Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Hotaru_Tomoe    18/04/2013    9 recensioni
"Tu sei il mio pezzettino di formaggio per attirare il topo in trappola."
"Sherlock." John sospirò pesantemente.
"Già."
"Perché proprio io?"
"Suvvia, Johnny boy, non fare domande stupide. Tu sei l'unica persona che conti qualcosa per quell'uomo, l'unico in grado di farlo uscire allo scoperto. Da cecchino avrei potuto pensare ad un piano meno rischioso di questo ma - strinse il braccio di John così forte da strappargli un debole lamento - perché limitarsi a bruciare un cuore solo, quando posso bruciarne due?"

Pre-slash.
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro, personaggio, John, Watson, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wedding effect'
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Lo so, era nata per essere una one shot, ma Jessie mi ha gentilmente minacciato consigliato di darle un seguito, che è a lei dedicato.
Una questione che avevo in sospeso da "Errando nella nebbia" con un taglio di capelli ha fatto il resto.

* * * * *

Sebbene Sherlock l'avesse più volte apostrofato a quel modo, John Hamish Watson sapeva di non essere uno stupido.
Aveva capito, fin dal primo momento in cui il disgraziatissimo consulente investigativo gli si era materializzato davanti in quel ristorante turco, che prima o poi l'avrebbe perdonato.
Anche nel momento in cui aveva interrotto la sua inopportuna spiegazione con una testata che andava ad impattare contro il suo setto nasale (che non era molto più tenero dei suoi zigomi, aveva constatato un paio di giorni dopo, scoprendo con stupore di avere un bernoccolo sulla fronte), John sapeva che Sherlock sarebbe tornato nella sua vita, che sarebbe tornato a reclamare ed infine ottenere quel posto che gli spettava, perché Sherlock, lo aveva imparato a sue spese, era qualcosa di inevitabile, come l'avanzata della marea. [1]
Quindi non poteva dire di essere sorpreso della posizione in cui si trovava in quel momento, seduto sul letto di Sherlock con la schiena appoggiata ad un cuscino ed il suo ex (ora di nuovo) miglior amico addormentato contro un fianco. Un suo braccio gli sorreggeva la schiena, opportunamente coperta dal lenzuolo, e l'altra mano era appoggiata sul braccio che Sherlock teneva ripiegato davanti al viso, come se avesse bisogno di una rassicurazione fisica del fatto che Sherlock fosse tornato davvero, che non fosse solo un'allucinazione. Non lo era: percepiva l'epidermide calda di Sherlock sotto al palmo della mano e le pulsazioni del polso attraverso le dita che vi aveva chiuso attorno, sapeva che il sangue scorreva in quel corpo, i globuli rossi trasportavano ossigeno, le cellule morivano e nascevano, i pori traspiravano; erano solo semplici e banali funzioni fisiologiche di un qualsiasi essere vivente, ma in quel momento gli sembravano preziose, importante, perché erano prove concrete della presenza di Sherlock.
Sherlock era vivo.
A tratti il pensiero lo colpiva ancora, specie nei momenti più impensati: era seduto alla sua scrivania a compilare una ricetta oppure in piedi davanti alla macchinetta del caffè e d'improvviso pensava "Sherlock è vivo." e gli veniva da sorridere perché sembrava irreale, troppo assurdo, troppo... bello. Eppure era vero.
Tuttavia dalla gioia per avere di nuovo il suo amico e la posizione in cui si trovavano ora, sembrava esserci una bella differenza, eppure era lì, su un letto, vicini, che loro due sarebbero arrivati prima o poi: era logico, evidente, era del tutto naturale. Lo percepiva così come percepiva la presenza del consulente investigativo che gli dormiva addosso, perciò il pensiero non lo sconvolse affatto.
Solo, non immaginava che sarebbe successo così presto.
Erano passati appena quattro giorni dopo la sua ricomparsa nel mondo dei vivi e già John lo cullava contro di sé per farlo addormentare, dopo essere stato vittima del piano più machiavellico, contorto e crudele che mente umana avesse mai elaborato.
Per essere un soldato aveva dimostrato ben poca forza di volontà: aveva giurato a se stesso che Sherlock se lo sarebbe dovuto sudare il suo perdono, con tutto quello che aveva passato nei tre anni precedenti, invece eccolo lì che lo guardava dormire.
Gli prudeva la pianta del piede sinistro però in quel momento era impossibilitato a muoversi per grattarlo, perché tutto il lato mancino del suo corpo era immobilizzato sotto il corpo del sopraccitato Sherlock, di cui sentiva le costole sotto le dita, e non voleva svegliarlo.
"Troppo leggero il suo peso, ancora davvero troppo leggero, al limite della denutrizione."
Per qualche attimo, quell'osservazione da dottore occupò per intero la sua mente, distraendolo dal prurito al piede e dal rimproverare se stesso per aver spalancato le braccia, letteralmente e metaforicamente, ed aver già permesso a Sherlock di invadere a quel modo il suo spazio vitale.
Ora, con il respiro lieve e regolare dell'altro ad inumidirgli appena la camicia, non riusciva più a provare la stessa rabbia feroce di qualche sera prima nemmeno se si sforzava, concentrandosi sulle sensazioni provate in quel ristorante turco.
Era stato davvero così ferocemente arrabbiato? La sua mano gli aveva davvero scagliato contro un portatovaglioli? Faticava a credere di essere stato in preda ad una furia tanto cieca.
"E se lo avessi colpito?"
Quell'oggetto era pesante e dai bordi taglienti, avrebbe potuto fargli davvero molto male, se lo avesse preso in faccia.
Strizzò forte gli occhi e respirò profondamente un paio di volte per scacciare quell'immagine perché va bene perdonarlo, ma arrivare a sentirsi lui in colpa era troppo.
Questo non significava affatto che avesse dimenticato ciò che Sherlock gli aveva fatto passare, no. Giustificato o meno (sì, va bene, lo ammetteva, era ampiamente giustificato) il suo finto suicidio aveva incrinato il loro rapporto: John aveva sempre avuto problemi a fidarsi degli altri e ad aprirsi con loro, mentre quando conobbe Sherlock, quattro anni prima, si fidò di lui immediatamente, in maniera incondizionata e quella fiducia così sacra per lui era stata tradita e ci sarebbe voluto parecchio tempo per riconquistarla. C'erano già stati e ci sarebbero stati episodi infelici, come quello capitato quella stessa mattina.

