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Autore: miss potter    21/04/2013    5 recensioni
"Bisogna avere un pò di caos dentro per partorire una stella danzante." (1)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter thirteen









Tornai in camera all’orario prestabilito, camminando i punta di piedi, ed abbassai la maniglia il più lentamente possibile con addosso puntato lo sguardo turbato di una cameriera la quale, prima dileguarsi oltre le porte dell’ascensore tirandosi dietro il carrello dei panni sporchi, si affrettò a salutarmi con un vago cenno del capo con la discrezione che, probabilmente, dedicava alle migliaia di mariti in atteggiamenti decisamente ambigui che beccava trasferirsi da una stanza all’altra ogni mattina, un’imbarazzante macchia di rossetto sul collo della camicia sbottonata e la zip dei pantaloni abbassata.
Ma, chissà perché, non mi stavo sentendo parte di suddetta categoria. Forse perché non avevo nessuna macchia di rossetto sul colletto, o perché non c’era niente che non andava con la mia zip. O, forse, perché ricambiai semplicemente il saluto e non le sganciai neanche un penny per il suo silenzio.
Entrai chiudendomi la porta alle spalle, certo che, con la penombra e il post sbornia di mia moglie a mio favore, mi sarei rimesso sotto le coperte senza destare inopportune domande od osservazioni di alcun genere. Tuttavia, quando raggiunsi la camera da letto, sussultai di puro sgomento alla scena che mi si presentò davanti agli occhi e mi bloccai sul posto, i muscoli pietrificati insieme al mio respiro: Mary, seduta di spalle dalla sua parte di letto, era accarezzata dalla luce grigiastra proveniente dalla finestra di fronte, il capo scompigliato e chino su un oggetto avvolto in una grande carta colorata che teneva appoggiato sul grembo.
Il “tesoro, ti posso spiegare tutto” cominciò a crepitare come tanti piccoli tizzoni di brace ardente sulla punta della mia lingua, insieme ad una non propriamente gradevole sensazione di autentico panico nello stomaco che incenerì seduta stante le miriadi di tanto possibili quanto improbabili spiegazioni che avrei imbastito per giustificare la mia assenza. Ma entrambi i sentimenti furono rapidamente domati dalla cristallina risata della donna che avevo di fronte, con ancora addosso i vestiti della sera precedente, che, voltandosi verso di me, mi regalò uno dei più straordinari sorrisi che credo di non averle mai visto indossare prima di allora, mentre con gli occhi lucidi mi mostrava l’enorme e bellissimo mazzo di fiori che teneva tra le braccia accompagnato da un biglietto.
“Camelie(14), John…” pigolò, portandosi una mano davanti alla bocca. “Le mie preferite.”
La sopraccitata sensazione di panico si affievolì soltanto per lasciare spazio ad un ancora più devastante senso di smarrimento che mi investì in pieno con la forza di una locomotiva lanciata a massima velocità sui dei binari immaginari.
Era come se mi fossi preso una potente ubriacatura, ma di quelle atomiche, che ti stendono per tutto il giorno e anche quello successivo facendoti desiderare niente più che una dormita di ventiquattro ore consecutive o direttamente il colpo di grazia, e subito dopo mi fossi fatto in vena di qualcosa di molto, molto pesante perché la testa cominciò a girarmi come una trottola, il cervello a pulsare come la pallina impazzita di un flipper sballottata sulle pareti del cranio e, dietro le palpebre, qualche inopportuna macchiolina allucinogena ad offuscarmi la visuale.
Mi avvicinai, cauto, massaggiandomi una tempia e cercando di non rovinare per terra in tutta la durata dell’operazione, e con un tonfo mi sedetti di fianco a lei, lei che non aveva mai staccato gli occhi dai miei, lei che era la felicità fatta persona, adesso, contagiosa come il peggiore dei morbi o il migliore dei sogni da cui non ci si vorrebbe mai ridestare.
Sbirciai il biglietto, piuttosto semplice ed innocuo ad un primo esame in effetti, tanto inoffensivo quanto un “Con tutto il mio affetto. Per Mary” a caratteri cubitali e la mia firma poco più in basso potrebbero essere, un’eccellente imitazione della mia calligrafia, tanto perfetta che avrebbe potuto tranquillamente ingannare anche mia madre al tempo delle giustificazioni falsificate delle assenze scolastiche.
