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Autore: Jules_Black    18/04/2013    1 recensioni
“Sei un cubo. Di Rubik.”
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"I graffi su un banco verde acqua, i biscotti smezzati con le briciole che cadono nelle righe tra le piastrelle, i filosofi filosofanti, i calcoli e gli odori di un posto che sappiamo essere casa; i “buongiorno” masticati tra i denti, i reggiseni con la retromarcia, i segni delle autopsie con i pennarelli rossi, gli abbracci stretti che ti mozzano il respiro – ci abbiamo messo del tempo per finire il puzzle."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A voi, tanto lo sapete cosa voglio dire.


Umane, troppo umane.


“Sei un cubo. Di Rubik.”

Sono quello che sei tu, lì, nello specchio. Un ammasso carino di ricordi di sorrisi di idee di nervi di numeri.
Sono quella che sorride e poi si morde le labbra, quella del “che cazzo di vita” a cui basta un prato, delle margherite e il sole per commuoversi.

E voi quelle della pennellata minimalista originale essenziale,
quelle del dettaglio che serve (sei il fiore all’angolo del foglio),
quelle del cielo azzurro azzurro, di parole che sanno di casa, di nuvole soffici e bianche.

Quelle di ogni giorno, che la quotidianità non vi consuma.
Quelle del “c’è sempre qualcosa di nuovo”, sempre.
Quelle del “morirai da sola”, quelle “dell’amore conta, sveglia, ragazza!”.
Quelle che “a noi il caffè non serve, tira fuori ‘sto panino.”
Del sarcasmo pesante, delle corse – dietro a quale treno, poi?

I graffi su un banco verde acqua, i biscotti smezzati con le briciole che cadono nelle righe tra le piastrelle, i filosofi filosofanti, i calcoli e gli odori di un posto che sappiamo essere casa; i “buongiorno” masticati tra i denti, i reggiseni con la retromarcia, i segni delle autopsie con i pennarelli rossi, gli abbracci stretti che ti mozzano il respiro – ci abbiamo messo del tempo per finire il puzzle.

Umane, troppo umane.

Quella del “Leopardi me lo sposerei; e l’anacoluto rafforza il concetto”.
Quella del “gli esercizi di matematica sono a pagina millequattrocentonovantasei numeri cento, centodieci e centoventidue, greco da pagina seicentosette a pagina quattrocentonove, fisica ho un problema, perché il lavoro è conservativo?, da dove esce questo coseno di θ?”, e anche se non prendi fiato sei bella lo stesso, sei bella come sei.
Quella del “mi sono rotta le palle di questo posto”, ma tanto è quasi finita e, fidati, resterò.

Le stelle dal terrazzo della casa dei nonni in campagna, i capelli biondi rimasti attaccati a pettini d’argento, i bibliotecari silenziosi dietro le finestre appannate di una scuola di città, le poesie scarabocchiate sul truciolato plastificato con pennarelli scarichi, le pizze bianche con la mortadella – quindici centesimi a biscotto, se vuoi mangiare.

Le troppe maschere di Pirandello, il grasso colante del teorema di Rolle e la bruttura di Lagrange; le parole “cicciose” – quasi quasi possiamo scriverne un vocabolario; il fascinum venefico di certe persone; le troppe balle perché “si sta come di merda, la puzza nel WC” – che la buon’anima di Ungaretti non ce ne voglia.

Gli omosessuali in prigione, i Dorian Gray poco apprezzati, le cerniere lampo, i tendaggi, Pascoli "voyeur" che ci scruta da dietro le finestre e che sa tutto di noi - sarà dovuto al fatto che assomiglia a Einstein? Tu fai l'inglese, lei la bulgara, io la francese.

E le parole che non ho mai detto, che sono rimaste incastrate nella mia gola sulle mie labbra nella punta della mia penna blu.
Tutto quello che avrei voluto - avrei dovuto - dirvi.
Il tratto essenziale, il dettaglio mancante, il cielo.
Io. Voi. Quello che siamo, che saremo. Insieme.

   
 
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