"Devo andare da mio fratello." aveva esordito il detective, sollevandosi il cappuccio della felpa sulla testa: il grande annuncio non era ancora stato dato al mondo e solo lui e la signora Hudson sapevano che era vivo. Loro e Mary.
John era parecchio di malumore: non si era ancora deciso a telefonare a Mary per fissare quell'incontro chiarificatore che la sua ex fidanzata (sì, a questo punto doveva iniziare a considerarla così) gli aveva promesso, era ancora talmente stordito e confuso che non avrebbe saputo cosa dirle. Reagì pertanto in malo modo alle parole che l'altro gli aveva rivolto "Da quando in qua mi rendi partecipe dei tuoi spostamenti? Vai dove ti pare."
Invece di risentirsi per quella frase brusca, Sherlock si incuriosì "Non credi che stia andando da Mycroft?"
"No, Sherlock. Non ti credo. E se osi a chiedermi come mai, giuro che esco da quella porta e non tornerò mai più."
"Non ho alcun motivo per mentirti, ora." gli rispose Sherlock di getto.
Oh, almeno Sherlock riusciva a capire quale fosse il problema di John. Meglio di niente, anzi, trattandosi di lui, era quasi una conquista.
"Non è questo il punto." rispose John, stizzito. Il rapporto tra due persone non era come mettere in stand by un film e poi schiacciare nuovamente sul tasto 'play' e riprendere dove avevano interrotto. Guardò Sherlock riflesso nello schermo spento del cellulare con cui stava giocherellando da quasi un'ora, lo vide abbottonarsi il cappotto in silenzio, ma poi restare lì sul posto, come fosse alla ricerca di parole che non trovava.
Il deciso colpo di claxon della berlina scura che lo aspettava sotto casa fece muovere il detective e poco dopo anche John si alzò stancamente dalla poltrona per andare al lavoro.

