata, certo, ma una bella bevuta non avrebbe reso
meno doloroso il contatto con la verbena.
Aveva
pensato che Stefan ne avesse messa appena un poco, giusto
perché ne
avesse sentore. Di certo non si era aspettata che l'avesse
letteralmente ricoperta.
Non
fu facile aprirla: a ogni spallata le sembrava che qualcuno le avesse
versato dell'acido sulla pelle e poi sulla carne viva.
Bruciava
come il fuoco, forse anche di più, e non era per niente
piacevole.
L'odore poi le dava alla testa e le provocava una sgradita sensazione
di debolezza e capogiri.
Alla
fine riuscì a scardinarla e a strisciare fuori.
Purtroppo,
aveva sottovalutato Stefan, ma lui non aveva fatto altrettanto con
lei. Nel momento esatto in cui cercò di risalire le scale,
trascinando un po' la gamba ammaccata in via di guarigione,
sentì
uno scatto e prima di poter fare qualcosa si trovò a terra
con un
paletto intriso di verbena conficcato nello stomaco e uno tra le
mani.
Stefan
doveva aver previsto che sarebbe riuscita a bloccarne uno e per
questo aveva sistemato una seconda trappola.
Quella
l'avrebbe pagata cara: gli avrebbe cosparso ogni cosa -letto, abiti,
diari, Elena- con così
tanta verbena che avrebbe
dovuto dare fuoco a tutto.
Ansimò
e le mancò il fiato per un secondo mentre strappava il
paletto dalla
propria carne. Ma la verbena bruciava -dannazione se bruciava!- e lei
si sentiva più debole che mai.
Un
ringhio le distolse i lineamenti, ma era troppo spossata per fare
qualcosa di concreto. Si appiattì
ancora di più contro il
pavimento e lasciò cadere la testa di lato, scivolando nel
sonno
senza accorgersene.
Continua
**