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Autore: mxm_november rain    20/04/2013    3 recensioni
Questa è la storia di due ragazzi che non hanno mai conosciuto l’amore. Che sono stati schiacciati dalla crudeltà del mondo e ridotti a misere ombre,scure ed erranti, perse in una notte vuota.
E di come, solo trovandosi, siano tornati a sorridere e a brillare, simili a stelle del cielo. E a scoprire l’amore.
Questa , è la vera storia di come si impara ad amare.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri personaggi, Matt, Mello | Coppie: Matt/Mello
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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Matt

E infine il viaggio era iniziato anche per lui.                                                              
Mail non era altro che un tratto di pastello brillante, ma lieve; marcato con mano leggera in un foglio affollato da scritte di inchiostro disordinate, confuse e prepotenti.                                                                              
 Rosso, come i suoi capelli che spuntavano dalla culla e risaltavano nella stanza incolore, dove l’aria era perennemente umida e densa, tanto che pareva di essere immersi in una nebbia lattiginosa.                        
Gelido. Questo l’aggettivo adatto per il primo orfanotrofio che ospitò Matt. Ma forse la sensazione era quella poiché il bambino visse lì il suo primo inverno e già all’arrivo della nuova stagione si trovava in un posto differente. Matt comunque non ricordava nulla dell’ambiente, solo immagini sfocate popolate da una moltitudine impressionante di personcine chiassose  e dispettose. Bambini, tanti volti, specchi che riflettevano la stessa triste sorte. In principio un po’ confuso, poi confidente, perché il tempo trascorreva anche per lui ed era capace di rendere il tutto almeno più famigliare. Ma Matt era davvero piccolo; i mesi che aveva consumato vivendo si potevano contare sulla punta delle dita e poiché il freddo incombeva minaccioso e la neve continuava a cadere sui castelli e sui boschi fatati tipicamente irlandesi, lui se ne stava accoccolato in coperte rattoppate, giocava placidamente a scucire la fodera del lettino, si stufava, piangeva e, stanco anche di frignare, dormiva.           

Le sue giornate erano lunghe, ma non si potevano definire noiose poiché  popolate da volti, ognuno dei quali diverso che, ogni tanto, si affacciavano all’insegna del suo giaciglio. Ragazzini , vecchi, adulti, donne; un signore coi baffi. Occhi grigi, verdi come l’erba dei pascoli, ambrati o neri e profondi. E poi nasi e capelli e orecchie. Tutti loro erano speciali per Matt, nessuno escluso, e, sebbene fosse difficile ricordare quei visi, lui ci riusciva, li trovava gentili, premurosi, e poiché gli erano così cari risultava impossibile dimenticarli. Così, sia che venissero per cambiarlo o nutrirlo, o anche solo per salutarlo, il bimbo regalava a ciascuno uno splendido sorriso infantile e non c’era una volta che se ne dimenticasse. Alcuni volti lo ricambiavano e Mail poteva godere di un riso estraneo come di una straordinaria novità, molti invece lo guardavano solamente, perplessi o addirittura tristi, scuotevano la testa con rammarico, altri ancora non lo notavano nemmeno. 
Ma a lui non importava.                                                                                                               

Poi l’inverno si era concluso, la neve tanto temuta magicamente scomparsa  e, senza alcun preavviso, Matt era stato preso, sbatacchiato un po’ a destra , un po’ a sinistra, adagiato per qualche attimo, risollevato con vigore e in seguito nuovamente posato. Il lettino dove dormiva ora pareva, si può dire, piuttosto simile ma non era certo quello di prima; Mail si sentiva come appena destato da un imperturbabile letargo, ed era vagamente infastidito. Dov’era la sua tana? Ancora una volta un materasso freddo da riscaldare.
Eppure non si presentava come un grande problema; avrebbe semplicemente riniziato tutto da

capo.                                                                                                            

