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Autore: waferkya    20/04/2013    4 recensioni
[e/R] Enjolras ha una band e si strugge dietro a un centro sociale. Grantaire, più che altro, è irritante.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Enjolras, Grantaire, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Come As You Are.


Enjolras è abituato alle persone che si voltano a guardarlo quando mette piede in una stanza, o esce in strada da un negozio o una macchina o un pub, o mentre sale o scende le scale della biblioteca, e persino quando fa jogging al parco alle sei-e-cinque del mattino, con addosso la tuta più sdrucita che possiede, i suoi ricci biondi che scivolano costantemente fuori dal miserabile, scompigliato tentativo di coda di cavallo che lui insiste a tentare di annodarsi dietro la nuca, perché come può sperare di cambiare il mondo se non riesce neppure a domare i propri capelli?

 

Enjolras è abituato ad essere al centro dell’attenzione, è una cosa cui cerca di non badare troppo e il più delle volte la detesta profondamente, ma non può farci nulla. Quello che, invece, davvero gli piace — la cosa cui non vuole mai e poi mai abituarsi — è lo schiaffo caldo e bollente e rosso di adrenalina ogni volta che sale sul palco e le persone alzano gli occhi su di lui, sorprese, come sempre, ma lo ascoltano, pure. Smettono di fare qualsiasi cosa stessero facendo, pur di ascoltarlo, e talvolta capita persino che rimangano a bocca aperta mentre Enjolras canta o parla, tra una canzone e l’altra; talvolta, dopo il concerto qualcuno addirittura si fermerà al banchetto del centro sociale, con gli occhi illuminati di un’ispirazione che Combeferre e Courfeyrac ed Eponine ed Enjolras — la voce di Enjolras — hanno acceso. Talvolta, qualcuno si presenta persino alle riunioni. Qualcuno continua persino a tornare.

 

È questo che piace ad Enjolras: la batteria e la chitarra e il basso schiacciati assieme alla sua voce, che esplodono e vibrano attraverso una folla entusiasta — che hanno un significato.

 

E se, mentre canta o denuncia l’ennesimo abuso del governo o semplicemente intona inni alla Libertà e alla Giustizia, lo sguardo di Enjolras si perde a cercare un rovo di riccioli neri fermo e immobile proprio sul bordo del moshpit, beh, saranno pure affari suoi.

 

 

 

È la mattina del loro primo concerto importante, Quel Genere Di Chance Di Conquistarti Tutto Quello Che Hai Sempre Voluto E Che Ti Capita Una Volta Nella Vita Di Cui Parlava Eminem In Quella Sua Canzone, come l’ha chiamata Eponine mimando persino le virgolette per aria, ma il fatto è che stava palesemente esagerando. È solo un concerto e, d’accordo, stavolta li pagano, e, va bene, ok, è in un locale serio, un locale grande, il genere di locale dove le persone come loro non mettono piede — e oh, Cristo, ok, è un avvenimento epocale, da un certo punto di vista. E, da un certo altro punto di vista, chiaramente non significa nulla, perché la fame nel mondo è epocale; la guerra è epocale; un genocidio è epocale e il buco nell’ozono è epocale e l’omicidio sistematico di giornalisti è epocale.

 

Quindi è la mattina del loro primo concerto importante, ed Enjolras potrebbe essere a tanto così da un crollo nervoso, perché la notte scorsa Combeferre ha avuto la brillante idea di rompersi una mano.

 

«Per caso vuoi rompermi anche l’altra? Magari ti fa sentire meglio,» propone Combeferre, con un sorriso gentile e ragionevole. Enjolras sta camminando su e giù, e si ferma giusto per l’attimo che serve a scoccargli un’occhiataccia.

 

«Non mi tentare.»

 

Combeferre china il capo per nascondere una risatina, ma Enjolras ha la faccia di uno che sta davvero prendendo in considerazione l’idea di fracassare dita per risolvere i propri problemi di stress, quindi Combeferre si guarda bene dal ribadire la propria offerta.

 

Sono tutti a raccolta in una delle stanze secondarie del centro, occupata da un gran disordine di tavoli e sedie impilate e persino un divano di pelle vecchissimo e incastrato in un angolo. L’abituale brusio di chiacchiere spensierate che incornicia le riunioni della band — e di conseguenza quelle del collettivo — è rimpiazzato da un silenzio serio che ha quasi il sapore di una sconfitta.

 

Enjolras si rifiuta di accettarlo, e sa perfettamente che stanno tutti aspettando che se ne venga fuori con una soluzione, ma non riesce a pensare a niente di utile, perché Joly ha appena iniziato il tirocinio e non acconsentirà mai a sostituire la mano rotta di Combeferre con la sinistra di Enjolras — non che questo risolverebbe qualcosa, in ogni caso, perché Enjolras ha bisogno di entrambe le mani per la chitarra, e sta palesemente pensando in cerchio senza andare da nessuna parte e se solo Grantaire la piantasse di fissarlo, Gesù Cristo.

 

Enjolras, d’un tratto, si ferma; perché c’è Grantaire? E come fa ad essere in piedi prima di mezzogiorno, dato che sta piuttosto sicuramente cullando un’orribile sbronza da ieri notte? Enjolras ricorda di averlo visto buttar giù non meno di otto gin tonic senza acqua tonica, e a quel punto ha smesso di portare il conto; ciononostante, Grantaire è lì, come sempre, le braccia incrociate sul petto e quel ridicolo cappellino lavorato a maglia tirato giù sulle orecchie e che gli spinge i riccioli neri negli occhi—occhi fissi su Enjolras e terribilmente blu e luminosi e aspetta, non è che è ancora ubriaco? Non sarebbe la prima volta.

 

Enjolras apre la bocca, intenzionato a chiederglielo, ma Eponine, appollaiata in cima al suo trono di sei sedie impilate, si picchia le mani sulle gambe.

 

«Ok, ecco cosa faremo,» dice, con abbastanza convinzione che persino Grantaire schioda lo sguardo da Enjolras per concentrarsi su di lei. «Io posso suonare la batteria, no problem, ma a te tocca la chitarra solista. Può andar bene?»