Sherlock si mosse sotto di lui, mormorando nel sonno, e lo strappò alle sue riflessioni. Istintivamente lo strinse un po' più forte contro di sé e subito l'altro smise di agitarsi.
"La prossima volta che lo abbraccio, vorrei non sentire il profilo delle ossa sotto le dita, vorrei che fosse più in carne."
La prossima volta, ovvio. Sempre per il fatto che John non era uno stupido, era perfettamente consapevole che, nonostante il risentimento ed il dolore che ancora provava e la sensazione di essere stato tradito nel modo peggiore, ci sarebbero state altre volte, altri abbracci tra loro.
Probabilmente anche altri baci che sarebbero assomigliati meno a morsi e più a baci veri.
Anche quello era accaduto decisamente troppo in fretta ma d'altronde quando mai gli avvenimenti avevano un corso tranquillo, quando si trattava di Sherlock?
Il prurito al piede non accennava a diminuire ma John non osava muovere un muscolo: non gli era sfuggito come ogni minimo rumore o movimento facesse ridestare Sherlock all'improvviso. Bastava che in strada passasse un camion od una moto col motore su di giri, bastava che i vecchi mobili del 221B scricchiolassero sotto il peso degli anni, che Sherlock riapriva gli occhi all'improvviso, mettendosi a sedere, la mano che correva subito dietro la schiena, dove doveva essere solito portare una pistola. Gli occhi grigi ci mettevano un attimo a mettere a fuoco l'ambiente circostante, non più un luogo dimenticato da dio, ma il familiare salotto di Baker Street; poi Sherlock tornava a sdraiarsi sul divano ma senza riuscire a riposare davvero, nonostante si vedesse lontano un miglio che era esausto.
Tre anni, ed era allo stremo delle forze fisiche e mentali.
John si rifiutò di pensare a cosa sarebbe potuto accadere se la caccia a Moran si fosse prolungata più a lungo.
Provò l'impulso di rendere meno casto quell'abbraccio, di spostarlo completamente su di sé e fargli appoggiare il viso contro il suo collo, ma resistette. Non poteva svegliarlo proprio ora che finalmente dormiva tranquillo. Fu colpito dal pensiero che Sherlock era così sereno perché c'era John vicino a proteggerlo e poteva permettersi finalmente di abbassare la guardia e si sentì stranamente orgoglioso.
Sorrise: perché no? Dopo tutto quello che gli aveva fatto passare, poteva anche indulgere in un po' di autocompiacimento.
La gamba sinistra di Sherlock scivolò in mezzo alle sue e John la accolse aprendo un po' di più le proprie; forse avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo per il fatto di non essere assolutamente in imbarazzo per quella posizione. L'assurdità di quel pensiero minacciò di farlo scoppiare a ridere ma ancora una volta si trattenne, per il bene del suo migliore amico addormentato. Si concesse solo di abbassare gli occhi sulla sua testa e sul nuovo, bizzarro taglio di capelli, inusuale per lui e decisamente troppo corto.
I capelli. Anche colpa loro se adesso Sherlock gli stava dormendo addosso.