Il nuovo orfanotrofio era situato a Lisburn, cittadina non troppo distante dal luogo dove Matt era nato, e si chiamava “ Dolce casa”;  il nome non brillava certo per fantasia, tuttavia quella sarebbe stata la “dolce casa” di Mail per i prossimi due anni. Ed ecco che erano comparsi molti bambini con le loro storie, storie di vite di strada, e poi altri adulti, dall’aria malinconica.                              
Il nuovo arrivato era il più piccolo tra quelle pareti e ad osservarlo, pareva leggermente spaesato. Matt non riconosceva più gli occhi scuri che verso sera lo osservavano sfuggenti o la risata amorevole che svelava brutti denti del mattino presto. “ Ma quante persone esistono? “ E se lo chiedeva spesso, divertito.                                Ora aveva due anni, camminava anche se al gattonare si prestava più volentieri, spesso capitava di vederlo addormentato lungo il corridoio, ( non era davvero importante che ora fosse) scansato nella corsa frenetica dagli altri marmocchi. Dorothy lo raccoglieva puntualmente ,posandolo con pazienza nella culla e non trascurava mai di avvolgerlo in coperte e lenzuoli che ora sapevano nuovamente di Matt. Impregnate di un odore dolce, custodivano il tepore della sua pelle chiara.                                                                                 
Mail si era fatto nuovi amici, ma d’altronde era difficile non badare ad un bebè così spensierato e sorridente. Metteva allegria, poiché era come farcito da un affetto inestinguibile.                                                       
Tutti se ne meravigliavano, ma aveva memorizzato con straordinaria facilità una moltitudine di nomi. Matt li ripeteva con insistenza quando scorgeva con gli occhi verdi le persone a cui appartenevano. Certi li strillava scalciando, altri li storpiava e batteva le manine. C’era la zia Racie ( che in realtà era l’altezzosa signora Rachel) e un ragazzotto piuttosto in carne, Tomas, ma Mail ridendo lo chiamava Tom: molto confidenziale. Anche Tomas rideva.     A volte giungevano per fargli visita una banda di bambini sui dieci anni capitanati da Luca, che gli si affollavano rumorosi intorno quando dovevano prendersi una pausa dalle loro avventure. Erano lì prima che Matt arrivasse, solo due di loro sarebbero stati adottati negli anni successivi. Quei monelli invece avevano dato un soprannome a lui: “ Carota”, probabilmente riferendosi al colore dei capelli che, però, virava più ad un rosso cupo.                
Tutti gli altri lo chiamavano semplicemente Matt.                                                            
E poi c’era Dorothy e c’era la sua treccia nera e lucente,tanto lunga che al bimbo pareva infinita. Lei lo cullava la sera, gli dava la minestra calda trasformando ogni boccone in un naviglio sperduto nell’oceano, gli soffiava nelle orecchie facendolo ridere sguaiatamente. Dorothy. Matt il suo nome non lo aveva mai sbagliato.                                                                                       
E così erano arrivate, simili ad una pioggia primaverile, risate fresche, certe dolci, alte insolite. Come quella di Rachel,donna dall’età indecifrabile, la quale, le rare volte che la esibiva, ricordava vagamente un animale straziato dal soffocamento, però a Mail non dispiaceva. La sua era una strana collezione, ma amava scoprire nuove espressioni di felicità.                                
“ Le persone diventano più belle quando ridono.”  Una certezza per Matt; eppure nulla, nulla al mondo poteva eguagliare quello che, senza alcun dubbio, era il sorriso più meraviglioso che gli fosse mai capitato di vedere. Quando rideva, e lo faceva esclusivamente a notte fonda, le labbra rosse si incurvavano, dando vita ad una risata limpida e quasi commuovente, così radiosa da mozzare il fiato. Apparteneva ad una donna premurosa, una ragazza bellissima, una bambina giocosa.                                                            