Ampliai il sorriso, uno di quelli piuttosto amari dell’intero mio repertorio, ma tremendamente sincero.
“Grazie” sussurrò mia moglie, poggiando poi le labbra sulle mie in un pallido bacio, leggero come i vaporosi petali color rosa pastello di quei fiori che stavano già zuccherando tutta la stanza del loro profumo freschissimo.
“Ma figurati” risposi, cercando per quanto possibile di stare al gioco e di non detestarmi più di quanto non fosse già necessario. Più che necessario.
In quel preciso istante, pensai che la cosa migliore da fare fosse, ecco… abbracciarla, stringerla a me con tutto il calore che, da quella stessa notte, mi era rimasto a disposizione nelle braccia e nel petto, con tutta la forza, con tutto quell’avanzo d’amore fuori misura che stavo compensando a suon di menzogne e imbottiture posticce per un cuore spinto qua e là con troppa violenza, troppo a lungo, che non era ancora pronto a sbocciare la sua verità, troppo ardente per la sua natura delicata e sostanzialmente frivola spaccata in due parti tanto uguali da far quasi pietà, sempre troppo inadeguato nascosto nella sua impeccabile confezione di carne e sorrisi spenti.
“Come l’hai capito?” mi chiese ad un certo punto, lo sguardo incuriosito indirizzato alla mia espressione assorta.
“Capito cosa?”
“Delle camelie.”
“Oh. Beh… l’ho dedotto.”
La sua curiosità lasciò improvvisamente il posto ad uno spesso ed imbarazzante alone di perplessità, tanto che mi fece dare mentalmente dello stupido per l’ennesima volta. Ma, d’altra parte, tempo addietro le avevo detto di essere appassionato di teatro e non potevo certo essere da meno a quella farsa, l’ennesima battaglia senza vincitori né vinti. Solo sangue da entrambe le parti.
“Dedotto” mi fece eco, sollevando un sopracciglio.
“Sì. Ho osservato e… ipotizzato che la camelia fosse il tuo fiore preferito.”
“E… che cosa avresti osservato di preciso?”
Già. Chissà che cosa. Perché io di quella donna non sapevo niente, se non la strana abitudine di lasciare i flaconi di profumo aperti sulla mensola sopra al lavandino in bagno, rovesciandone puntualmente il contenuto ovunque, le principali abitudini alimentari, la sua passione per i libri e i cani di taglia piccola, qualche sogno nel cassetto e il suo ciclo mestruale. Niente di più noioso, insomma. Niente di più noioso dei fiori e di tutte quelle logoranti ciarle.
“Niente di che. Quando sono arrivati, Mary?” domandai, affrettandomi a cambiare discorso.
“Li ha portati un facchino, poco prima delle otto.”
“Prima delle otto?”
“Sì. Ma tranquillo, ero già sveglia.”
“Eri già sveglia?!”
Oddio, pensai, sono rovinato. E per giunta molto, molto intenzionato a tirare il collo ad un certo fratello Holmes! Quello meno carino… e più inquietante.
“Già. Verso le sette e quaranta ha telefonato in camera un certo… Mike. O Mick, non ricordo… Aveva un nome strano!”
“Mycroft…?”
“Lui!” esclamò allargando il sorriso e facendo ondeggiare il fiocco bianco del bouquet. “Ha detto di essere un tuo amico e che non dovevo preoccuparmi se non c’eri perché eri dal fioraio.”
“Mycroft, mio amico? Dal fioraio?!”
“John, tesoro, sei sordo per caso?”
In quel momento, elaborai circa una decina tra torture, sevizie e interessanti metodi di occultamento di cadavere, in parte appresi al fronte, da mettere in atto sul corpo del maggiore tra i miei due peggiori incubi.
“Il mio udito non ha niente che non va!”
Trovai particolarmente allettante il trucchetto del panno sulla faccia, inzuppato per rendere difficoltosa la respirazione…
“Comunque, date le circostante, credo di poterti perdonare” ammiccò Mary, accarezzandomi un braccio.
O forse era meglio lo schiacciapollici? No, troppo medievale…
“E, senti… Mycroft ti ha detto qualcos’altro di interessante?”
“A parte che stasera siamo invitati a cena al ristorante dell’albergo e che vuole presentarmi suo fratello?”
A pensarci bene, lo schiacciapollici sarebbe andato benissimo.