Quando, un'ora prima, John era rientrato dal lavoro, aveva trovato il suo coinquilino sprofondato sul divano, a sospirare pesantemente e di continuo, gli occhi chiari fissi sul soffitto, un braccio a penzoloni, l'altro a torturare un filo della cucitura del sofà, la noia che praticamente colava fuori da ogni poro del suo corpo e lo trasformava in una sorta di martire dell'inattività: evidentemente Mycroft non aveva ancora sistemato ogni cosa, quindi l'annuncio che Sherlock fosse vivo doveva essere rimandato ancora e questo significava che non poteva ancora riprendere il suo lavoro né sfogare la frustrazione sforacchiando il muro di proiettili.
Il peggiore degli scenari possibili per il detective.
"Cosa vuoi mangiare questa sera?" chiese John.
"Nulla." bofonchiò l'infelice.
"Molto bene - rispose John con risolutezza - vorrà dire che mangerai quello che deciderò io." Magro com'era, non gli avrebbe permesso di saltare alcun pasto.
Sherlock aggrottò la fronte, indispettito, e si voltò col viso verso lo schienale del divano, soffiando come un gatto arrabbiato.
Un pesante insulto stava per salire alle labbra di John, ma venne fermato da una lunga litania di lamentele "Ho passato l'intera mattinata a casa di mio fratello, un posto che in tre anni ho imparato a detestare, abbiamo litigato per ore e ho avuto a che fare con quegli incompetenti dei suoi uomini, poi sono tornato qui e non mi sono più mosso, non ho nulla a cui pensare, non ho nulla da fare, perciò non ho fame."
"Hai finito?" chiese John puntandosi le mani sui fianchi come avrebbe fatto un maestro con un allievo indisciplinato.
"No. Mi annoio, John! Di questo passo impazzirò." concluse, nel suo miglior tono drammatico.
In quel momento al dottore lo sguardo cadde sui capelli di Sherlock: erano la parte di lui che era uscita più malconcia dall'incontro ravvicinato con il rogo, rovinati dal calore estremo, molti ricci contorti ed annodati tra loro a formare poco estetici grumi. John allungò un dito verso la sua testa e li sentì spiacevolmente crespi. Inoltre emanavano ancora quel terrificante odore di pollo bruciato che gli faceva rivoltare lo stomaco. Eppure, in quattro giorni, Sherlock non se ne era curato affatto, sempre così poco attento al suo corpo che pareva trascinarlo in giro per il mondo solo perché era attaccato al suo cervello.
"Potresti impiegare il tuo tempo tagliandoti i capelli. Seriamente, Sherlock, sono un disastro inguardabile."
"Scusa se offendo il tuo senso estetico. - mugugnò il consulente investigativo - E poi mi spieghi come potrei tagliarli da solo? Non sono un contorsionista."
"Lo faccio io." si offrì.
"Adesso non ho voglia."
"Preferisci restare ad annoiarti qui sul divano con i capelli in disordine? Almeno annoiati dopo esserti dato una sistemata."
Una risata tremula scosse il corpo di Sherlock che poco dopo si alzò, andò nel bagno principale [2] e John sentì l'acqua scorrere. Recuperò un paio di forbici da un cassetto della cucina ed attese; passata mezz'ora e non sentendo più alcun rumore provenire dal bagno, si insospettì: ci voleva così tanto a lavarsi i capelli?
Si accostò alla porta chiusa e bussò piano "Sherlock, ti senti bene?"
Gli rispose solo un vago mormorio e John decise di aprire, trovando Sherlock immerso nella vasca da bagno con le mani giunte sotto il mento e gli occhi chiusi in contemplazione di dio solo sa cosa.
Il dottore si passò una mano sugli occhi "Non avevamo parlato di capelli?"
"Il lavandino è piccolo e basso, troppo scomodo per me, preferisco lavarli qua dentro." rispose l'altro senza nemmeno aprire gli occhi.
"E allora perché tutto il tuo corpo è bagnato tranne che i capelli?"
"Uh, stavo per lavarli, ma mi è tornata in mente una notizia interessante che ho letto sul giornale stamattina: il furto di una cassetta per le lettere."
"Una... cosa?"
