Matt
E
infine il viaggio era iniziato anche per
lui.
Mail
non era altro che un tratto di pastello brillante, ma lieve; marcato
con mano
leggera in un foglio affollato da scritte di inchiostro disordinate,
confuse e
prepotenti.
Rosso,
come i suoi capelli che spuntavano
dalla culla e risaltavano nella stanza incolore, dove l’aria
era perennemente
umida e densa, tanto che pareva di essere immersi in una nebbia
lattiginosa.
Gelido. Questo
l’aggettivo adatto per il primo orfanotrofio che
ospitò Matt. Ma forse la
sensazione era quella poiché il bambino visse lì
il suo primo inverno e già
all’arrivo della nuova stagione si trovava in un posto
differente. Matt
comunque non ricordava nulla dell’ambiente, solo immagini
sfocate popolate da
una moltitudine impressionante di personcine chiassose e dispettose. Bambini, tanti
volti, specchi
che riflettevano la stessa triste sorte. In principio un po’
confuso, poi
confidente, perché il tempo trascorreva anche per lui ed era
capace di rendere
il tutto almeno più famigliare. Ma Matt era davvero piccolo;
i mesi che aveva
consumato vivendo si potevano contare sulla punta delle dita e
poiché il freddo
incombeva minaccioso e la neve continuava a cadere sui castelli e sui
boschi fatati
tipicamente irlandesi, lui se ne stava accoccolato in coperte
rattoppate,
giocava placidamente a scucire la fodera del lettino, si stufava,
piangeva e,
stanco anche di frignare, dormiva.
Le sue giornate erano
lunghe, ma non si potevano definire noiose poiché popolate da volti, ognuno
dei quali diverso
che, ogni tanto, si affacciavano all’insegna del suo
giaciglio. Ragazzini ,
vecchi, adulti, donne; un signore coi baffi. Occhi grigi, verdi come
l’erba dei
pascoli, ambrati o neri e profondi. E poi nasi e capelli e orecchie.
Tutti loro
erano speciali per Matt, nessuno escluso, e, sebbene fosse difficile
ricordare
quei visi, lui ci riusciva, li trovava gentili, premurosi, e
poiché gli erano
così cari risultava impossibile dimenticarli.
Così, sia che venissero per
cambiarlo o nutrirlo, o anche solo per salutarlo, il bimbo regalava a
ciascuno
uno splendido sorriso infantile e non c’era una volta che se
ne dimenticasse.
Alcuni volti lo ricambiavano e Mail poteva godere di un riso estraneo
come di
una straordinaria novità, molti invece lo guardavano
solamente, perplessi o
addirittura tristi, scuotevano la testa con rammarico, altri ancora non
lo
notavano nemmeno.
Ma a lui non importava.
Poi
l’inverno si era concluso, la neve tanto temuta magicamente
scomparsa e, senza
alcun preavviso, Matt
era stato preso, sbatacchiato un po’ a destra , un
po’ a sinistra, adagiato per
qualche attimo, risollevato con vigore e in seguito nuovamente posato.
Il
lettino dove dormiva ora pareva, si può dire, piuttosto
simile ma non era certo
quello di prima; Mail si sentiva come appena destato da un
imperturbabile
letargo, ed era vagamente infastidito. Dov’era la sua tana?
Ancora una volta un
materasso freddo da riscaldare.
Eppure non si presentava come un grande
problema; avrebbe semplicemente riniziato tutto da
capo.
Il
nuovo orfanotrofio era situato a Lisburn, cittadina non troppo
distante dal luogo dove Matt era nato, e si chiamava “ Dolce
casa”; il
nome non brillava certo per fantasia,
tuttavia quella sarebbe stata la “dolce casa” di
Mail per i prossimi due anni.
Ed ecco che erano comparsi molti bambini con le loro storie, storie di
vite di
strada, e poi altri adulti, dall’aria malinconica.