 

E, dunque, dev’esserci qualcosa che non va con l’illuminazione nella stanza, o forse negli ultimi due secondi l’asse terrestre è capitombolato giù dal suo angolo giusto, o qualcosa, perché sembra che Eponine si stia rivolgendo a Grantaire, e questo non è per niente possibile.

 

Solo che Grantaire adesso sogghigna leggermente, snoda una mano dall’incavo del proprio gomito per grattarsi distratto dietro un orecchio.

 

«Non saprei,» dice, la voce leggera, e poi guarda Enjolras prima di chiedere, «Posso?»

 

Enjolras sbatte gli occhi una, due volte. Non riesce a crederci. «Sai suonare la chitarra?»

 

«L’ho chiesto prima io,» replica Grantaire, senza battere ciglio. Jehan, arricciato sul divano accanto a lui, nasconde una risatina.

 

Enjolras inspira, molto lentamente, e poi espira, ancor più lentamente. È del tutto, assolutamente calmo.

 

«Hai mai avuto modo di suonare una chitarra?» domanda, al massimo dell’educazione. «Sei stato istruito, hai esperienza? Saresti in grado di suonare?»

 

Il sogghigno di Grantaire si allarga. «Ne avrei una vaga ambizione, sì.»

 

«Non dargli retta, in realtà è bravo davvero,» interviene Jehan, e Grantaire gli dà giocosamente di gomito per ripicca.

 

Enjolras fa un passo indietro, e gli occhi di Grantaire si riprecipitano su di lui.

 

«Aw, non potresti sembrare più sorpreso di così, Apollo. Mi ferisci,» dice, con un sorriso facile e premendosi una mano sul petto drammaticamente; Enjolras potrebbe essere indotto a pensare che stia scherzando, ma con Grantaire, non è mai sicuro di niente.

 

Si schiarisce la voce, allora, e si volta verso Eponine. «Confido che non avrai problemi alla batteria.» Lei annuisce e solleva i pollici, per cui Enjolras si concede di rilassarsi un pochino. Si stropiccia i capelli, e sospira. «Va bene. Ma Rooftops non la suoniamo.

 

 

 

Il giorno in cui prende in tutto e per tutto ad orbitare attorno ad Enjolras, Grantaire è pesantemente ubriaco. Sta cercando un bagno, e invece inciampa in una riunione, una decina di paia d’occhi che si puntano su di lui nell’istante in cui apre la porta e si affaccia nella stanza.

 

Riconosce Eponine, seduta accanto al tizio che ultimamente le sta sempre dietro—Grantaire non riesce a ricordare il suo nome, sebbene sia certo che li abbiano presentati,—ed è così che si rende conto del fatto che non ha appena interrotto una riunione qualsiasi; davanti a lui siedono i famosi Amis de l’ABC, il cuore bellicoso dell’intero centro sociale. Il che significa pure che, da qualche parte là in mezzo, ci dev’essere anche—ah. Grantaire sorride e ha pietà dell’alcol che lo rende così cieco.

 

Enjolras è in piedi in mezzo alla stanza, il volto lievemente arrossato, le mani congelate a metà di un gesto; anche senza un’esplosione di luci colorate a incorniciargli i capelli, anche senza il fumo artificiale a strisciargli lungo le gambe magre, anche senza una chitarra sul petto e senza un microfono stretto tra le dita in un modo che ha accompagnato la terribilmente vivida immaginazione di Grantaire in viaggi di affascinante bellezza, Enjolras ha ugualmente l’aspetto della creatura sovrannaturale che interpreta sul palco. Il che significa che non si tratta di una recita, dunque. Grantaire è ubriaco, ma la cosa gli pare comunque molto ingiusta.

 

«Beh?» domanda il magnifico, bellissimo cherubino, con un’occhiata seria di rimprovero che lo rende d’improvviso terribile, Grantaire vede lampeggiare alle sue spalle il profilo di ali gigantesche.

 

Grantaire china la testa e vorrebbe dire, Ti stavo cercando, ma persino alle sue sinapsi inebriate pare un po’ troppo.

 

«Scusate il ritardo,» dice, piuttosto, con un sorriso strafottente e luminoso, e poi va a buttarsi sulla sedia libera più vicina ad Eponine.

 

Non aveva la minima intenzione di presentarsi a quella riunione, ma la settimana successiva è lì di nuovo, e così quella dopo e quella dopo ancora e ancora e ancora—e non fa mai più tardi.

 

 

 

Enjolras ha ogni intenzione di trucidare Grantaire. Ha letto abbastanza sui crimini di guerra da conoscere una quantità significativa di orribili, terribili cose da poter fare ad un uomo, e infliggerà a Grantaire ogni singola tortura di cui abbia mai sentito parlare; sarà crudele, e spietato, e tremendo, e tutte le cose che Enjolras non è mai, perché Grantaire si merita il peggio, Grantaire è il peggio, è—

 

«Oh, eccolo lì,» dice Eponine allegramente, come se non dovessero andare in scena tra cinque minuti.

 

Il maledetto idiota si toglie il cappello e la sciarpa mentre si avvicina tutto tranquillo, facendosi largo nel backstage affollato.

 

«Scusate il ritardo,» dice, chinando la testa con un sorrisino, come se stesse ricordando qualcosa. Enjolras vuole strangolarlo—perché Enjolras non lo sta strangolando?—ma Eponine s’interpone fisicamente tra loro e, quando il cappotto di Grantaire vola su una panca insieme a tutti gli altri, gli offre la propria chitarra.

 

«Ho incollato la scaletta al pavimento del palco.»

 

«Sei un dono del cielo,» le dice Grantaire con un ghigno, ma non smette davvero di guardare la chitarra—sta armeggiando con le corde, la punta della lingua intrappolata tra i denti, e oddio, ma sta cercando di accordarla adesso?