"Una cassetta per le lettere, John. Quei contenitori di metallo rossi della Royal Mail che i turisti amano tanto fotografare."
"So che cos'è! - sbottò John - Quindi tu stai rimuginando da - guardò l'orologio - quaranta minuti su un furto da quattro soldi come questo?"
"E' una cosa insolita, ha attirato la mia attenzione."
"Bene, ora hai finito di pensare?"
"No, non ancora."
Fu il turno di John di sospirare: e quel bambino ipertrofico era sopravvissuto tre anni per suo conto? Aveva dell'incredibile. Senza pensarci troppo, si sedette sul bordo della vasca, afferrò il microfono della doccia ed aprì l'acqua, saggiandone la temperatura sul palmo della mano e ringraziò una divinità a caso che la vasca fosse piena di tanta schiuma altrimenti quella situazione sarebbe potuta sembrare molto equivoca, più di quanto già non lo fosse, perché prima di allora John non si era mai sognato di lavare i capelli di Sherlock né alcuna altra parte del suo corpo, era bene chiarirlo.
Solo che, se non avesse fatto qualcosa, quello sarebbe stato capace di restare in ammollo per ore finché la pelle non gli si fosse raggrinzita come quella di uno sharpei.
Quando giudicò che l'acqua fosse abbastanza calda istruì Sherlock di reclinare la testa indietro e gli bagnò i capelli, si versò una noce di shampoo sulle mani ed iniziò a strofinargli la cute, purtroppo le dita si impigliarono nei numerosi nodi e quando cercò di districarle dal groviglio, tirò con troppa energia. Lo vide stringere le labbra e contrarre un istante le mani a pugno ma non un lamento od una protesta uscì dalla sua bocca.
Nemmeno per la testata si era lamentato, o per i morsi violenti della notte del rogo, di cui portava ancora segni sulle labbra. Era quello il suo modo contorto di chiedergli scusa? Accettare passivamente tutto ciò che John avrebbe potuto fargli? Non gli piaceva l'idea, non era quello lo Sherlock che conosceva, condiscendente e remissivo nel confronti di John.
Certo, avrebbe gradito delle scuse tradizionali, ma quello no.
"Puoi dirmelo se ti faccio male."
"No."
John sciacquò via lo shampoo e prese il balsamo "No, non me lo dirai o no, non ti faccio male?"
Nessuna risposta, solo una scrollata di spalle.
Infilò di nuovo le mani sotto ai ricci e tirò, pur se più dolcemente, e questa volta Sherlock non mancò di esclamare un vibrante "Ouch!" di protesta. John lo guardò soddisfatto: ecco, così andava meglio, molto meglio.
"Fai piano." brontolò.
"Ora non esagerare." lo avvertì John. Da quella posizione gli parve che l'altro sollevasse le labbra in un sorriso fugace.
Seguirono minuti di confortevole silenzio, mentre John risciacquava con cura la testa e poi la avvolgeva in un asciugamano, massaggiando piano la cute. "Ecco, ho finito."
Sentì il moro agitarsi sotto di sé per alzarsi dalla vasca e allora abbandonò precipitosamente il bagno: dopotutto Sherlock non era un invalido e poteva benissimo finire di lavarsi ed asciugarsi da solo, e se non aveva alcun problema a mostrarsi nudo, lui conservava ancora un minimo senso del pudore, grazie tante.
Quando lo raggiunse in cucina, Sherlock non indossava nulla, se non un lenzuolo bianco. "La prima cosa pulita che ho avuto sottomano." puntualizzò davanti allo sguardo interrogativo di John, mentre si lasciava cadere sulla sedia.
"E perché un lenzuolo pulito stava in bagno e non in camera tua?"
"Quella che le lenzuola debbano essere riposte in camera da letto è solo una convenzione sociale: se lo ritenessi opportuno, non avrei problemi a tenerle in una credenza della cucina."
"Cosa che ti proibisco di fare. - lo avvertì John - Poi però hai un tuo metodo di catalogazione dei calzini..."
"I calzini sono un'altra cosa." gli rispose Sherlock con solennità, come se stesse parlando di un affare di Stato e John sorrise, appoggiandogli una mano sulla testa. "Va bene, basta così, altrimenti andiamo avanti tutta la notte."