Il nuovo arrivato
era il più piccolo tra quelle pareti e ad osservarlo, pareva
leggermente
spaesato. Matt non riconosceva più gli occhi scuri che verso
sera lo
osservavano sfuggenti o la risata amorevole che svelava brutti denti
del
mattino presto. “ Ma quante persone esistono? “ E
se lo chiedeva spesso,
divertito.
Ora
aveva due anni, camminava anche
se al gattonare si prestava più volentieri, spesso capitava
di vederlo
addormentato lungo il corridoio, ( non era davvero importante che ora
fosse)
scansato nella corsa frenetica dagli altri marmocchi. Dorothy lo
raccoglieva
puntualmente ,posandolo con pazienza nella culla e non trascurava mai
di
avvolgerlo in coperte e lenzuoli che ora sapevano nuovamente di Matt.
Impregnate di un odore dolce, custodivano il tepore della sua pelle
chiara.
Mail
si era fatto nuovi amici, ma d’altronde era difficile non
badare ad un bebè
così spensierato e sorridente. Metteva allegria,
poiché era come farcito da un
affetto inestinguibile.
Tutti
se ne meravigliavano, ma aveva memorizzato con straordinaria
facilità una
moltitudine di nomi. Matt li ripeteva con insistenza quando scorgeva
con gli
occhi verdi le persone a cui appartenevano. Certi li strillava
scalciando,
altri li storpiava e batteva le manine. C’era la zia Racie (
che in realtà era
l’altezzosa signora Rachel) e un ragazzotto piuttosto in
carne, Tomas, ma Mail
ridendo lo chiamava Tom: molto confidenziale. Anche Tomas rideva. A
volte giungevano per fargli visita una
banda di bambini sui dieci anni capitanati da Luca, che gli si
affollavano
rumorosi intorno quando dovevano prendersi una pausa dalle loro
avventure.
Erano lì prima che Matt arrivasse, solo due di loro
sarebbero stati adottati
negli anni successivi. Quei monelli invece avevano dato un soprannome a
lui: “
Carota”, probabilmente riferendosi al colore dei capelli che,
però, virava più
ad un rosso cupo.
Tutti gli altri lo chiamavano semplicemente
Matt.
E poi c’era Dorothy e c’era la sua treccia nera e
lucente,tanto lunga
che al bimbo pareva infinita. Lei lo cullava la sera, gli dava la
minestra
calda trasformando ogni boccone in un naviglio sperduto
nell’oceano, gli
soffiava nelle orecchie facendolo ridere sguaiatamente. Dorothy. Matt
il suo
nome non lo aveva mai sbagliato.
E così erano arrivate, simili
ad una pioggia primaverile, risate fresche, certe dolci, alte insolite.
Come
quella di Rachel,donna dall’età indecifrabile, la
quale, le rare volte che la
esibiva, ricordava vagamente un animale straziato dal soffocamento,
però a Mail
non dispiaceva. La sua era una strana collezione, ma amava scoprire
nuove
espressioni di felicità.
“ Le persone diventano più belle quando
ridono.” Una
certezza per Matt; eppure
nulla, nulla al mondo poteva eguagliare quello che, senza alcun dubbio,
era il
sorriso più meraviglioso che gli fosse mai capitato di
vedere. Quando rideva, e
lo faceva esclusivamente a notte fonda, le labbra rosse si incurvavano,
dando
vita ad una risata limpida e quasi commuovente, così radiosa
da mozzare il
fiato. Apparteneva ad una donna premurosa, una ragazza bellissima, una
bambina
giocosa.
Non aveva età, la figura del suo sogno.
Matt la scorgeva quando la luna era ormai alta
nel cielo scuro, solo dopo essersi assopito.
...E lei arrivava, puntuale.
Rideva, e ridevano insieme e lui
era estasiato da quei capelli leggeri arrotolati in boccoli soffici
come
nuvole, da quegli occhi verdeggianti che si confondevano con colline di
cui riconosceva
le curve miti e aggrazziate. Purtroppo
però il sogno finiva, scoppiando veloce simile ad una bolla
di sapone, e, come
tutti i bei sogni, lasciava a Matt la mattina seguente un senso di
forte smarrimento
accompagnato dalla malinconia, sentimenti sorprendentemente non poi
così
sconosciuti.