 

«Se ti fossi preso il disturbo di presentarti per il sound-check, per non parlare delle prove, sapresti che quella chitarra è perfettamente accordata,» dice Enjolras, velenoso. Grantaire mugugna distratto, accarezza le corde con un pollice e poi finalmente alza la testa.

 

«Oh, ma non potevo certo venire alle prove,» dice, gli angoli della sua stupida, stupida bocca che si arricciano furbescamente all’insù. «Bisogna preservare un po’ di mistero.»

 

Enjolras apre la bocca per spiegargli molto dettagliatamente cosa se ne può fare del suo stramaledetto mistero, ma una ragazza dello staff si materializza accanto al suo gomito, avvisandoli allegramente che è il momento di cominciare.

 

Quando passa accanto ad Enjolras, Grantaire gli fa l’occhiolino e gli mormora all’orecchio, «Non preoccuparti per me, Apollo.»

 

Enjolras gli fissa la schiena con odio profondo mentre procedono in fila indiana verso il palco, ma, nel momento in cui sono lassù, tutto il resto perde d’importanza.

 

«Buonasera! Noi siamo i Musains,» dice Enjolras al microfono, e il pubblico già gli risponde urlando e ridendo—distingue Combeferre e Jehan in terza fila, Cosette e Musichetta più vicine al placo sulla sinistra, ma intorno a loro un oceano di facce sconosciute che gli fanno traballare il cuore nel petto. «E questa è Engels

 

Eponine chiama il tempo picchiando insieme le bacchette quattro volte, ed è così comincia. Enjolras non ha neppure il tempo di preoccuparsi ancora un po’ per Grantaire; piuttosto, le sue dita volano spontaneamente ad arricciarsi intorno al microfono per staccarlo dall’asta. Engels è un pezzo vivace, rapido ed estremamente orecchiabile; il testo non è tra i più ispirati, per i loro standard, ma il tremendo gioco di parole tra Engels ed angels—totalmente colpa di Jehan—in genere è sufficiente per far ridacchiare il pubblico alfabetizzato.

 

Ce la possono fare.

 

 

 

Litigano per qualsiasi cosa.

 

Enjolras è terribilmente abituato al pubblico compiacente dei suoi amici—i suoi compagni, persone che ha incontrato in anni di attivismo al centro. Sono identici a lui, arrabbiati e pieni di fiducia nelle capacità del gesto politico. Credono, come crede anche Enjolras, che certamente riusciranno a cambiare il mondo per il meglio, quando saranno riusciti a farsi ascoltare da abbastanza persone.

 

Grantaire è di pareri diametralmente opposti.

 

Enjolras lo conosceva, vagamente, perché chiunque gironzoli per il centro finisce prima o poi per conoscere più o meni tutti gli altri; Grantaire è quel tizio con la t-shirt troppo grande dei Foo Fighters, è l’amico di Eponine, è uno degli artisti che hanno dipinto l’enorme murales nell’auditorium—Grantaire è quello che, in cambio del suo talento, ha chiesto solo una dozzina di birre, «Sia come pagamento che combustibile,» aveva detto, facendo l’occhiolino in direzione di nessuno in particolare, le labbra curvate in un ghigno affilato come un coltello al quale Enjolras potrebbe aver pensato altre due o tre o trenta volte nei giorni a seguire.

 

Aveva nutrito delle serie speranze nei confronti di Grantaire, al punto da chiedergli di venire a seguire qualche dibattito del gruppo, prima o poi, — «facciamo un sacco di chiacchiere,» aveva detto, quasi scusandosi, «ma sono chiacchiere che vanno fatte.»

 

Grantaire aveva riso, «Sei molto socratico.»

 

Aveva un baffo di pittura verde su una guancia ed Enjolras si era sentito contento, aveva pensato, se è colto abbastanza da riuscire a pensare ai filosofi greci quando è occupato a dipingere e vagamente ubriaco, come sarà da sobrio, come sarà quando si concentra?

 

Ma alle riunioni Grantaire non s’era visto, e quando Enjolras ne aveva fatto menzione ad Eponine, lei era diventata terribilmente seria prima di dirgli, lapidaria, «Non esiste proprio.»

 

Enjolras si era accigliato. «Ma è sempre qui al centro.»

 

«Abita dietro l’angolo.»

 

«Ma ha fatto il murales.»

 

«Era ubriaco, Enjolras.»

 

E lo aveva detto con quel tono piatto e definitivo che significa, non ho nessuna intenzione di portare avanti questa discussione con te, perciò Enjolras si era morso la lingua. Non riusciva a capire, e questo non gli piaceva.

 

E poi la testa riccia di Grantaire era effettivamente apparsa nel bel mezzo di un’assemblea, interrompendo il discorso di Enjolras sul pensiero di John Maynard Keynes, e nel momento in cui Grantaire era inciampato in una sedia, mezzo ubriaco e mezzo sorridente, Enjolras aveva capito cos’è che Eponine stava pensando.

 

E poi, a partire dall’incontro successivo, quando per sua stessa ammissione Grantaire era un pochino più sobrio—ma non troppo, come non manca mai di ricordare a tutti, trascinandosi dietro perlomeno due birre ad ogni riunione,—Grantaire aveva cominciato a rispondere, ponendo domande e controargomentazioni e sviscerando ogni singola parola pronuncita da Enjolras. Solo raramente viviseziona Combeferre, e ancora meno Courfeyrac, mai Eponine o Jehan o Marius, santo cielo, ma sempre, sempre Enjolras.

 

C’è una testardaggine in Grantaire che Enjolras non può non ammirare.

 

Non crede in nulla, lo ha detto e ripetuto un milione di volte, eppure non smette di presentarsi alle riunioni e sprecare un’enorme quantità di energia e fiato per difendere cause, ideali, libri e persino film che neppure gli piacciono—solo perché Enjolras ne ha un’opinione, Grantaire deve discordare. Grantaire deve sfidarlo.