Non aveva età, la figura del suo sogno.                                                                                                               
Matt la scorgeva quando la luna era ormai alta nel cielo scuro, solo dopo essersi assopito. 
...E lei arrivava, puntuale.                                                           
Rideva, e ridevano insieme e lui era estasiato da quei capelli leggeri arrotolati in boccoli soffici come nuvole, da quegli occhi verdeggianti che si confondevano con colline di cui riconosceva le curve miti e aggrazziate.  Purtroppo però il sogno finiva, scoppiando veloce simile ad una bolla di sapone, e, come tutti i bei sogni, lasciava a Matt la mattina seguente un senso di forte smarrimento accompagnato dalla malinconia, sentimenti sorprendentemente non poi così sconosciuti.                                                 
Una notte invece si era svegliato di colpo e la sensazione era quella di essersi destato da un incubo, come a volerne fuggire. Aveva ripreso a dormire poco dopo, ma con notevole ed insolita fatica. Il giorno seguente Matt piangeva in silenzio poiché all’improvviso aveva realizzato che non riusciva, per quanto si concentrasse, a ricordare chi era quella donna. Poteva solo sperare di scorgerla in sogno e rivedere i suoi occhi così simili ai propri, e il suo sorriso, che lo faceva sentire a casa. Era a conoscenza che poi si sarebbe svegliato e la luce avrebbe spazzato via il suo sogno senza pietà, ma non riusciva ad evitarlo; la sera seguitava a dormire e, inevitabilmente, continuava a sognare. Infine era arrivato l’autunno con tutti i suoi colori e il raggio di sole che solitamente scaldava il viso del piccolo al mattino presto, filtrando dalla finestrella, si era presentato freddo e spento. Spento come Dorothy, la quale lo aveva destato senza il solito entusiasmo, tanto che Mail era rimasto confuso e intorpidito per un po’. Poi lei gli aveva fatto “ciao” con la manina e, nonostante quello fosse il suo lavoro, le si erano velati gli occhi di lacrime. Si era anche sforzata di sorridere, ma da tempo a questa parte gli orfanelli erano sempre di più, e questo stava a significare anche che il numero delle persone spregevoli che abbandonavano i figli andava aumentando. La conseguenza era che i bambini piccini come Matt dovevano cambiare casa, ancora e ancora. Almeno, quello era il parere di Dorothy, che stava già tornando sui suoi passi, borbottando.                                                                           
Matt era stato caricato su una vettura cigolante dalla carrozzeria scrostata e trasportato dall’altra parte della città. All’inizio era eccitato: gli piacevano le macchine. Nella confusione generale aveva registrato solo vagamente la presenza di altri bambini ,ma loro avevano l’aria spaventata. Una ragazzina sbirciava fuori dal finestrino, assorta. Erano tutti più grandi di lui.                                                                                                       
Poiché il ronzio del motore somigliava ad un respiro calmo e ridondante,Mail si assopì un poco durante il viaggio. Quando aprì gli occhi, lentamente prese forma una stanza dalla carta da parati popolata da elefantini scoloriti. Uno spazio modesto e tristemente arredato. Strisce di letti tutti uguali vicino alla sua nuova culla, tanti bambini fastidiosi. E non più Tomas, non più Luca.            
Non si stupì, non più.                                                                                                        
Senza alcun preavviso un ragazzo che somigliava incredibilmente a… non ricordava più chi (ma comunque non aveva importanza perché in fondo se somigliava non era) fece capolino osservandolo e Matt rimase lievemente interdetto, come colto alla sprovvista. Poi sorrise, tuttavia quella volta il suo sorriso risultò incrinato. Quando il visitatore sparì alzando le spalle Matt scoprì di non riuscire a ricordarne il volto.                                                                                          