John prese le forbici dal tavolo e se le rigirò tra le dita, pensieroso: erano affilata, appuntite, molto grosse, le aveva viste usare in decine di omicidi come arma del delitto. Sollevò lo strumento e le portò davanti al viso di Sherlock. "Ti fidi di me?" [3] domandò serissimo.
Sherlock alzò gli occhi su di lui, quasi dello stesso colore del metallo cromato scintillante delle forbici e rispose senza esitazione "Sì, John."
John non aveva ancora ripreso a fidarsi di Sherlock, ma aveva bisogno di sentirsi dire dalla sua voce che Sherlock si fidava di lui, che avrebbe ancora affidato la vita nelle sue mani.
John lo guardò a sua volta negli occhi e gli credette.
Da qualche parte dovevano ricominciare e quello fu un inizio.
John annuì piano, poi girò attorno a lui, gli posò una mano sulla nuca per fargli inclinare la testa in avanti e, cominciando dal basso, iniziò a tagliare i riccioli scuri, afferrandoli tra indice e medio e tagliando la lunghezza che spuntava. Di tanto in tanto guidava la testa del suo amico con la punta delle dita, spostandola con delicatezza, oppure soffiava via i capelli che gli scivolavano sul collo, perché aveva capito dalle smorfie di Sherlock che la sensazione gli dava molto fastidio.
"Bambino." lo rimproverò con indulgenza.
"Pungono." ribatté Sherlock.
"Adesso stai fermo." lo ammonì, mentre operava delicatamente con le forbici vicino all'orecchio. Sherlock era ad occhi chiusi, respirava regolarmente ed era completamente rilassato e sembrava aver perso del tutto l'agitazione di cui era privo quando si annoiava.
La mano di John si muoveva sicura e non tremava, anche se, per ogni ciocca rovinata che cadeva a terra, continuava a rivedere Sherlock vicino a quel rogo, che cercava disperatamente di raggiungere il manichino al centro della pira, credendo fosse lui.
Ma ad ogni colpo di forbice, che rivelava come i capelli sottostanti fossero intatti, era come se anche la paura provata in quel momento scivolasse via.
Zac
Non era rimasto ustionato.
Zac
Solo scottature superficiali.
Zac
La pallottola di Moran non lo aveva colpito.
Zac
Stava bene.
Arrivato in cima alla testa, il dottore cambiò posizione, portandosi davanti a lui e scostandogli i capelli dalla fronte. Accarezzò con il pollice il contorno di una scottatura vicino alla tempia destra, ancora un po' arrossata e quando sentì le ciglia di Sherlock solleticargli il palmo della mano, si avvide che aveva riaperto gli occhi.
"Ah - si schiarì la voce - sta guarendo bene, ma continuerei con la sulfadiazina ancora per un paio di giorni." [4]
"Ma quella cosa unge!" si lamentò Sherlock e John alzò esasperato gli occhi al cielo "Ti rendi conto che questa sera stai frignando come un moccioso, sì?"
"Sto recuperando in tempo perduto. Per tre anni non ho potuto parlare con nessuno."
"C'era tuo fratello."
"Ecco, appunto."
Seguì un brevissimo istante di silenzio e poi entrambi ridacchiarono adagio: non c'era mai stato argomento migliore di Mycroft per qualche battuta scema, eccetto Anderson, ovviamente.
"Su, smettila di distrarmi o combinerò un macello."
Forse John avrebbe sentirsi irritato dall'idea che Sherlock facesse i capricci, usandolo come una specie di sacco da pugile emotivo, ma era troppo sopraffatto dall'idea che si fosse tenuto dentro tutto quanto così a lungo e che volesse sfogarsi solo con lui.
Un altro piccolo passo in avanti.
Zac
Un altro ricciolo che cadeva a terra.
"La pomata la mettiamo comunque." insisté John. Continuò a lavorare con attenzione e dopo qualche minuto si rialzò per valutare il taglio. "Ecco, ho finito. - gli passò un paio di volte le mani sulla testa, per scrollare via gli ultimi residui di capelli caduti ed assicurarsi di non aver lasciato nodi - Vuoi vederti allo specchio?"
"No, sono sicuro che hai fatto un buon lavoro."