Una notte
invece si era svegliato di colpo e la sensazione era quella di essersi
destato
da un incubo, come a volerne fuggire. Aveva ripreso a dormire poco
dopo, ma con
notevole ed insolita fatica. Il giorno seguente Matt piangeva in
silenzio
poiché all’improvviso aveva realizzato che non
riusciva, per quanto si
concentrasse, a ricordare chi era quella donna. Poteva solo sperare di
scorgerla in sogno e rivedere i suoi occhi così simili ai
propri, e il suo
sorriso, che lo faceva sentire a casa. Era a conoscenza che poi si
sarebbe
svegliato e la luce avrebbe spazzato via il suo sogno senza
pietà, ma non
riusciva ad evitarlo; la sera seguitava a dormire e, inevitabilmente,
continuava a sognare. Infine era arrivato l’autunno con tutti
i suoi colori e
il raggio di sole che solitamente scaldava il viso del piccolo al
mattino
presto, filtrando dalla finestrella, si era presentato freddo e spento.
Spento
come Dorothy, la quale lo aveva destato senza il solito entusiasmo,
tanto che
Mail era rimasto confuso e intorpidito per un po’. Poi lei
gli aveva fatto
“ciao” con la manina e, nonostante quello fosse il
suo lavoro, le si erano
velati gli occhi di lacrime. Si era anche sforzata di sorridere, ma da
tempo a
questa parte gli orfanelli erano sempre di più, e questo
stava a significare
anche che il numero delle persone spregevoli che abbandonavano i figli
andava
aumentando. La conseguenza era che i bambini piccini come Matt dovevano
cambiare casa, ancora e ancora. Almeno, quello era il parere di
Dorothy, che
stava già tornando sui suoi passi, borbottando.
Matt
era stato caricato su una vettura cigolante dalla carrozzeria scrostata
e
trasportato dall’altra parte della città.
All’inizio era eccitato: gli
piacevano le macchine. Nella confusione generale aveva registrato solo
vagamente la presenza di altri bambini ,ma loro avevano
l’aria spaventata. Una ragazzina
sbirciava fuori dal finestrino, assorta. Erano tutti più
grandi di lui.
Poiché il ronzio del motore somigliava ad un
respiro calmo e ridondante,Mail si assopì un poco durante il
viaggio. Quando
aprì gli occhi, lentamente prese forma una stanza dalla
carta da parati popolata
da elefantini scoloriti. Uno spazio modesto e tristemente arredato.
Strisce di
letti tutti uguali vicino alla sua nuova culla, tanti bambini
fastidiosi. E non
più Tomas, non più Luca.
Non si stupì, non più.
Senza alcun preavviso un
ragazzo che somigliava incredibilmente a… non ricordava
più chi (ma comunque
non aveva importanza perché in fondo se somigliava non era)
fece capolino
osservandolo e Matt rimase lievemente interdetto, come colto alla
sprovvista.
Poi sorrise, tuttavia quella volta il suo sorriso risultò
incrinato. Quando il
visitatore sparì alzando le spalle Matt scoprì di
non riuscire a ricordarne il
volto.
…E
i mesi si sbriciolavano, dissolvendosi
come polvere, fluendo leggeri, tiepida sabbia tra le dita. Matt
cresceva e
scopriva sempre più cose.
Prima: non aveva
genitori. Era un bambino, nel mondo probabilmente ci era arrivato da
solo, a
passi incerti e in salita, scansando rovi e sassi appuntiti.
Seconda cosa: importante. Necessitava prima la
domanda: “ quante persone si possono amare? “, che
poteva anche essere posta
diversamente poiché in fondo Matt non ne comprendeva appieno
il significato.