…E i mesi si sbriciolavano, dissolvendosi come polvere, fluendo leggeri, tiepida sabbia tra le dita. Matt cresceva e scopriva sempre più cose.                             
Prima: non aveva genitori. Era un bambino, nel mondo probabilmente ci era arrivato da solo, a passi incerti e in salita, scansando rovi e sassi appuntiti.                                                                                                         
Seconda cosa: importante. Necessitava prima la domanda: “ quante persone si possono amare? “, che poteva anche essere posta diversamente poiché in fondo Matt non ne comprendeva appieno il significato. Dunque: “ per quante persone c’è spazio nel nostro cuore?”  Ecco, così andava decisamente meglio. Matt se lo era chiesto spesso, poiché aveva perso facilmente il conto di coloro che affollavano il suo, di cuore, e comunque quando ripensava a quell’ammasso di volti sfocati la sensazione nel petto era fastidiosamente fredda, una luce troppo flebile per essere solo presa in considerazione. Matt a questo ci era arrivato senza bisogno di ragionamenti complessi oltremisura. Il secondo punto quindi, presentando un quesito, doveva avere una risposta. Probabilmente era che si può volere bene a molti ma amare pochi. Di nuovo Mail non riusciva a capire. Ma cos’era “amare”? un verbo sconosciuto che usava a sproposito, il cui suono lasciava un’ eco vuoto. Allora stava a significare che lui non amava nessuno.                                                            
Terza questione. Una massima crudele, ma da tenere a mente. Matt non possedeva genitori ma doveva, o almeno, avrebbe dovuto trovarli, era lì apposta. Ecco svelato il suo scopo; piuttosto misero, in fondo.           
Se n’era accorto quando ogni tanto vedeva sparire dei ragazzini come lui. Tim diceva che se li mangiavano le suore, ma Matt non ci credeva affatto. Così non riuscendo a concepire una teoria migliore una mattina aveva sbirciato cautamente l’itinerario di una bimba alquanto carina e l’aveva vista andare via con due adulti. Il sorriso sulle sue giovani labbra faceva intendere benissimo la situazione. Quindi: trovarsi dei genitori; e competere con altri bambini.                                                                                                             
Ecco. La lista di certezze e faccende da sbrigare si fermava qui, poiché Matt non aveva voglia di continuarla. E non voleva neanche impegnarsi nella stupida competizione di chi sorride con il ghigno più largo e convincente, di chi appare più gentile e meno birichino, solo per ambire al cuore di signori e signore venuti in visita per scegliersi, dopo aver sfogliato il catalogo, colui che sarebbe diventato il figlio perfetto che non sono mai riusciti ad avere. Mail un po’ dava la colpa al suo orgoglio; come poteva sottostare a tali regole?              
Ma in verità era davvero troppo pigro anche per quello.                                         
Perciò, le rare volte che potenziali genitori si spingevano fino alla periferia di  Belfast e parcheggiavano nel giardino arido e brullo vicino all’orfanotrofio, lui stava in disparte, sentendo il loro sguardo selezionatore passare spietato anche sulla propria, di pelle, nonostante il bambino fissasse con ostinazione le improvvisamente interessanti piastrelle del pavimento . Quindi non lo avevano mai scelto e Matt tentava di convincersi che andava bene così, era lui stesso a non volerlo, però il cuore gli faceva sempre un po’ male. In quei momenti sentiva freddo, come a dicembre. Ecco perché odiava l’inverno; eppure ogni anno la stagione si ripresentava, insistente, con le sue bufere di neve e i suoi spifferi infidi. E dato che attualmente non era più il piccolo infante dell’orfanotrofio, ma altri bebè avevano preso il suo posto, ora che aveva il letto tra altri letti tutti in fila, doveva arrangiarsi da solo e crescere più in fretta di quanto, comunque, sospettasse. La conseguenza era che se provava freddo non poteva piangere, altrimenti arrivava una grassa donnona di mezz’età, la suora madre ( dalla quale Matt si curava di rimanere il più distante possibile) che menava scappellotti piuttosto forti.                                                              
Alla fine questo voleva dire diventare adulti. Matt aveva compreso di essere salito di “grado” quando lo avevano portato assieme ai suoi compagni a fare la famosa scelta della maglietta. Abiti sporchi e ampiamente usati, buttati o dimenticati lì da generazioni di monelli troppo ( davvero troppo) cresciuti o adottati;  tuttavia si presentavano vivacemente colorati e soprattutto belli caldi. Erano una garanzia per l’inverno ma rappresentavano anche una sorta di iniziazione alla vita da “uomo”. Almeno questa era l’idea che vigeva nei corridoi dell’edificio, che veniva sussurrata la notte tra i lettini sfatti. Così Matt aveva scelto nel mucchio una maglia a righe,larga, ingombrante , che gli arrivava alle ginocchia, e aveva sentito come se un piccolo tassello andasse a posto. Il primo pezzettino del puzzle si era incastrato, e prima o poi il disegno sarebbe stato completo. Matt aveva così tanta strada da percorrere ancora… Ma ora era ufficialmente un bimbo grande.                                                                                                            
Ispezionava il nuovo dono minuziosamente, poiché quella che indossava non era soltanto un capo stropicciato: quando non si ha niente ci si aggrappa con disperazione alle più piccole cose; ed ecco che anche quelle righe orizzontali erano diventate parte di lui, come una seconda pelle. Erano Matt.                        
Un Matt dai capelli rossi, pigro ma sempre sorridente, con una maglietta striata che lo teneva piacevolmente al caldo. Matt, misero puntino in un mondo vastissimo. Matt con i suoi sogni, a cui non rinunciava,ostinato; con le sue paure, le sue insicurezze. “ Mi chiamo Matt, ma chi sono io?”                                     
Dicono che solo trovando l’amore si trova se stessi.                                           
Ancora una volta lui non capiva.