Quella mattina e lo stesso pomeriggio passarono molto più velocemente di quanto temessi.
Io e Mary, dopo colazione, uscimmo per visitare un paio di musei e la zona degli affari della città, molto grande e piuttosto caotica, dove edifici bancari ed infiniti grattacieli si stagliavano verso il cielo con le loro lunghe dita d’acciaio e vetro creando un’impressionante selva d’architettura contemporanea che mi ricordò moltissimo quella della City, a casa.
Già, casa. Quanto mi stava mancando…

Quello psicotico di tuo fratello ci ha invitati a cena, questa sera. In albergo. Ne sei al corrente? JW

Visto che Mary, determinata a trovare qualcosa di carino per l’occasione, era intenta a destreggiarsi nella folla di manichini di un negozio d’abbigliamento e dato che voleva propormi un maglione decisamente eccessivo anche per i miei gusti, e soprattutto per le mie tasche, decisi di aspettarla fuori, scampando così all’infausto triangolo marito, moglie e shopping, e di approfittare del momento per render nota la notizia all’indiretto interessato, il quale rispose con la consueta e fulminea velocità.

Della sua dubbia integrità mentale o della cena? Sì a entrambe le cose, comunque. SH

Non si rende conto dell’ovvia inopportunità della cosa, a quanto pare. JW

Ti vergogni di me, dottore? SH

Certo che no. Però, sai, essendo tu il mio amante, nonché ex paziente, nonché collaboratore e fratello dei servizi segreti inglesi non credo che sia propriamente una buona cosa da fare nei confronti di Mary. JW

Cancella quest’ultimo messaggio. SH

Sherlock! JW

Non per farti sentire in colpa più di quanto già non ti sentirai, ma credo che sulla questione “buone cose nei confronti di Mary” tu e mio fratello vi stiate seriamente giocando il primo posto, al momento. SH

Come psicologo sei un diastro, lasciatelo dire. JW

Gli psicologi sono noiosi. I consulenti detective sono MOLTO più sexy. SH

Smettila. JW

Di fare cosa? SH

Di sorvolare sulla questione. JW

John, smetteresti di fare sesso con me se questa cena non si facesse? SH

Cristo… JW

Che c’è adesso? SH

Potresti formulare la domanda in modo più delicato? I miei nervi potrebbero non reggere. JW

John, smetteresti di venire a letto con me se questa cena non si facesse? SH

Sei impossibile. JW

John, smetteresti di copulare con me se questa cena non si facesse? SH
Ti avverto, sto finendo i sinonimi. SH

OK, credo di aver afferrato il concetto. La ringrazio per il suo aiuto, dottor Freud… JW

Sono contrario quanto te, credimi. Probabilmente Mycroft ti ha rifilato la scusa delle presentazioni tra me e tua moglie perché in realtà è lui quello che vuole conoscerla. SH

Lui vuole conoscere Mary? JW

Ne ignoro i motivi. Ma posso fare uno sforzo di immaginazione neanche tanto impegnativo. SH

Venerdì  torniamo a Londra. Penso di riuscire a reggere un Holmes per altri tre miseri giorni dopo aver sopportato l’altro per più di sei mesi. JW

Sopportato è una parola grossa. Ammetti che ti è piaciuto, starmi dietro. SH

Starti dietro è il mio mestiere. JW
Oddio, perché suona così ambiguo?! JW

Hai fatto tutto da solo, John. Accudire, se preferisci. SH

Badare è perfetto. JW

Detesto le babysitter. Ne ho fatte scappare una decina, da bambino, e ho dato fuoco ai capelli dell’ultima. SH

Che cosa hai fatto?! JW

Aveva un caschetto orrendo! SH

Che peste. Povera tua madre. JW

Da quando ha ingaggiato Mycroft come bambinaia ho maturato una speciale avversione verso di lui e verso tutte le persone che tentano di prendersi cura di me. SH

Io mi sono preso cura di te. JW

Tu sei la mia eccezione. SH

Quasi non mi accorsi di Mary che, uscita dal negozio carica di borse, si stava avvicinando, preso com’ero dalla contemplazione di quella frase nello schermo che agì da perfetto catalizzatore per una spaventosa irrorazione di sangue alle mie guance.
“Tu sei la mia eccezione” ripetei sottovoce, la gola tutt’a un tratto secca e il battito decisamente accelerato.
“Hai detto qualcosa, tesoro?” cinguettò mia moglie trotterellandomi di fianco.
“Ehm, nulla!” esclamai infilandomi velocemente in tasca il cellulare, e le circondai le spalle con un braccio. “Nulla. Cos’hai comprato di bello?”
Mary mi sorrise e cominciò a mostrarmi diversi pacchetti, contenenti stoffe colorate e pelletteria varia mentre ricambiavo con freddezza quella solarità e distrattamente annuivo, la mente lontana, inzuppata di quelle parole così poco da Sherlock ma così tanto da noi, John e Sherlock, Sherlock e John, le due eccezioni che confermarono l’esistenza delle anime gemelle ricamate insieme dalla mitica Aracne, secoli e secoli prima, condannata alla sofferenza di una forma non sua da una divinità meschina ed invidiosa.
Mentre mia moglie questionava sui prezzi effettivamente troppo alti delle cose che aveva comprato e sul fatto che probabilmente le avrebbe trovate in Inghilterra alla metà, sbirciai un’ultima volta il display e mi lasciai andare ad un rassegnato sospiro:

Questo non significa che un giorno non condurrò esperimenti pirici sui tuoi capelli. SH
Alle otto, soldato. SH