 

È un tipo così terribilmente difficile, con quell’umorismo asciutto che gli permette di strappare perlomeno un sorrisetto da chiunque nella stanza, che è una cosa che Enjolras non è mai stato capace di fare. Non importa quanto ci s’impegni, Enjolras non riesce ad essere simpatico e leggero e piacevole: Enjolras è serio. Enjolras è attento. Enjolras è indignato. Enjolras è terribile. Grantaire può parlare di Seneca con il genere di profonda confidenza che qualcuno potrebbe riservare ai propri amici più stretti, e poi dire, casualmente, che il fallimento politico e Courtney Love sono le due maggiori cause di suicidio tra i geni.

 

Grantaire è esasperante. È capace di risvegliare in Enjolras una determinazione maniacale ed accecante che non sentiva da quando era ragazzo; certo, Enjolras è deciso e passionale per natura, ma non diventa mai stupido per la rabbia, è più che capace di controllarsi, ha dovuto imparare a tenere bassa la voce e non mettersi a ringhiare in continuazione, contenere la furia che gli trema nel petto e liberarla, se proprio deve, solo sul palco. Enjolras è convinto della necessità di essere una spina nel fianco del sistema, ma ha ogni intenzione di farlo con una certa classe. Con un piano. Con ragionevolezza.

 

Solo che la presenza di Grantaire non gli permette di stare tranquillo. Grantaire che rotea gli occhi e incrocia le braccia e si tira il cappello sopra le orecchie, Grantaire che sa un’infinità di cose ma nessuno l’ha mai visto con un libro in mano, Grantaire che beve così tanto, che va ai loro concerti e resta immobile tra il pubblico.

 

Grantaire, le cui osservazioni polemiche sono, per Enjolras, il ricordo costante del fatto che non importa quanto universalmente giusta sia la tua causa, ci sarà sempre qualcuno che non la pensa così, perché gli esseri umani sono testardi come montagne e altrettanto prepotenti, e per niente semplici. Grantaire, che è l’opposizione dell’opposizione di Enjolras.

 

Grantaire che proprio deve rendere ogni cosa così terribilmente complicata.

 

 

 

Già sul bridge finale della terza canzone Enjolras si ritrova inginocchiato sul bordo del palco, il pubblico delle prime file che si sporge per arrivare a toccarlo—Enjolras sorride quando riconosce Cosette e Musichetta, ora premute contro le transenne.

 

Si risolleva in un unico movimento, e non riesce a sentirsi parlare, ma è piuttosto sicuro di star blaterando di qualcosa, e il pubblico risponde urlando in controtempo alle sue incitazioni; quando si volta—gli serve la chitarra per il prossimo pezzo, dov’è dov’è dove diavolo l’ho messa,—lo sguardo di Enjolras incontra gli occhi di Grantaire, terribilmente blu, terribilmente grandi, terribilmente luminosi e terribilmente inchiodati su di lui.

 

Grantaire fa un ghigno. Enjolras sbatte le palpebre.

 

Stanno andando benissimo, e la cosa davvero sorprendente è che, a quanto pare, Enjolras è l’unico ad esserne sorpreso.

 

 

 

È davvero un bel murales.

 

Occupa l’intera parete posteriore di quella che un tempo una stanza buia e deprimente, piena di enormi forni da mattoni antidiluviani e delle speranze rinsecchite di infinite generazioni di operai, pensa Enjolras; c’è una grande vetrata, ora, che affaccia su un cortile interno, e la stanza è diventata un auditorium luminoso e colorato e, poi, c’è il murales.

 

È per metà un graffito e per metà un affresco rinascimentale, con spessi tratti di colore accostati a pieghe di stoffa meticolosamente dettagliate, e fiori, ed edifici; è un omaggio alla Libertà che Guida il Popolo di Delacroix, con la splendida donna quasi luminosa in primissimo piano, che sembra voler metter piede fuori dal muro—l’ha dipinta quasi esclusivamente Grantaire—ma c’è anche qualche tocco del Quarto Stato, nella forma della folla che segue la donna, le ombre a stencil di lavoratori oppressi, donne e bambini. E poi c’è la Natura che salta fuori in toni audaci di verde e blu e rosso, stralci di edera che incorniciano il fondo della parete bagnati dalle onde di un oceano arrabbiato che a sua volta si tramuta in un cespuglio di rose, e più su girasoli, e una tempesta di tuoni che scivola sull’orizzonte—e poi ci sono parole che stisciano su tutto il dipinto, in lettere spesse e sottili e piccole e grandi, brevi frasi come serpenti e paragrafi interi nascosti sullo sfondo, e anche quella è stata un’idea di Grantaire.

 

Ad Enjolras piace tracciare con l’indice gli angoli affilati della frase che si arriccia intorno alla caviglia della ragazza che è la Libertà come un tatuaggio—libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.

 

Ogni volta che mette piede nell’auditorium, Grantaire tiene gli occhi incollati al pavimento.

 

 

 

Grantaire è bravo, ed Enjolras se ne rende pienamente conto solo dopo la seconda strofa di Secrets Unbound.

 

C’è un assolo di chitarra, in quel punto, che Eponine ha impiegato due settimane ad imparare perfettamente, e lo detesta talmente tanto che un paio di volte, in passato, le hanno permesso di saltarlo, tagliando la canzone e lasciando che la sola batteria di Combeferre costruisse il ritmo frenetico per l’esplosione dell’ultimo ritornello; funziona anche così, funziona perfettamente, ma avrebbero dovuto mettersi d’accordo prima, e non l’hanno fatto perché Grantaire non si è fatto vedere alle prove e—

 

Enjolras trema di energia nervosa e una paura accecante, ma Grantaire scopre i denti in un ghigno lupesco e, come niente, sta suonando, sta suonando tutte le note giuste e poi il tempo cresce e sta improvvisando? O per l’amor del cielo il bastardo sta improvvisando, e non smette di suonare sempre più rapidamente e ora dà le spalle al pubblico per guardare Eponine—Courfeyrac fa un passo indietro, con un gran sorriso, per lasciarlo passare,—ed Eponine sorride senza fiato e non sembra affatto in difficoltà, le sue mani che volano sulla batteria così in fretta che seguirle è impossibile, e Grantaire ora ha un piede appoggiato su un piccolo amplificatore e i suoi fianchi vanno avanti e indietro quasi distrattamente e quella chitarra sta per prendere fuoco e ecco, pensa Enjolras, dev’essere così che è fare sesso. (E neppure si sbaglia.)