Dunque: “ per quante persone c’è spazio
nel nostro cuore?” Ecco,
così andava decisamente meglio. Matt se
lo era chiesto spesso, poiché aveva perso facilmente il
conto di coloro che
affollavano il suo, di cuore, e comunque quando ripensava a
quell’ammasso di
volti sfocati la sensazione nel petto era fastidiosamente fredda, una
luce
troppo flebile per essere solo presa in considerazione. Matt a questo
ci era
arrivato senza bisogno di ragionamenti complessi oltremisura. Il
secondo punto
quindi, presentando un quesito, doveva avere una risposta.
Probabilmente era
che si può volere bene a molti ma amare pochi. Di nuovo Mail
non riusciva a
capire. Ma cos’era “amare”? un verbo
sconosciuto che usava a sproposito, il cui
suono lasciava un’ eco vuoto. Allora stava a significare che
lui non amava
nessuno.
Terza questione. Una massima crudele, ma da tenere a
mente. Matt non
possedeva genitori ma doveva, o almeno, avrebbe dovuto trovarli, era
lì
apposta. Ecco svelato il suo scopo; piuttosto misero, in fondo.
Se n’era accorto quando
ogni tanto vedeva sparire dei ragazzini come lui. Tim diceva che se li
mangiavano le suore, ma Matt non ci credeva affatto. Così
non riuscendo a
concepire una teoria migliore una mattina aveva sbirciato cautamente
l’itinerario di una bimba alquanto carina e l’aveva
vista andare via con due
adulti. Il sorriso sulle sue giovani labbra faceva intendere benissimo
la situazione.
Quindi: trovarsi dei genitori; e competere con altri bambini.
Ecco.
La lista di certezze e faccende da sbrigare si fermava qui,
poiché Matt non
aveva voglia di continuarla. E non voleva neanche impegnarsi nella
stupida
competizione di chi sorride con il ghigno più largo e
convincente, di chi
appare più gentile e meno birichino, solo per ambire al
cuore di signori e
signore venuti in visita per scegliersi, dopo aver sfogliato il
catalogo, colui
che sarebbe diventato il figlio perfetto che non sono mai riusciti ad
avere.
Mail un po’ dava la colpa al suo orgoglio; come poteva
sottostare a tali
regole?
Ma in verità era
davvero troppo pigro anche per quello.
Perciò,
le rare volte che potenziali genitori si spingevano fino alla periferia
di Belfast e
parcheggiavano nel giardino arido e
brullo vicino all’orfanotrofio, lui stava in disparte,
sentendo il loro sguardo
selezionatore passare spietato anche sulla propria, di pelle,
nonostante il
bambino fissasse con ostinazione le improvvisamente interessanti
piastrelle del
pavimento . Quindi non lo avevano mai scelto e Matt tentava di
convincersi che
andava bene così, era lui stesso a non volerlo,
però il cuore gli faceva sempre
un po’ male. In quei momenti sentiva freddo, come a dicembre.
Ecco perché
odiava l’inverno; eppure ogni anno la stagione si
ripresentava, insistente, con
le sue bufere di neve e i suoi spifferi infidi. E dato che attualmente
non era
più il piccolo infante dell’orfanotrofio, ma altri
bebè avevano preso il suo
posto, ora che aveva il letto tra altri letti tutti in fila, doveva
arrangiarsi
da solo e crescere più in fretta di quanto, comunque,
sospettasse. La
conseguenza era che se provava freddo non poteva piangere, altrimenti
arrivava
una grassa donnona di mezz’età, la suora madre (
dalla quale Matt si curava di
rimanere il più distante possibile) che menava scappellotti
piuttosto forti.
Alla fine questo voleva dire
diventare adulti. Matt aveva compreso di essere salito di
“grado” quando lo
avevano portato assieme ai suoi compagni a fare la famosa scelta della
maglietta. Abiti sporchi e ampiamente usati, buttati o dimenticati
lì da
generazioni di monelli troppo ( davvero troppo) cresciuti o adottati; tuttavia si presentavano
vivacemente colorati
e soprattutto belli caldi. Erano una garanzia per l’inverno
ma rappresentavano
anche una sorta di iniziazione alla vita da “uomo”.