 
E alle otto ci presentammo, dopo aver aspettato mezz’ora prima che Mary decidesse quale paio di orecchini indossare e un altro quarto d’ora buono per le scarpe.
“Sei perfetta, smettila di preoccuparti” la ripresi quando in ascensore continuava a lisciarsi l’abito o a sistemarsi i capelli, graziosamente raccolti a coda di cavallo.
“Non sono preoccupata. Solo che ci tengo a farti fare una bella figura coi tuoi amici.”
Il rumore di campanello che annunciò il nostro arrivo al pianoterra ebbe per me lo stesso effetto di un pugno nello stomaco, insieme a quella frase che si andò ad aggiungere all’infinito elenco degli altri più che validi motivi per cui avrei dovuto cercare la buca più profonda del pianeta Terra, scavare ancora e seppellirmici dentro per il resto della mia grama esistenza. E quasi non ebbi il coraggio di mettere piedi fuori dalle porte automatiche quando si aprirono lentamente con un solenne fruscio metallico, le dita della mano di Mary che si andarono ad intrecciare alle mie in un gesto di maldestra complicità.
Chi dei due fosse più teso, beh… neanche il più abile degli osservatori avrebbe potuto dirlo con assoluta sicurezza. Certo era che se non fosse stato per mia moglie probabilmente avrei pigiato di nuovo il bottone del nostro piano e avrei fatto le valige, tornandomene in patria con la coda tra le gambe.
“Non potresti mai farmi fare brutta figura” le sorrisi, baciandole il dorso della mano che strinsi forte nella mia prima di fare il nostro ingresso nel salone.
Ci accolse un abbagliante turbinio di luci e lustrini generato da poderosi e lussuosissimi grappoli di cristallo appesi all’alto soffitto, riversanti tutto il loro argenteo incanto sulle posate e i bicchieri che imbandivano le varie tavolate insieme alle sontuose tovaglie e alle sedie, ricoperte con un drappo color perla che terminava in un grosso fiocco sulla parte posteriore dello schienale. La sala e il bancone del bar vicino erano modestamente affollati, la maggior parte dei tavoli occupata e qualche cameriere d’untuoso aspetto gironzolava in frac e grembiule con mento e vassoi all’aria.
Mi sembrò di venire catapultato in una di quelle vecchie pellicole in bianco e nero dove il protagonista, un altero e facoltoso giovanotto alto borghese, aspetta la sua bella in abito nero e bocchino seduto ad un tavolo, mentre con disinvoltura solleva una mano inguantata ed ordina ostriche e champagne mentre con l’altra si arriccia i baffi incerati.
Solo che disinvolto, io, non lo ero affatto, tantomeno inguantato o facoltoso. Terrorizzato era la parola più opportuna, credo, abituato com’ero alla vita frugale e ad ogni tipo di scomodità a cui è destinato un medico militare anche dopo il congedo.
In verità, non mi ero mai sentito particolarmente a mio agio in mezzo a persone sfacciatamente abbienti e in luoghi suppuranti lusso da ogni anfratto come quella sala d’albergo, la netta sensazione di non avere nessuna ragione valida per trattenersi un secondo di più e gli occhi critici di mezzo ristorante puntati addosso. E non per questione di complessi d’inferiorità o stupidaggini psicologiche simili. Piuttosto perché, forse, non avrei avuto nulla di che discutere con tutti quegli sconosciuti evidentemente annoiati della vita e dai troppi quattrini, viziati dalla fortuna e sfregiati dall’arroganza, sempre troppo occupati o troppo poco attratti dalla vita vera, quella là fuori, dove la gente si alza ogni giorno e non sa se il frutto del lavoro di quella giornata basterà per arrivare a fine settimana, per pagare affitto, mutuo, spesa e qualche piccolo, meritato sfizio. E John Watson era così, è così e così sempre sarà, semplice e nobile di cuore prima che di sangue, ricco di pazienza prima che di portafoglio, qualità di cui, sì, posso vantarmi perché mi hanno portato, allora, a ciò che oggi sono e alle persone che, adesso, mi stanno vicino e alle scelte di cui mai mi pentirò.
Per questo scacciai dalla mente tutte quelle inutili paranoie come noiose mosche in una afosa giornata estiva e, a testa alta, affrontai la folla mano nella mano con Mary, probabilmente ancor più sconvolta di me, facendo il mio trionfale ingresso in completo color lavagna e cravatta gialla con un ampio sorriso sulle labbra.
Mi guardai attorno per qualche istante prima di riuscire ad intravedere il capo lucido di brillantina di Mycroft, girato di spalle, e il volto bonario dell’ispettore Lestrade seduti ad un tavolo tondo poco distante che conversavano seriosamente, in mano una coppa di quello che immaginai fosse Dom Pérignon la cui bottiglia giaceva inclinata nel suo letto di ghiaccio in un secchio posato su un carrellino vicino. L’Inghilterra era davvero lontana.
Dovetti agitare un po’ un braccio per farmi notare dai due: Lestrade mi adocchiò quasi subito e mi sorrise con sincero entusiasmo facendo cenno di avvicinarci, mentre il signor Holmes si voltò appena portandosi il bicchiere alle labbra in un’irritante espressione tra l’annoiato e il superbo che fece da bollettino meteorologico per un’ottima serata di bufera. O per il mio definitivo deperimento nervoso.
“Buonasera, signori” miagolò questi quando li raggiungemmo, appoggiando il calice per alzarsi e rivolgere a mia moglie un sorriso che avrebbe potuto seriamente fare invidia allo Stregatto di Carroll. “Signora Watson…”
“Oh, la prego. Mi chiami Mary. Lei deve essere…”
“Holmes. Mycroft Holmes. La sua voce è ancora più deliziosa dal vivo, così come la sua bellezza” disse Mycroft, esibendosi in uno stomachevolmente britannico baciamano che fece arrossire Mary e raccapricciare il sottoscritto.
“È davvero un piacere conoscerla, signor Holmes” sorrise Mary, rivolgendomi poi uno sguardo semplicemente estasiato. “Non è galante, tesoro?”