 

Grantaire rallenta, solo un pochino, e torna alle note giuste, quelle che Enjolras si aspetta e conosce; Grantaire allora lo guarda da sopra la propria spalla—ancora suonando, senza sforzo e senza un errore e molto, molto meglio di quanto Enjolras sarà mai in grado di fare,—gli fa un cenno, e d’improvviso ricompare il basso di Courfeyrac, ed Enjolras sta cantando, e non stanno solo andando bene, sono assolutamente fantastici.

 

(Enjolras è tanto sorpreso quanto il suo pubblico.)

 

 

 

Organizzano un cineforum e una serie di dibattiti per la Giornata Internazionale della Donna. Grantaire è lì come ad ogni altra iniziativa del collettivo, ed è ubriaco, e a un certo punto, in qualche modo, si ritrova a cercare di spiegare ad una platea di donne di mezza età di come la questione di genere sia, in realtà, non circoscritta al sessismo, ma comprende invece una gran varietà di conseguenze della testardaggine con cui la società insiste a voler convincere tutti che il mondo funziona per dualismi—«I binomi hanno senso solo in matematica e nelle tragedie di Euripide,» mormora—la civiltà degli opposti, sostiene Grantaire, è marcia fin nelle fondamenta, e come fai a rimediare? Di certo non offrendo mimose e portando una foto di Clara Zetkin nel portafogli.

 

Enjolras si schiarisce la gola e tenta di mettere insieme una replica, ma Grantaire è già semisprofondato nella sua sedia e, quando Jehan gli dà leggermente di gomito, non si muove.

 

Si è addormentato, e quella è la prima discussione tra loro due che non lascia Enjolras arrossato, con gli occhi spalancati e le mani che quasi tremano per quanta voglia ha di picchiare Grantaire.

 

 

 

Enjolras si è preso un istante per prosciugare una bottiglia d’acqua quando lo sente, un cantico che sboccia dalle file in fondo, quelle che non riesce neanche a vedere, e rapidamente cresce di ritmo e volume man mano che corre verso lo stadio.

 

Rooftops, stanno urlando, e chiedendo, e implorando. Rooftops, la loro canzone più conosciuta, quella che gli ha procurato anche un pochino di attenzione dalle radio e dai giornali, quella che Enjolras ha sentito canticchiare distrattamente da una ragazzina in metropolitana. Rooftops, ed Enjolras si morde le labbra, mette via la bottiglia e si chiede adesso che diavolo gli racconterà?

 

Eponine decide per lui, cominciando a suonare.

 

C’è un giro di strilli davvero isterici da parte del pubblico; Enjolras si passa una mano tra i capelli.

 

«Ok,» dice, sulla base di basso e batteria. «Rooftops

 

Non ha bisogno di guardare per sapere che Grantaire lo sta fissando.

 

 

 

C’è un bacio, o meglio, una quantità considerevole di baci scambiati nel piccolo bar del centro sociale. Enjolras è ubriaco, ed è una cosa stupida. È ubriaco anche Grantaire, ma quella è una cosa che non fa notizia.

 

Sono appena tornati da una protesta silenziosa scatenata dagli ennesimi tagli all’istruzione pubblica; dieci ore seduti nel cortile della Sorbona li hanno acciaccati e stancati e congelati, ma sono tutti pervasi da un’energia nervosa che non gli permetterebbe di dormire, e quindi sono tornati alla base, Les Amis e un paio di dozzine di studenti che si sono uniti a loro durante il giorno.

 

Hanno saccheggiato le scorte di alcol e cibo del bar, c’è stata una breve sessione di karaoke e qualche dibattito spontaneo e un sacco di grida e bestemmie pronunciate ai danni del governo, del sistema, dei professori che non prenderebbero posizione neanche se gli puntassi una pistola alla tempia, e qualsiasi altra cosa venisse in mente; Enjolras è finalmente tiepido e contento della propria vita, dei propri amici, di quello che ha fatto oggi.

 

A un certo punto, si è ritrovato seduto accanto a Grantaire, che pure è di buonumore e, ora come ora, sta dissezionando ogni singola parola che Immanuel Kant abbia mai avuto il coraggio di mettere per iscritto—e Grantaire le conosce tutte a memoria, a quanto pare,—mentre Marius, al suo fianco, continua ad annuire pensoso, o forse si sta solo addormentando.

 

Enjolras si rilassa nel divano di morbida pelle e ascolta, per un po’. Poi allunga una mano, e non è una cosa alla quale abbia mai pensato prima d’ora (ma non è vero), però stringe il mento di Grantaire tra due dita e lo attira verso di sé e le loro labbra si sfiorano, d’improvviso, o non così tanto, perché Enjolras vede l’intero movimento come se il tempo si fosse stiracchiato come la schiena di un gatto—l’espressione di Grantaire che lentamente cambia da annoiata a sorpresa a confusa a incredula, i suoi occhi che si sgranano e le sue ciglia che tremano sebbene non chiuda gli occhi, e allora neanche Enjolras lo fa.

 

È un tocco morbido, lievissimo, ma Grantaire si lecca le labbra.

 

«Sei molto ubriaco, Apollo,» mormora, d’improvviso cauto.

 

«E tu stai ancora parlando,» replica Enjolras, e la risata di Grantaire è tiepida.

 

Un battito, lungo abbastanza da permettere a un migliaio almeno di pensieri di avvincendarsi nella testa di Enjolras, se solo Enjolras non fosse così ubriaco da aver completamente dimenticato come far funzionare il proprio cervello, e poi Grantaire si sporge verso di lui. Stavolta Enjolras chiude gli occhi, si arrende al tocco della lingua di Grantaire.