"Ho cercato di tagliare il meno possibile, ma ci vorrà comunque un bel po' prima tornino della loro lunghezza." valutò il dottore, sprofondando di nuovo la mano tra le ciocche scure, ormai quasi completamente asciutte.
"Non importa."
"Però mi dispiace, stavi bene con i ricci."
"Non c'è motivo per dispiacersi per una cosa del genere, John: sono solo capelli, ricrescono. Non è come aver perso un arto o..." si interruppe, cercando un altro termine di paragone e John completò precipitosamente la frase per lui "...la vita. Sì, ho capito."
Sherlock lo studiò a lungo, in silenzio e John ripeté "Ora ho capito."
"Sherlock è vivo." pensò di nuovo. Malconcio, dimagrito, un po' bruciacchiato, con ancora il livido della sua testata, con i nervi a fior di pelle, ma vivo.
Una volta, all'interno di un biscotto della fortuna, aveva trovato scritto "A tutto c'è rimedio, fuorché alla morte." ed ora ne comprendeva davvero il significato: Sherlock era lì davanti a lui, non era morto e tutto il dolore che la sua assenza gli aveva procurato, la diffidenza, il rancore, erano tutte cose che potevano essere superate e che prima o poi si sarebbero dissolte. Lasciò scivolare via la mano dalla testa di Sherlock e questi si alzò in piedi e, senza alcun preavviso, si liberò del lenzuolo per scrollare via i capelli tagliati; John cercò di distogliere lo sguardo il più rapidamente possibile, ma sembrava inevitabile che, in modo o nell'altro, vedesse Sherlock nudo quella sera.
Solo più tardi gli venne in mente che era rimasto fermo dove si trovava, senza darsi ad una ritirata strategica come era successo poco prima in bagno. Passi in avanti sempre più rapidi, tanto che ormai quasi non si accorgeva di compierli.
"John?"
"Mh?" Il dottore riportò lo sguardo su di lui, vedendo che si era nuovamente avvolto nella stoffa bianca.
"Andrai a parlare con Mary?"
Il dottore poggiò le forbici sul tavolo "Sì."
"E cosa le dirai?" la sua espressione era tesa, ansiosa e non si dava pena di mascherarla.
"Ancora non lo so, ma probabilmente assomiglierà molto a 'scusami' e 'grazie di tutto'."
"E poi?" lo incalzò.
"E poi non mi dispiacerebbe approfittare della macchina di tuo fratello per traslocare qui le mie cose."
Lo vide sorridere.
"Te la metterò a disposizione."
"Bene. Ora prendo l'aspirapolvere e do una ripulita."
"No."
"Sherlock - sospirò John - se non pulisco, questi capelli se ne andranno in giro dappertutto e ce li ritroveremo anche nelle tazze della colazione. E' una cosa che vorrei evitare."
"Fallo domani. - si inclinò impercettibilmente verso di lui - Sono stanco, John."
Il dottore gesticolò verso la camera da letto "Vai a riposare allora, qui sistemo io."
"Vieni a dormire con me." Pronunciò quella frase con tono assolutamente calmo, quasi fosse una richiesta normale o un qualcosa che facevano abitualmente. John, invece, ebbe una leggera vertigine e ringraziò il cielo di essere col sedere appoggiato sul tavolo della cucina, perché in quel momento non si fidava molto della stabilità delle sue ginocchia.
Quello era un po' più di un passo in avanti, era un salto nel buio, di schiena e con gli occhi bendati e stava succedendo troppo in fretta: Sherlock era ripiombato nella sua vita con la potenza di un'esplosione, lasciandolo frastornato e di certo quella richiesta repentina non lo aiutava a fare chiarezza, perché se da un lato era felice che Sherlock fosse vivo, dall'altro le cose erano già molto ingarbugliate e quello rischiava solo di complicarle ulteriormente. Dividere un letto non era una cosa da coinquilini né da amici ed anche se non aveva la minima idea di cosa fossero i sentimenti, anche Sherlock doveva capirlo. Alzò lo sguardo verso il suo viso magro ed angolare, sereno, sugli occhi chiari fissi su di lui. Sì, Sherlock lo capiva.
"Con dormire..."
"Intendo proprio dormire, John. Un intero ciclo di sonno, comprensivo di fase R.E.M."
"Perché?" domandò cauto.
"Diverse ragioni. La prima è che sono diverse notti che non riesco a dormire. Invece, mentre mi tagliavi i capelli mi è venuto sonno."