Scrutai il maggiore degli Holmes con tutto il biasimo che riuscii a racimolare, biasimo che, tanto per non perdere l’abitudine, si andò ad infrangere sul quel dannatissimo muro di denti perfetti e apatia frantumandosi come porcellana cinese sbattuta con forza sul duro cemento armato, ancora una volta.
“Sono commosso.”
“Suvvia, dottore. Non capita tutti i giorni di avere il piacere di conoscere la moglie di un vecchio amico” ammiccò dandomi una pacca sulla spalla, e ci invitò a prendere posto volgendosi poi ancora una volta verso Mary indicandole l’uomo al suo fianco. “Conoscerà già l’ispettore Gregory Lestrade, presumo.”
“Oh sì, ed è stato davvero gentile a darci uno strappo dall’aeroporto all’albergo” rispose mia moglie.
“Sciocchezze” disse Lestrade in un’alzata di spalle. “Questo ed altro per un reduce dell’esercito di Sua Maestà e la sua famiglia.”
“Davvero straordinario,” intervenni, sfiorando in punta di polpastrelli l’infinita ed imbarazzante serie di forchette e coltelli disposti in perfetta simmetria ai tre lati del piatto “e curioso, anche. Perché ero convinto di aver prenotato in un tre stelle appena fuori dal centro e, invece, eccoci qui. Champagne, argenteria francese e papillon ovunque si posi lo sguardo.”
La cristallina risata di Mary fece da preambolo a quella più mesta dell’ispettore, mentre Mycroft Holmes rimase trincerato dietro alla sua abituale maschera di gesso e ipocrisia senza alterare il saldo ed impenetrabile permafrost del suo sorriso, malinconico ed affaticato dal peso dell’abitudine alla simulazione, al quale io risposi con una quasi impercettibile scrollata del capo.
“A chi ha sofferto è giusto che, prima o poi, venga riconosciuto il legittimo compenso. E tu hai sofferto molto, John, ed è giusto che ti venga dato ciò che meriti. E che vuoi.”
“E cosa voglio, Mycroft?”
Sembrò aprire bocca per replicare ma, a giudicare dal repentino spostamento del suo sguardo dai miei occhi a qualcosa di evidentemente più interessante alle mie spalle, potei facilmente dedurre che quell’ennesimo sorriso sibillino, e anche un po’ malizioso, potesse bastarmi più di qualsiasi risposta.
Non fu necessario per me voltare del tutto il busto per riconoscere la mano che si andò a posare con la leggiadria di un uccellino che torna al proprio nido sulla mia spalla, l’ampio palmo premuto delicatamente contro la scapola. Mi bastò infatti reclinare un poco il capo e così salutare con la coda dell’occhio quelle dita affusolate da violinista e impetuoso amante che in quel momento avrei tanto voluto sentire a contatto con la mia pelle, sotto la giacca e la camicia, via da quella sala, da tutta quella gente, sentire accarezzarla, pizzicarla, graffiarla, firmarla con l’inchiostro del proprio dominio su di un’anima che reclamava a gran voce la gemella.
“Signora Watson, posso presentarle mio fratello, Sherlock Holmes?”
Mary rivolse al detective uno di quei sorrisi gentili e terribilmente spontanei che, da donna sostanzialmente buona ed incline ai rapporti umani, riservava a tutti quelli che prima o poi, nel bene e nel male, avrebbero fatto parte della sua vita.
Allungò una mano verso Sherlock il quale, prima di sedersi, ricambiò il gesto accompagnandolo da un debole cenno del capo, abbassandolo garbatamente a mo’ di inchino. Dopotutto, era sempre un Holmes.
“Salve. Mi chiamo…”
“Mary Morstan. Lo so.”
E come tale, un Holmes non poteva certo esimersi dal mettere in imbarazzo la gente.
Si sedette al mio fianco senza neanche salutare né suo fratello né l’ispettore Lestrade che intanto si era versato un altro generoso bicchiere di Champagne.
“È molto più famosa di quanto crede, signora Watson” rattoppò Mycroft, alzando poi una mano per chiamare il cameriere che arrivò tempestivamente accompagnato dai menu e da tutta la sua boria francofona.
“Dovrei sentirmi onorata per questo?” rise nervosamente Mary, il disagio fatto persona.
“Lei cosa dice?”
“Beh, dipende dalle motivazioni per tale notorietà.”
“Mi sta chiedendo la natura della sua reputazione?”
“Lei cosa dice?”
Il leggero colpo di tosse che a quel punto ritenni necessario simulare rammendò l’inquietante silenzio che si stava man mano ergendo come un muro d’invalicabile incomunicabilità tra le nostre persone, ognuna molto impegnata a farsi letteralmente i fatti propri: l’ispettore, assorto nella contemplazione delle bollicine danzanti nel proprio bicchiere sempre troppo pieno, Mycroft in quella del volto di Mary per la quale l’aggettivo “turbata” sarebbe scaduto nell’eufemismo, Sherlock piuttosto preso dallo sbriciolamento del tappo di sughero con la forchetta da dolce, e poi… beh, e poi c’ero io. Quello che non ci stava capendo nulla ma, forse, l’unico ad essere davvero consapevole dell’incredibile presa in giro che si stava rivelando quella cena, se di cena si potesse parlare visto e considerato che Mycroft aveva poi ordinato strane cose francesi con nomi imbarazzanti e un olezzo non particolarmente invitante di cui io e mia moglie non toccammo quasi nulla, imitati dal resto della compagnia. In effetti fu piuttosto costruttiva, come serata: Lestrade fece fuori due bottiglie di vino, Sherlock i relativi tappi e Mycroft, tra un pugno di caviale e qualche foglia d’insalata, non poté sottrarsi da fare il terzo grado a Mary che, ormai, sopravviveva di monosillabi e stiracchiati sorrisi.
Fu solo al momento del dolce che mia moglie e Sherlock riuscirono a scambiarsi qualche parola, dato che Mycroft sembrava particolarmente concentrato sul suo rettangolo di meringata al cioccolato e dunque non più così propenso ad aprire bocca se non per masticare.
“Ma mi dica, signor Holmes. Che lavoro fa?” chiese Mary al detective.
“Collaboro con Scotland Yard quando la polizia brancola nel buio. Il che succede quasi sempre” disse con fare annoiato raccogliendo i miseri resti di sughero nel piatto, rimasto vuoto per tutta la serata.