 

Mormora incoerentemente nel bacio, aggrappandosi ai riccioli morbidi di Grantaire, spingendosi contro di lui, baciandolo con più prepotenza. Grantaire esita, da principio, e poi la sua bocca diventa incredibilmente calda e quasi affamata e minuti o ore o forse persino secoli più tardi Enjolras si ritrova a baciarlo un’ultima volta prima di salutarlo per la notte, e vorrebbe non doverlo lasciar andare mai.

 

Gli viene in mente, allora, che non è scritto da nessuna parte che debba. Enjolras ha una casa—un letto—e può portarci Grantaire; dovrebbe farlo; vuole farlo; perché non l’ha già fatto? Si sporge a baciarlo, inconsapevole delle occhiate preoccupate che Eponine e Combeferre e Courfeyrac e chiunque altro gli stanno indirizzando dal primo istante in cui ha afferrato i capelli di Grantaire, ed Enjolras è pronto a chiedere, anche se non ha la minima idea di cosa dire; ma la stupida testa di Grantaire si sposta, e il bacio che gli concede è casto e delicato.

 

Grantaire pare molto, stranamente sobrio mentre lascia andare le mani di Enjolras; si arrampica in macchina con Courfeyrac senza un’altra parole, ed Enjolras non lo segue perché non è ancora del tutto sicuro di cosa sia appena successo. Eponine deve trascinarlo via, o lui sarebbe rimasto lì per tutta la notte.

 

Si sveglia alle tre del pomeriggio con un’emicrania lancinante che neppure il caffè riesce a curare, ma ha una riunione e, in qualche modo, si costringe ad andare al centro sociale. Grantaire non c’è, il che non sorprende nessuno, e men che meno Enjolras; Jehan inventa qualche flebile scusa, ma Enjolras fa spallucce e nemmeno lo ascolta perché, onestamente, sta morendo. Non gliene frega niente.

 

Grantaire manca alle successive due riunioni, ma non salta i concerti, Grantaire non salta mai i concerti; Enjolras è ancora del tutto contento, dall’alto del suo piedistallo. E poi Combeferre si rompe una mano.

 

 

 

And the lie that broke the roof of your mouth is the one I loved the most, canta, il viso arricciato intorno alle parole, i ricci che gli piovono negli occhi, e prima ancora che possa pensare al prossimo verso un’altra voce esplode dagli altoparlanti per annegare tra la folla, The moon can’t tell you the things I dream when I’m dreaming of you.

 

Ed Enjolras replica, When the rain won’t wash the bloodstains from your eyes, e Grantaire gli dice, quasi con dolcezza, I’d like to hold your hand and take you home — show you the moment I knew my requiem would be the breath that I take from you.

 

Enjolras è solo per metà conscio del fatto di stare ancora suonando, ma si rende conto pienamente di essere attratto dal suono della voce di Grantaire, che è roca e abrasiva e prepotente e un cazzotto allo stomaco che è l’opposto della carezza eterea che è Eponine—Enjolras si sente purificato dal fuoco piuttosto che da una pioggia gentile.

 

Non è sicuro che riuscirà a farsi piacere di nuovo questa canzone, dopo stasera.

 

 

 

(Secondo Grantaire:

 

A un certo punto, il fatto che, ogni volta che dimostra una qualsiasi traccia di talento, Enjolras sia sempre così sorpreso, e non tenti nemmeno di nasconderlo, dovrebbe cominciare a sembrargli quantomeno un pochino offensivo.

 

Non succede.)

 

 

 

Grantaire se la dà a gambe subito dopo il concerto, ed Enjolras forse l’avrebbe seguito, se se ne fosse reso conto immediatamente. Ma Grantaire sgattaiola via come se stesse fuggendo da una banda di creditori, e quando Enjolras si accorge della sua assenza—ovvero, quando Bahorel li raggiunge con un sorriso enorme sulla faccia, chiedendo di vedere quell’imbecille d’un ubriacone che mi ha tenuto nascosta tutta quella roba fino a questo momento, non riesco a crederci, devo tirargli un calcio sulle gengive, e allora cercano tutti Grantaire, e non riescono a trovarlo,—Grantaire è già sparito da troppo tempo.

 

Enjolras si ripromette di chiamarlo l’indomani mattina, e poi, l’indomani mattina, non lo chiama solo perché è in ritardo per le lezioni (non è vero), e poi è in ritardo per l’appuntamento a pranzo che ha con Marius (e questa volta è vero, ma quando mai Marius si è presentato in orario da qualche parte?), e poi ha delle commissioni da sbrigare (ma non ti servono due mani per pilotare il carrello, Enjolras, potresti essere tranquillamente al telefono), e poi d’improvviso è già notte fonda e, wow, come ha fatto l’intera giornata a sfuggirgli di mano così velocemente? (Perché l’ha desiderato con tutte le sue forze.)

 

Quando è immerso nel tepore delle coperte e praticamente sul punto di addormentarsi, Enjolras pensa a Grantaire su quel palco—i suoi ricci come una macchia d’inchiostro, i suoi fianchi sbilanciati, il suo sguardo luminoso fisso sulla chitarra, il suo labbro inferiore stretto tra i denti, un sorrisino divertito ad arricciargli l’angolo di quella bocca rosa e gonfia—e pensa alla sua voce.

 

Enjolras si rigira nel letto per altre tre ore, troppo testardo per allungare una mano sul comodino, prendere il cellulare e fare una telefonata.

 

 

 

«Ormai sei ossessionato,» dice Combeferre, sottovoce. Enjolras rivolge una smorfia alla propria pinta di birra dorata che è l’unica cosa all’infuori di una sigaretta ad aver toccato le sue labbra da questa mattina.

 

«Lo dici come se fosse una cosa positiva.»

 

Il sorriso di Combeferre è piccolo e compiaciuto e quasi tanto irritante quanto quello di Grantaire. Enjolras beve un lungo sorso di birra.

 

«Secondo te non lo è?»