Almeno questa era l’idea
che vigeva nei corridoi dell’edificio, che veniva sussurrata
la notte tra i
lettini sfatti. Così Matt aveva scelto nel mucchio una
maglia a righe,larga,
ingombrante , che gli arrivava alle ginocchia, e aveva sentito come se
un
piccolo tassello andasse a posto. Il primo pezzettino del puzzle si era
incastrato, e prima o poi il disegno sarebbe stato completo. Matt aveva
così
tanta strada da percorrere ancora… Ma ora era ufficialmente
un bimbo grande.
Ispezionava il nuovo dono
minuziosamente, poiché quella che indossava non era soltanto
un capo
stropicciato: quando non si ha niente ci si aggrappa con disperazione
alle più
piccole cose; ed ecco che anche quelle righe orizzontali erano
diventate parte
di lui, come una seconda pelle. Erano Matt.
Un Matt dai capelli
rossi, pigro ma sempre sorridente, con una maglietta striata che lo
teneva
piacevolmente al caldo. Matt, misero puntino in un mondo vastissimo.
Matt con i
suoi sogni, a cui non rinunciava,ostinato; con le sue paure, le sue
insicurezze. “ Mi chiamo Matt, ma chi sono io?”
Dicono
che solo trovando l’amore si trova se stessi.
Ancora una volta lui non capiva.
Mello
“…E
se avesse potuto ricordare, di certo,
avrebbe ripensato anche al giorno in cui disse la prima parola della
sua vita: “papà”
, con voce acuta e infantile; nessuno se ne accorse. Il Mihael di oggi
sputerebbe a terra, disgustato di aver sprecato anche solo poche
sillabe per
quell’uomo. Ma il Mihael, o meglio, il Mello di adesso, non
rammenta di aver avuto
dei genitori, o forse, non vede il bisogno di farlo. In fondo la sua
vita è
iniziata più avanti. Lui
è nato in un
pomeriggio piovoso a fine inverno, in Inghilterra. Il pomeriggio tanto
atteso
in cui, finalmente, lo ha incontrato. Forse
questo è uno dei pochi pensieri che ancora sono capaci di
farlo sorridere, o
almeno, di permettergli di provarci. Ma il Mello del presente
è cresciuto,
quando invece, in un passato lontano ed impalpabile, era un bambino
molto
piccolo, e anche molto solo. Un pargoletto che ha appena parlato per la
primissima
volta e ha detto papà. Un misero nome, tutto qui. E di come, dopo averlo
urlato per un po’con
ostinata prepotenza nella stanza vuota, ha deciso di conservarlo solo
per sé;
constatando il fatto che, si, era la prima e più bella
parola del mondo.”
Tutto
era pronto. Squisitamente preparato
nei minimi dettagli da una mente lucida, niente poteva andare storto.
Lo
avrebbe fatto a notte fonda, quella stessa. Innanzitutto aveva preso un
bel po’
di soldi, abbastanza per permettergli di sopravvivere, ma non
così tanti da
destare sospetto. Anche se, effettivamente, era difficile accorgersi di
qualche
banconota in meno in quella casa. Eppure, meglio non rischiare,non
aveva
intenzione di essere obbligato a provarci un’altra volta.
Quindi, il denaro,
che rappresentava l’unico vero mezzo di possibile, se non
certa, riuscita; poi,
conoscere l’itinerario da seguire, fare un calcolo
approssimativo del tempo che
presumibilmente avrebbe impiegato. Una meta. Oh si, quella era
importante. Un
punto di arrivo dove realizzare i suoi sogni. Quali poi? Quali erano i
suoi
sogni? Ripeteva a se stesso che dopo aver letto e riletto sul
quotidiano di suo
padre la notizia relativa alla Wammy’s house ( pagina sei, in
un piccolo
specchietto in basso, a destra) ne era rimasto fortemente colpito.