L’ispettore Lestrade si limitò a sorridere e a scuotere il capo, lo sguardo lucido perso nel fondo del bicchiere stranamente vuoto davanti a sé. L’avevano appena insultato ma a quanto pare, anche se non avesse bevuto così tanto, non era tipo da prendersela per certe cose, soprattutto se provenienti dalla bocca di Sherlock Holmes. O lo si odia o lo si adora. O si impara a sorvolare su certe affermazioni o direttamente lo si strozza.
“Oh, dunque è un detective” esclamò Mary incuriosita.
“Consulente detective.”
“Non pensavo che ne esistessero.”
“Infatti l’ho inventata io questa professione.”
“Deve essere interessante.”
“Sicuramente molto più stimolante di quella del libraio.”
Dalla voce del mio compagno, oltre che alla sua universalmente nota insofferenza mescolata ad una buona ed altrettanto risaputa dose di arroganza, traspariva anche una certa sfumatura di malinconia che, ovviamente, colsi al volo. Per questo non mi scomposi più di tanto a quella provocazione gratuita nei confronti di mia moglie, la quale semplicemente impietrì di fronte a quello sguardo grigiazzurro, raggelato e raggelante, costantemente distolto dal suo, quasi avesse il timore di leggerci dentro tutti i suoi fantasmi e peccati.
“Basta parlare di lavoro” m’intromisi, prendendo la mano di Mary. “Tesoro, gradisci il dolce?”
“John, gli hai detto del mio lavoro?” mi domandò ritraendo la mano, il volto impallidito e un’espressione al limite della mortificazione.
“Io...”
“Non è stato necessario,” intervenne Sherlock “e neppure così difficile da dedurre.”
“Dedurre?”
Il detective alzò lo sguardo al soffitto e sospirò, assumendo quell’atteggiamento che conoscevo più che bene, da maestrina in procinto di tenere la sua interessantissima lezione su quanto le persone siano indicibilmente mediocri ed assolutamente indegne della sua considerazione.
“Ha una cultura generale piuttosto vasta a giudicare dagli argomenti affrontati stasera, quindi è una che legge, spesso, sicuramente anche perché costretta per motivi di lavoro. I piccoli tagli sul pollice e l’indice della sua mano destra, oltre a dirmi che è destrorsa, denotano una certa frequenza nel maneggiare libri, dettaglio che facilmente si potrebbe confondere con l’abitudine di lavorare con molta carta di qualsiasi segretaria o addetta alla burocrazia, se non fosse per il fatto che non potrebbe fare né l’una né l’altra professione per la semplice ragione che è già tanto che si possa permettere un viaggio di nozze in un albergo di periferia, aiutata da un marito con un impiego di subalterno in uno squallido ambulatorio medico, non proprio il primario di un grande ospedale dunque…”
Il classico calcio sotto il tavolo partì spontaneo, e badai di utilizzare la gamba buona, quella più forte, affinché facesse più male. Non batté ciglio. Piuttosto mi trafisse con uno sguardo ai limiti dello spietato, svuotato di tutto il calore che soleva darmi il benvenuto ogni qualvolta mi soffermassi a guardarlo negli occhi. E fu come una secchiata d’acqua gelata, inspiegabile tortura e pugnalata alle spalle tutto in una volta a cui non seppi come reagire, svuotato anch’io da qualsiasi motivazione per fare qualsiasi cosa che non fosse fissarlo e con gli occhi chiedergli pietà per quella donna, lei, così fragile e così ignorante di tutto, di lui, di noi, innocente come un candido agnellino spedito al macello.
Persino Mycroft adesso ci guardava, distante, un pezzo di meringata infilzata nella forchetta tenuta a mezz’aria, lo sguardo di ghiaccio saettante dal volto contratto del fratello al mio, semplicemente paralizzato dalla vergogna per me stesso, ed infine a quello di mia moglie, una maschera d’afflizione.
Di nuovo quel silenzio tombale ricadde pesante sul tavolo, almeno fino a che Mary, arricciando le labbra sottili come ogni volta prima di scoppiare in uno dei suoi ormai più che frequenti pianti disperati, rivolse a Sherlock le sue ultime parole prima di alzarsi e congedarci.
“È davvero notevole, signor Holmes, la sua capacità di leggere le persone senza neanche conoscerle, giudicarle… Ma sinceramente non vedo il motivo per cui io e lei dovremmo continuare questa conversazione dato che è palese che io non le piaccia non avendomi rivolto la parola per tutta la sera ed uscendosene adesso con questo mirabile exploit. E non serve certo essere lei per dedurlo, questo.”
Detto ciò, gettò il tovagliolo che teneva appoggiato al grembo sul tavolo, ringraziò Mycroft per la cena e poi si allontanò, sparendo oltre la porta del ristorante senza rivolgermi nemmeno uno sguardo.
Mi sentii morire, letteralmente. Sapevo che sarebbe stata una pessima idea permettere che si incontrassero, e mi rimproverai per aver accettato anche solo di provare a vedere come andava, uno stolto che chiude in una gabbia un gatto selvatico con un pastore tedesco, sedendosi e stando a guardare cosa succede.
Guardai Sherlock come solo si potrebbe guardare un bicchiere rotto sul pavimento di cui non si osa raccogliere i frammenti per timore di tagliarsi. Ma ormai ci stavo facendo il callo, a quelle cicatrici, dunque cosa avrebbe mai potuto significare un altro sfregio? Solo la riconferma, per me, che sbagliando non si impara un cazzo.
“Complimenti. Complimenti davvero, Sherlock” dissi solamente, e anch’io mi alzai abbandonando la comitiva, senza però ringraziare nessuno, anzi rivolgendo a Mycroft la più amareggiata delle occhiate.
Non c’era niente per cui avrei potuto, dovuto ringraziare, nessuno a cui essere grato se non a me stesso per essermi scavato la fossa da solo e aver poi affidato la pala ad un becchino che gioca a fare l’investigatore per ricomprimi di sensi di colpa e piantarmi nel cuore il fiore del suo amore di plastica.