 

Enjolras non è sicuro di saperlo. (Lo sa perfettamente, invece: non è una cosa positiva. Ma lo è.)

 

«È catartico,» ammette alla fine, rubando una patatina fritta dal piatto di Combeferre. «Litigare con lui, intendo. Ma è anche una cosa molto inutile, e non ho tempo per le cose inutili. Non faccio cose inutili.»

 

Si pente di aver parlato nell’istante stesso in cui si rende conto di cosa ha detto, ma non deve aver cambiato espressione perché Combeferre lo guarda con severità.

 

«Il fatto che non condivida in toto la tua visione del mondo non lo rende inutile.»

 

Enjolras sospira. «Lo so. Non penso che Grantaire sia inutile.»

 

Davvero, non lo pensa. Grantaire è tutto meno che inutile—per quanto Enjolras detesti ammetterlo, e per quanto irritante Grantaire possa essere, e così sempre drammaticamente dalla parte del torto, è anche una costante fonte di sfide stimolanti, perché gioca a fare l’avvocato del diavolo snocciolando osservazioni intelligenti e argute, e più di una volta è stato capace di individuare difetti, sia pur minori ed insignificanti, nei ragionamenti di Enjolras, o nel suo modo di esprimersi. Più di una volta i suoi monologhi deliranti sono stati l’input di magnifiche discussioni.

 

E poi è colto. Ha ammesso di aver cercato so Google la maggior parte delle citazioni che sono finite sul murales dell’auditorium, ma è capace di blaterare notizie di storia e arte e filosofia e lettere classiche con la naturalezza con cui altre persone parlerebbero del tempo, e certe volte Enjolras sospetta che forse qualcuno dei riferimenti che Grantaire continuamente fa potrebbero persino sfuggirgli. Ed è un pensiero che lo affligge enormemente, ed Enjolras non è abituato a sentirsi afflitto.

 

Grantaire è un fastidio perpetuo. È anche una risorsa. È anche ubriaco, per la maggior parte del tempo.

 

Enjolras sospira. «È che—è come se si stesse buttando via. È per quello che sono sempre così arrabbiato con lui, credo.»

 

Combeferre sorride e gli tira addosso un pezzettino di pane. «Dovresti dirglielo.»

 

Enjolras alza gli occhi al soffitto, scettico. Come no.

 

 

 

Ha bisogno di un posto tranquillo per finire una ricerca da consegnare la settimana prossima, e a casa non può restare perché Combeferre ha finalmente invitato Eponine ed Enjolras non ha alcuna intenzione di assistere a qualsiasi cosa quei due decideranno di fare. Spera soltanto che avranno il buon senso di tenersi alla larga dalla sua stanza. E dalla cucina. E dal divano, possibilmente. Gli piace, quel divano.

 

Prende in consideerazione l’idea di una capatina al bar del centro sociale, ma ci rinuncia rapidamente: quel posto è sempre affollato dalle persone più rumorose e politicamente attive di Parigi, perciò Enjolras non avrebbe la minima possibilità di riuscire a lavorare in pace, là dentro.

 

È per questo che, alla fine, si ritrova alla caffetteria dove lavora Eponine, un locale attraente che ha l’importante qualità di offrire esclusivamente prodotti del commercio equo e solidale.

 

Ed è anche, al momento, completamente pieno.

 

Enjolras rotea gli occhi, vagamente irritato, ed è pronto a fare dietrofront quando si accorge che ad occupare un tavolino d’angolo c’è un cappello familiare. Grantaire è chino sul suo blocco da disegno, la matita che scatta sulla pagina in linee rapide e sicure; c’è una tazza alta di qualcosa appoggiata sul tavolino, lontana abbastanza da non rischiare che Grantaire la ribalti con una gomitata.

 

Grantaire è lì da solo, apparentemente, e in ogni caso occupa meno di metà tavolo, perciò è del tutto ragionevole che Enjolras vada ad appropriarsi dell’altra sedia.

 

Grantaire alza gli occhi, spaventato dal rumore improvviso; c’è un vago odore di brandy che lo circonda, e i suoi occhi sembrano far fatica a mettere a fuoco mentre corrono su e giù e poi di nuovo su lungo il corpo di Enjolras, piantandosi infine sul suo viso.

 

«Buon giorno,» dice Enjolras, piatto. Grantaire gli concede a malapena un grugnito prima di tornare a rivolgersi al proprio disegno.

 

Enjolras è sorpreso dall’accoglienza men che tiepida, ma si riprende in fretta: è ancora piuttosto presto, e Grantaire ha tutto il diritto di essere scontroso a quest’ora. Annuendo brevemente tra sé, Enjolras si sfila il cappotto e lo sistema sullo schienale della sedia, prima di sedercisi. Quando si è sistemato, col portatile sul tavolino e il libro che gli serve come fonte attentamente bilanciato sulle ginocchia, una cameriera gli appare accanto.

 

«Un chai al latte di soia,» dice Enjolras, e poi si sporge a sbirciare dentro la tazza abbandonata da Grantaire. «E un’altra cioccolata calda alle nocciole per il gentiluomo, grazie.»

 

Concede alla cameriera un sorriso alabbra strette, prima di mettersi al lavoro; se Grantaire ha intenzione di fingere che Enjolras non sia lì, per lui va benissimo.

 

 

 

Un’ora e mezza più tardi, Enjolras ha finito i compiti e finalmente può stiracchiare le spalle e le gambe anchilosate. Chiude il portatile, che lo saluta con un click molto soddisfacente, e poi si rende conto che Grantaire è ancora seduto là di fronte. Non sta più disegnando, ma si è rilassato all’indietro sulla sedia, le braccia incrociate sul petto e un’espressione morbida sul viso che prima non aveva, non che Enjolras se ne fosse accorto. (Se n’era accorto.)

 

Grantaire si mordicchia il labbro inferiore, poi allunga un braccio per appoggiare un bigliettino accuratamente ripiegato sul portatile di Enjolras, spingendolo verso di lui con due dita.