Mello

“…E se avesse potuto ricordare, di certo, avrebbe ripensato anche al giorno in cui disse la prima parola della sua vita: “papà” , con voce acuta e infantile; nessuno se ne accorse. Il Mihael di oggi sputerebbe a terra, disgustato di aver sprecato anche solo poche sillabe per quell’uomo. Ma il Mihael, o meglio, il Mello di adesso, non rammenta di aver avuto dei genitori, o forse, non vede il bisogno di farlo. In fondo la sua vita è iniziata più avanti.  Lui è nato in un pomeriggio piovoso a fine inverno, in Inghilterra. Il pomeriggio tanto atteso in cui, finalmente, lo ha incontrato.  Forse questo è uno dei pochi pensieri che ancora sono capaci di farlo sorridere, o almeno, di permettergli di provarci. Ma il Mello del presente è cresciuto, quando invece, in un passato lontano ed impalpabile, era un bambino molto piccolo, e anche molto solo. Un pargoletto che ha appena parlato per la primissima volta e ha detto papà. Un misero nome, tutto qui.  E di come, dopo averlo urlato per un po’con ostinata prepotenza nella stanza vuota, ha deciso di conservarlo solo per sé; constatando il fatto che, si, era la prima e più bella parola del mondo.”

 

Tutto era pronto. Squisitamente preparato nei minimi dettagli da una mente lucida, niente poteva andare storto. Lo avrebbe fatto a notte fonda, quella stessa. Innanzitutto aveva preso un bel po’ di soldi, abbastanza per permettergli di sopravvivere, ma non così tanti da destare sospetto. Anche se, effettivamente, era difficile accorgersi di qualche banconota in meno in quella casa. Eppure, meglio non rischiare,non aveva intenzione di essere obbligato a provarci un’altra volta. Quindi, il denaro, che rappresentava l’unico vero mezzo di possibile, se non certa, riuscita; poi, conoscere l’itinerario da seguire, fare un calcolo approssimativo del tempo che presumibilmente avrebbe impiegato. Una meta. Oh si, quella era importante. Un punto di arrivo dove realizzare i suoi sogni. Quali poi? Quali erano i suoi sogni? Ripeteva a se stesso che dopo aver letto e riletto sul quotidiano di suo padre la notizia relativa alla Wammy’s house ( pagina sei, in un piccolo specchietto in basso, a destra) ne era rimasto fortemente colpito. Ovviamente il giornale non diceva che quella specie di orfanotrofio raccoglieva sotto il suo tetto solo i bambini prodigio, dotati di un’intelligenza fuori dal comune, ma Mihael non ci aveva messo molto ad intuirlo, compiendo accurate ricerche. E in fondo lui stesso non era altro che uno di loro, vedeva con chiarezza quanto fosse sublime il suo intelletto e non aveva paura di ammetterlo. Quindi, forse era quello il suo destino. Però non capiva. Come mai radunavano quel mini esercito di geni, a che fine poi? Questo mistero stuzzicava particolarmente la sua curiosità e, qualunque fosse la risposta, presagiva qualcosa di immenso. Un futuro grandioso assicurato.                                                                                           