Ovviamente
il giornale non diceva che quella specie di orfanotrofio raccoglieva
sotto il
suo tetto solo i bambini prodigio, dotati di un’intelligenza
fuori dal comune,
ma Mihael non ci aveva messo molto ad intuirlo, compiendo accurate
ricerche. E
in fondo lui stesso non era altro che uno di loro, vedeva con chiarezza
quanto
fosse sublime il suo intelletto e non aveva paura di ammetterlo.
Quindi, forse
era quello il suo destino. Però non capiva. Come mai
radunavano quel mini
esercito di geni, a che fine poi? Questo mistero stuzzicava
particolarmente la
sua curiosità e, qualunque fosse la risposta, presagiva
qualcosa di immenso. Un
futuro grandioso assicurato.
Così, Inghilterra. Lì avrebbe avuto
l’occasione di dimostrare chi era,
veramente, Mihael Keehl.
Tuttavia
non si trattava solo di quello. C’era…qualcosa,
qualcosa di importante. Mihael
tentava di ignorare quell’insensato pensiero, nonostante
tornasse spesso a
tormentarlo, soprattutto per il suo raziocinio, il quale si rifiutava
di
crederlo. Ma, in qualche, inevitabile modo, sentiva che era fin
là che doveva
andare, perché era giusto così.
Nessun’altra possibile spiegazione. E, finalmente,
avrebbe realizzato i suoi sogni.
Ma, per il
momento, fondamentale era andarsene, fuggire da quella casa, da tutto
ciò che
era e che, di certo, non sarebbe più stato.
Aveva deciso la
sera prima, però Mihael sospettava di aver scelto
già molto tempo addietro.
C’era
stata una festa nella villa dei Keehl, poiché la
società di suo padre aveva
ulteriormente acquistato prestigio. Quale migliore occasione per i suoi
genitori di presentare a tutti i loro altezzosi amici colui che sarebbe
diventato
successore della ditta? E quindi quella era stata anche la celebrazione
di
Mihael, una sorta di mostra di cui lui era l’attrazione
principale. Doveva
ringraziare di poter conoscere tutte quelle personalità
influenti e soprattutto
di essere nato in una famiglia prestigiosa, di cui era il fortunato
erede . Un
bellissimo futuro già totalmente programmato, ma con ogni
probabilità avrebbe
vissuto un’altra volta un’ esistenza oscurata dalla
figura di suo padre, così
ancora per nulla intenzionato ad allentare la presa su tutto
ciò che il denaro
e il potere comportavano. No grazie, non era per lui.
Il bambino ricordava con particolare isteria
una quantità immensa di uomini in giacca e cravatta, donne
dai profumi così
dolciastri da dare la nausea e, il punch all’arancia. Di come
grasse signore
pigiate in vestiti decisamente troppo stretti lo fermassero,
osservandolo con
occhi farciti da languida e per nulla disinteressata gentilezza,
cinguettando
complimenti con le boccucce arricciate come passerotti intorno al
verme. Dal
suo canto Mihael non poteva permettersi troppe storie, lui stesso era
stato
lucidato per bene ed infilato dentro un lussuoso completo da sera,
tanto che
pareva davvero un piccolo omino di affari. Era bello in modo
particolare,
malgrado l’espressione terrificante sul suo volto; i capelli
biondi e lisci
accuratamente pettinati nel caschetto, la frangetta sottile sopra occhi
celesti.
E quindi, almeno riguardo al suo aspetto, nessuno mentiva in quella
sala, ma
proprio per questo a Mihael veniva da vomitare. Tutta quella situazione
era un
paradosso, imitazione grossolana di qualcosa che, in realtà,
non aveva
consistenza.