“Mary?”
Raggiunsi mia moglie in camera nostra dove la trovai distesa sul letto a singhiozzare, e mi ricordò tanto una delle adolescenti di quegli stupidi telefilm americani, quelli che gli stessi adolescenti si guardano al pomeriggio come fossero il foglietto illustrativo di come affrontare le relazioni sentimentali, abbandonata sul letto della propria cameretta in lacrime per l’ultimo stronzo che l’ha piantata in asso.
E, beh, nella vita vera lo stronzo si avvicina ma non fa niente di sentimentalmente prevedibile, come sedersi sul letto, accarezzarle la schiena e dire che va tutto bene. Perché non andava tutto bene, e lo stronzo non era un adolescente ma un uomo di quasi quarant’anni con un peso non da poco sulla coscienza, una moglie, neanche lei più così teenager, che stupida lo era fino a un certo punto, e il pettine cominciava ad incontrare tutti i nodi che io, lo stronzo in questione, ancora mi stavo illudendo di sciogliere. Non c’era spazio per essere sentimentali, per le cose che i giovani fanno tipo chiedersi scusa per poi fare l’amore tutta la notte. Ero cenere.
“Mary.”
“Lasciami sola, John” gemette, la faccia affondata nel cuscino umido di lacrime.
“Devi perdonarlo, Sherlock… è così. Non sa starsene zitto.”
“Oh, ma tu lo sai fare benissimo invece!” urlò, mettendosi seduta. “Startene zitto…”
“Cosa?”
“John, io ti stavo aspettando. Stavo aspettando che tu mi difendessi, che gli domandassi come diavolo si permetteva di dire quelle cose, di mettermi in imbarazzo… Tua moglie! Hai lasciato che mi umiliasse, davanti a tutti. Anche davanti a te.”
Sì, l’avevo permesso. Non avevo detto niente, non avevo fatto niente, come ogni volta succedeva con Sherlock. L’avevo lasciata da sola, io, suo marito, il suo carnefice.
Mi sentivo morire. Volevo affondare, in quegli occhi, e farne riemergere un affetto che stavo guardando sbiadire dietro le quinte delle mie convinzioni, una tra tutte quella che fossi un ottimo attore. Ma mi sbagliavo.
“Non è come sembra.”
“E com’è, John? Com’è?”
Non potevo sopportare oltre quello sguardo addosso, congestionato dal dolore e traboccante di domande senza una giusta risposta, non quella che si aspettava comunque.
Gettai il mio a terra e sospirai, perché neanche io sapevo come dirglielo, com’era. Sapevo solo che il capolinea si stava avvicinando e che mi ero allontanato troppo da casa.
“Io… io ho bisogno di un po’ d’aria” esalai, portandomi una mano tra i capelli.
“Lo credo anch’io.”
La guardai alzarsi da letto e sedersi davanti alla specchiera, cominciando a togliersi gli orecchini e a trafficare con i vari prodotti struccanti. Quando cercai ancora uno sguardo che però mi vidi negare, presi la giacca e di nuovo la porta, sulla soglia della quale mi fermai un attimo senza osare voltarmi prima di lasciarmela alle spalle, le guance macchiate di mascara e delusione.
“Non aspettarmi alzata.”
“Non ti preoccupare. Ci sto facendo l’abitudine, a non aspettarti più.”