Così, Inghilterra. Lì avrebbe avuto l’occasione di dimostrare chi era, veramente, Mihael Keehl.            
Tuttavia non si trattava solo di quello. C’era…qualcosa, qualcosa di importante. Mihael tentava di ignorare quell’insensato pensiero, nonostante tornasse spesso a tormentarlo, soprattutto per il suo raziocinio, il quale si rifiutava di crederlo. Ma, in qualche, inevitabile modo, sentiva che era fin là che doveva andare, perché era giusto così. Nessun’altra possibile spiegazione. E, finalmente, avrebbe realizzato i suoi sogni.                                     
Ma, per il momento, fondamentale era andarsene, fuggire da quella casa, da tutto ciò che era e che, di certo, non sarebbe più stato.                                                            
Aveva deciso la sera prima, però Mihael sospettava di aver scelto già molto tempo addietro.                                                                                                                  
C’era stata una festa nella villa dei Keehl, poiché la società di suo padre aveva ulteriormente acquistato prestigio. Quale migliore occasione per i suoi genitori di presentare a tutti i loro altezzosi amici colui che sarebbe diventato successore della ditta? E quindi quella era stata anche la celebrazione di Mihael, una sorta di mostra di cui lui era l’attrazione principale. Doveva ringraziare di poter conoscere tutte quelle personalità influenti e soprattutto di essere nato in una famiglia prestigiosa, di cui era il fortunato erede . Un bellissimo futuro già totalmente programmato, ma con ogni probabilità avrebbe vissuto un’altra volta un’ esistenza oscurata dalla figura di suo padre, così ancora per nulla intenzionato ad allentare la presa su tutto ciò che il denaro e il potere comportavano. No grazie, non era per lui.                                                      
Il bambino ricordava con particolare isteria una quantità immensa di uomini in giacca e cravatta, donne dai profumi così dolciastri da dare la nausea e, il punch all’arancia. Di come grasse signore pigiate in vestiti decisamente troppo stretti lo fermassero, osservandolo con occhi farciti da languida e per nulla disinteressata gentilezza, cinguettando complimenti con le boccucce arricciate come passerotti intorno al verme. Dal suo canto Mihael non poteva permettersi troppe storie, lui stesso era stato lucidato per bene ed infilato dentro un lussuoso completo da sera, tanto che pareva davvero un piccolo omino di affari. Era bello in modo particolare, malgrado l’espressione terrificante sul suo volto; i capelli biondi e lisci accuratamente pettinati nel caschetto, la frangetta sottile sopra occhi celesti. E quindi, almeno riguardo al suo aspetto, nessuno mentiva in quella sala, ma proprio per questo a Mihael veniva da vomitare. Tutta quella situazione era un paradosso, imitazione grossolana di qualcosa che, in realtà, non aveva consistenza.                                                                                  