"Oh, quindi è un altro dei tuoi capricci?"
"No. Ma se preferisci considerarlo così, a me sta bene."
"Non... non lo so." ammise con franchezza John.
Sherlock indietreggiò di qualche passo "Scusa, a quanto pare sono stato inopportuno."
"No, non è quello, è solo che non so cosa pensare, davvero." John allargò le braccia, confuso.
"Puoi continuare a pensarci anche di là." Sherlock inclinò la testa in direzione della sua camera.
John si grattò la nuca "Sì - rispose, dopo un attimo di esitazione - sì, d'accordo, tanto non avevo sonno stasera. - lo seguì, salvo poi fermarsi sulla soglia della camera - Hai parlato di diverse ragioni, quali sono le altre?"
Sherlock si arrampicò sul letto, attorcigliandosi ancora di più nel lenzuolo che indossava, fino ad assomigliare ad una specie di mummia "Ora non mi crederesti."
"Oh, davvero?"
"L'hai detto tu stesso."
Sherlock aveva ragione: era ancora molto guardingo, timoroso che lo intortasse di chiacchiere e lo manipolasse come era solito fare in passato, non era ancora pronto a credere a tutto ciò che aveva da dirgli. Avanzò verso il letto e Sherlock si spostò per fargli posto, poi gettò il maglione su una sedia e si chinò a slacciarsi le scarpe.
"Tu comunque tienile da parte, queste ragioni, può darsi che un giorno voglia sentirle."
"Va bene."
John prese un cuscino e lo sistemò contro la testata del letto, poi si accomodò in posizione semisdraiata, poi indirizzò uno sguardo interrogativo alla sottospecie di bruco gigante che aveva accanto "Okay?"
"Posso venire più vicino?"
"Ah... io... sì, va bene." balbettò nervosamente, ma quando Sherlock appoggiò il viso sul suo stomaco e chiuse gli occhi, scoprì che andava bene sul serio, che quel peso caldo contro il fianco era perfetto, semplicemente perfetto, come se quel corpo spigoloso fosse stato creato appositamente per adattarsi al suo. Lasciò scivolare una mano sulla schiena di Sherlock e chiuse gli occhi anche lui.
"Mi dispiace." sussurrò Sherlock qualche minuto dopo, talmente piano che John riaprì gli occhi confuso, credendo di essersi appisolato per un istante ed averlo sognato, ma il detective ripeté ancora "Mi dispiace."
"Sì, me l'hai già detto." In effetti era stata la prima cosa che gli aveva detto, quando gli era ricomparso davanti. La mano di John risalì lungo la scapola in una rude carezza.
"Devo ripeterlo ancora. - proseguì Sherlock, tenendo gli occhi chiusi - Devo ripeterlo finché non mi crederai."
La carezza di John si arrestò e sentì il moro irrigidirsi contro di lui e trattenere il fiato.
"A questo credo." mormorò John di rimando e riprese ad accarezzargli la schiena fino a che la tensione non lo abbandonò. Pochi minuti dopo, Sherlock dormiva tranquillo.

Ed ecco come erano finiti su quel letto. John gettò un'occhiata alla sveglia, erano le nove e mezza. Lo avrebbe lasciato dormire un paio d'ore, poi avrebbe cucinato la cena: era serio quando diceva che non avrebbe più permesso a Sherlock di saltare i pasti per un bel po' di tempo.
L'altro avrebbe brontolato, ma alla fine l'avrebbe convinto, poi forse avrebbero guardato un po' di tv spazzatura o forse John avrebbe chiesto a Sherlock cosa aveva fatto una volta lasciata Londra e quando Sherlock avesse iniziato a raccontare, lui gli avrebbe creduto.

= < > = < > =


NOTE

[1] Citazione da "Sonno profondo" di Banana Yoshimoto.

[2] Anche se non si è mai visto con esattezza, il 221B dovrebbe avere due bagni: uno in fondo al corridoio, dopo la cucina, ed uno "privato" di Sherlock in camera sua. E, non so perché, mi sono fatta l'idea che nel bagno principale c'è la vasca, mentre in quello di Sherlock solo la doccia.

[3] Citazione da C.S.I., episodio 7x17 "Fallen Idols".

[4] Principio attivo di molte pomate contro le scottature.

   
 
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