 

Enjolras sbatte gli occhi, e c’è una battutaccia cattiva sulla punta della sua lingua, l’asilo nido è giusto due strade più in là, ma c’è qualcosa nel modo in cui Grantaire lo guarda che lo fa esitare.

 

Prende il bigliettino, allora, lo spiega e poi neanche prova ad impedire alle proprie sopracciglia d’inarcarglisi su per la fronte il più possibile. Scarabocchiata in mezzo al foglietto nella grafia sottile e nervosa di Grantaire c’è una semplice sequenza di simboli:

 

:(:

 

Enjolras ha dovuto decifrare una quantità sufficiente di sms di Jehan per rendersi conto del fatto che si tratta di una faccina che è al tempo stesso triste e felice; alza gli occhi su Grantaire, e il bastardo sta a malapena trattenendo un ghigno compiaciuto.

 

«Prego, non c’è di che per l’altra notte,» dice Grantaire, piantando i gomiti sul tavolo e appoggiando il mento sui pugni.

 

Enjolras annuisce.

 

 

 

(Secondo Grantaire:

 

Enjolras è intelligente e passionale e pieno di fede. È un’ispirazione, pieno della forza devastante di un dio al tempo stesso magnifico e terribile e inarrestabile. Enjolras è l’innovazione. Enjolras è la primavera. Enjolras è il portatore di luce e Grantaire era abituato a fingersi sordo di fronte ai salvatori e ai messia, finché non ha incontrato lui.

 

Ha ascoltato un’infinità di persone blaterare di giustizia sociale e sotira e rivoluzione, e per un periodo si è anche ritrovato tra essi, ma non è durata, ed è finito chiuso a chiave nella sua testa nera d’inchiostro a sbuffare, pietoso, e roteare gli occhi, esasperato—ma Enjolras ha un modo di parlare e una fiamma dentro di sé che rendono impossibile ignorarlo.

 

Non è soltanto il modo in cui si presenta sul palco, o la sua voce, che pure sono cose d’importanza; è la fermezza dei suoi ideali, il suo amore per tutto ciò che è equo e giusto e umano. Grantaire non ha mai amato in quel modo; forse adesso sì, un po’, o sta cominciando.

 

Si accoda alle proteste e discute di libri e quando glielo domandano, è sempre lieto di dare una mano al bar del centro sociale, e se si prende una pausa sigaretta ogni venti minuti è solo perché è quello che fanno tutti, pure i dipendenti stipendiati.

 

Non si è tirato indietro da nessuna delle risse che certe volte macchiano le loro manifestazioni pacifiche; ogni venerdì pomeriggio incontra Cosette e Marius per aiutarli con le letture per il gruppo (Cosette non ha bisogno dell’aiuto di nessuno, men che meno di quello di Grantaire, ma insiste a venire per il bene di Marius). Ha persino fatto quel cazzo di murales, per l’amor del cielo.

 

Enjolras fa sentire Grantaire interessato. Enjolras lo fa ascoltare. E poi Grantaire attacca a parlare, ma non gli pare che sia una cosa negativa—magari quando è così ubriaco da vederci doppio tende ad andare fuori traccia, ma a parte quelle occasioni, è bravo a discutere. È la cosa più divertente che abbia fatto in anni.

 

E non riesce a smette di pensare ad Enjolras, naturalmente, e a tutte le cose che gli piacerebbe fare per potergli restituire perlomeno una briciola del calore che Enjolras gli fa sentire.

 

Ma è Grantaire, l’ubriacone sarcastico che non sa cosa sia la passione ed è così rotto che gli specchi fuggirebbero da lui, se potessero. Non esiste che possa essere abbastanza perché ad Enjolras—il leader carismatico, deciso, incorruttibile e praticamente ascetico—importi qualcosa di lui. Grantaire non è in grado di credere o pensare o desiderare o vivere o morire, non con la singolare intensità che così naturale viene a Enjolras.

 

Grantaire si porta addosso i brutti lividi delle proteste più violente con un orgoglio che non ha mai provato per nient’altro in vita sua.)

 

 

 

«È stato un concerto splendido, soprattutto grazie a te.»

 

Per un istante Grantaire sembra così sorpreso dal complimento, e dal ringraziamento implicito, che Enjolras vuole dargli uno schiaffo. Grantaire si scrolla il momento di dosso con una risata debolissima e un piccolo cenno del capo, ma è ancora imbarazzato e quindi Enjolras aggiunge, senza pensarci, «Vorresti suonare con noi di nuovo?»

 

Grantire ora lo guarda come se sospettasse di non essere del tutto sveglio, o del tutto sobrio, ammesso che lo sia.

 

Stringe gli occhi e tira l’orlo del proprio cappello e, sotto il tavolo, dà un calcio lieve al piede di Enjolras; inarca le sopracciglia, quando si rende conto che, sì, è tutto molto reale.

 

C’è un sorrisino quasi gentile che arriccia gli angoli della bocca di Enjolras, e anche quello potrebbe essere difficile da credere che sia vero.

 

«Posso essere ubriaco di nuovo, sul palco?» chiede Grantaire, alla fine, completamente serio. Enjolras si acciglia, il che fa ridacchiare Grantaire, e quindi lui si sente autorizzato a ignorare la domanda.

 

Piuttosto gli dice, «Lasciati offrire il pranzo.»

 

Il sorriso di Grantaire è ancora sorpreso, ancora esitante, ma è un sorriso, e Grantaire non rifiuta l’invito.

 

Enjolras non è tipo da pietà o condiscendenza paternalistica, tuttavia. Non fa mai nulla che non sia convinto sia la cosa più giusta, perciò, quando prende Grantaire per mano e lo trascina lungo la strada, sta chiarendo un concetto, lo sta sottolineando quanto più evidentemente possibile, sperando che, per una volta, Grantaire capirà, e sarà d’accordo.

 

Dopo un istante, Grantaire intreccia le proprie dita alle sue.





A/N. Anche questa nasce in inglese, potete trovarla qui.

  
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