Poi c’era stata la foto. Si era improvvisamente visto intrappolato tra sua madre e suo padre, quali non era riuscito a scorgere per tutta la serata. Colto senza preavviso da disagio e confusione era stato stordito dal sorriso dolce che la signora Keehl rivolgeva con impazienza all’obbiettivo, dalle mani di entrambi che gli si attorcigliavano, simili ad edera, intorno alla vita. E così, con un semplice “click” seguito da un flash accecante, l’immagine di una famiglia davvero perfetta era rimasta impressa sulla carta. Mihael la osservava adesso, quella foto amorevolmente incorniciata, tenendola tra le mani che gli tremavano impercettibilmente. Con occhi socchiusi e distanti, come a rivivere piacevoli ricordi del passato, vedeva una mamma, non vi era dubbio su questo, dai capelli lunghi e chiari, raccolti in modo delizioso sulla spalla sinistra. La sua sagoma delicata si presentava immortalata mentre lui la confrontava con quella della sua mente: braccia candide ornate da catenelle brillanti ed un sorriso dolce sulle labbra, più amorevole del necessario, in fondo, almeno per quel particolare contesto.                                 
Ma forse era solo un’impressione.                                                                                          
 
A destra un papà alto, tuttavia anche un uomo avvenente, perfettamente a suo agio in quella foto, quasi fosse sempre stato lì, in posa. Occhi vivaci e giocosi, tipici di tutti i padri.                                                        
E al centro, proprio in mezzo tra i due, un bambino che, con ogni probabilità, appena veniva scorto ci si domandava come mai non lo si avesse notato prima. Era un ragazzino, ed era ,senza dubbio, il più bello; gli occhi azzurri risaltavano incredibilmente, così meravigliosi da non poterli non guardare.      
(spietati)                                                                                                             
Pareva di cristallo, fragile e al contempo prezioso.                                                           
Ogni particolare nell’insieme poteva essere definito assolutamente esatto…eppure stonava un po’. Un rettangolo di perfezione stridente dove il bambino aveva assunto un’aria vagamente estranea, come fosse stato lasciato in disparte. Era impercettibile, ma c’era di sicuro uno spazio ben delineato tra i corpi che ricordava il contatto proibito, un tacito accordo stipulato negli anni da quei tre individui. Ma tutto questa andava dimenticato vedendo la spensierata risata nata sulle labbra di lui. Il bambino sorrideva, magnifico, il volto illuminato, l’espressione allegra. Solo osservandolo fioriva soave la parola “felice”.                                                                               

Mihael strinse la cornice con più forza, fino a farsi male: non era lui quel bambino. Non poteva esserlo, in nessun modo. Quel ragazzino biondo dall’aria sbarazzina, immortalato stretto stretto tra i suoi genitori esisteva solo in quella foto ed era una sporca illusione.                                                                                          
Scaraventò la cornice sul pavimento di marmo bianco e il vetro spesso che proteggeva l’immagine andò in frantumi, producendo un suono spaventosamente cupo. Mihael rimase un secondo interdetto, contemplando le schegge luccicanti sparse un po’ ovunque, poi raccolse la foto liberata, i movimenti rapidi e distaccati. Ora aveva quella superficie lucida a contatto con i polpastrelli, gli occhi sbarrati nel buio. La scrutò ancora per qualche secondo, come perso in un sogno e, per un istante ( solo per un istante), credette di poter dare un’altra possibilità a quel bimbo sorridente.                                                          
Lo strappo fu unico ed incredibilmente preciso, poi Mihael sgattaiolò via veloce, i passi leggeri e sinuosi come quelli di un gatto e, una volta fuori, non si guardò più indietro. Sul pavimento freddo di una casa troppo grande e ormai vuota solo una foto, divisa nettamente in due parti. Da un lato una mamma, dall’altro un papà, essi sono incolumi, eternamente imprigionati in un luogo ove il tempo è stato eclissato. Il bambino invece è crudelmente squarciato a metà ed ora condivide un posto speciale in ognuno dei due frammenti. Il taglio irregolare gli attraversa il viso gentile e gli lacera tutta la parte sinistra, tanto da sembrare un’orrenda cicatrice.

  
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