Poi
c’era stata la foto. Si era improvvisamente visto
intrappolato tra sua madre e
suo padre, quali non era riuscito a scorgere per tutta la serata. Colto
senza
preavviso da disagio e confusione era stato stordito dal sorriso dolce
che la
signora Keehl rivolgeva con impazienza all’obbiettivo, dalle
mani di entrambi che
gli si attorcigliavano, simili ad edera, intorno alla vita. E
così, con un
semplice “click” seguito da un flash accecante,
l’immagine di una famiglia
davvero perfetta era rimasta impressa sulla carta. Mihael la osservava
adesso,
quella foto amorevolmente incorniciata, tenendola tra le mani che gli
tremavano
impercettibilmente. Con occhi socchiusi e distanti, come a rivivere
piacevoli
ricordi del passato, vedeva una mamma, non vi era dubbio su questo, dai
capelli
lunghi e chiari, raccolti in modo delizioso sulla spalla sinistra. La
sua
sagoma delicata si presentava immortalata mentre lui la confrontava con
quella
della sua mente: braccia candide ornate da catenelle brillanti ed un
sorriso
dolce sulle labbra, più amorevole del necessario, in fondo,
almeno per quel
particolare contesto.
Ma forse era solo un’impressione.
A destra un papà alto, tuttavia anche
un uomo
avvenente, perfettamente a suo agio in quella foto, quasi fosse sempre
stato
lì, in posa. Occhi vivaci e giocosi, tipici di tutti i
padri.
E
al centro, proprio in mezzo tra i due, un bambino che, con ogni
probabilità,
appena veniva scorto ci si domandava come mai non lo si avesse notato
prima.
Era un ragazzino, ed era ,senza dubbio, il più bello; gli
occhi azzurri
risaltavano incredibilmente, così meravigliosi da non
poterli non guardare.
(spietati)
Pareva
di cristallo, fragile e al contempo prezioso.
Ogni
particolare nell’insieme poteva essere definito assolutamente
esatto…eppure
stonava un po’. Un rettangolo di perfezione stridente dove il
bambino aveva
assunto un’aria vagamente estranea, come fosse stato lasciato
in disparte. Era
impercettibile, ma c’era di sicuro uno spazio ben delineato
tra i corpi che
ricordava il contatto proibito, un tacito accordo stipulato negli anni
da quei
tre individui. Ma tutto questa andava dimenticato vedendo la
spensierata risata
nata sulle labbra di lui. Il bambino sorrideva, magnifico, il volto
illuminato,
l’espressione allegra. Solo osservandolo fioriva soave la
parola “felice”.
Mihael
strinse la cornice con più forza, fino a farsi male: non era
lui
quel bambino. Non poteva esserlo, in nessun modo. Quel ragazzino biondo
dall’aria sbarazzina, immortalato stretto stretto tra i suoi
genitori esisteva
solo in quella foto ed era una sporca illusione.
Scaraventò
la cornice sul pavimento di marmo bianco e il vetro spesso che
proteggeva
l’immagine andò in frantumi, producendo un suono
spaventosamente cupo. Mihael
rimase un secondo interdetto, contemplando le schegge luccicanti sparse
un po’ ovunque,
poi raccolse la foto liberata, i movimenti rapidi e distaccati. Ora
aveva
quella superficie lucida a contatto con i polpastrelli, gli occhi
sbarrati nel
buio. La scrutò ancora per qualche secondo, come perso in un
sogno e, per un
istante ( solo per un istante), credette di poter dare
un’altra possibilità a
quel bimbo sorridente.
Lo strappo fu unico ed incredibilmente
preciso, poi Mihael sgattaiolò via veloce, i passi leggeri e
sinuosi come
quelli di un gatto e, una volta fuori, non si guardò
più indietro. Sul
pavimento freddo di una casa troppo grande e ormai vuota solo una foto,
divisa
nettamente in due parti. Da un lato una mamma, dall’altro un
papà, essi sono
incolumi, eternamente imprigionati in un luogo ove il tempo
è stato eclissato.
Il bambino invece è crudelmente squarciato a metà
ed ora condivide un posto
speciale in ognuno dei due frammenti. Il taglio irregolare gli
attraversa il
viso gentile e gli lacera tutta la parte sinistra, tanto da sembrare
un’orrenda
cicatrice.