Camminai per ore, quella notte, e ad un tratto m ritrovai a pensare alla mia strana ossessione per le parole crociate.
Nell’enigmistica uno ci perde la testa, sapete? Compri un giornale, lo leggi, e poi ti accorgi che le ultime pagine sono dedicate ai vari sudoku e alle parole crociate, quando va bene. Perché a volte pubblicano solo quelle tremende freddure in puro stile inglese che sinceramente ti strappano di dosso la voglia di stare al mondo, o le solite raccapriccianti pubblicità degli aspirapolvere.
Ma, tornando alle parole crociate, inizia come una piccola sfida, che ne so… mentre sei in metropolitana, o in coda alle casse automatiche del supermercato. Poi, diventa abitudine, e dopo ancora una piccola mania, sfociando infine nella più divorante delle assuefazioni. È disarmante quando non si riesce a completare uno schema, quando ti manca sempre quella bastardissima manciata di lettere per cui non trovi l’incastro giusto. O di numeri, se preferite la matematica.
È mancanza, la dipendenza. Mancanza e costante ricerca di una soluzione che molto probabilmente non troverai mai, non se continui a rimuginarci giorno e notte. Perché è così che funziona con gli enigmi, con qualsiasi enigma: più ci rifletti, più ti ci scervelli sopra, meno sembra sbrogliarsi.
Per questo amo le passeggiate, anche notturne, all’aria aperta in una grande città. Sei circondato di persone, perplesse come te, di auto di fretta a qualsiasi ora del giorno, di edifici su cui si specchia la tua espressione oberata di problemi e rughe sulla fronte per il tanto riflettere ed interrogarsi. È rinfrescante, sia per il corpo che per la mente, passeggiare e inspirare ossigeno e un po’  di sano smog. Ti riporta indietro alla realtà e, sapete che succede? Che quella parola, o quell’operazione aritmetica, ti rincorre, saltandoti addosso come la più illuminante delle rivelazioni, implorando di tornare indietro sui tuoi passi.
Per questo non ci si deve spaventare se capita di doversi imbattere in strani individui che nei posti più impensati, quando meno ce l’aspettiamo, saltano su dal nulla urlando “Bolena! La Anna che perse la testa per un Enrico è Bolena!”.
Tutto questo per dire che mi ritrovai a pensare alle parole crociate, mentre camminavo nel buio di una strada sconosciuta, ferito da qualche sporadico lampione o dalla scritta di un solitario nightclub, le mani sprofondate nelle tasche. E lo vidi.
Un uomo, vestito con un giubbotto in pelle nera e un paio di jeans scuri, piuttosto alto e robusto, i capelli corti di un biondo quasi diafano che risplendevano come spighe di grano alla luce bianca di un distributore automatico di preservativi, giusto in fondo al vicolo in cui mi ritrovai senza sapere perché le mie gambe mi ci avessero condotto.
Cosa c’entrano le parole crociate, qui? Niente. Nessuna illuminazione o rivelazione in particolare. Me la stavo semplicemente facendo sotto e questo è quanto.
L’uomo fumava e, quando mi notò, gettò il mozzicone a terra calpestandolo con la suola di uno degli anfibi che indossava, un modello a me vagamente familiare, molto simile a uno di quelli che ci passava l’esercito insieme alla divisa e alle solite raccomandazioni di portare onore alla patria.
Mi resi conto di essermi immobilizzato proprio all’imboccatura della strettoia, davanti a me lo sconosciuto che cominciò ad avanzare con passo lento ma deciso, e dietro una più che possibile via di fuga verso la strada principale, popolata di macchine e passanti.
Questo è il vantaggio delle grandi città: avere una seconda possibilità e scegliere sempre quella meno vantaggiosa per la tua incolumità.
L’acre odore di fumo mi pizzicò le narici assieme ad un aroma anonimo. Forse benzina, o qualche strano miscuglio alcolico. Non mi piaceva per niente.
“Non scappa?” mormorò l’estraneo a pochi metri da me in un mezzo sorriso, e si accese un’altra sigaretta.
Accento ed atteggiamento tipicamente britannici. Stomachevole.
“Dovrei averne il motivo?”
Usò uno di quegli accendini placcati con lo sportellino, quelli massicci che si chiudono a scatto producendo un inquietante rumore metallico. La carta della sigaretta si bruciò in fretta, all’estremità, per via del profondo respiro che l’uomo prese inalando quanto più fumo possibile per poi soffiarmelo direttamente in faccia, investendomi con un’ondata di olezzo agrodolce e decisamente fastidioso. Doveva esserci tagliata altra roba, lì dentro, assieme al semplice tabacco.
“Non ha paura che possa derubarla o infilarle qualche ago nel collo?”
“L’avrebbe già fatto. E poi non ho niente a cui uno che possiede un accendino come quello potrebbe essere lontanamente interessato.”
L’uomo rise, sinceramente divertito da quelle mie parole, e si fece un altro tiro prima di rispondere, uno strano scintillio negli occhi verde petrolio, puntati sui miei come quelli di un bracco a caccia mentre avvista la preda.
“È coraggioso, glielo concedo. E sveglio. Mi chiedo da chi abbia imparato.”
“Talvolta il coraggio è solo sinonimo di stupidità.”
“Così si dice. Io credo invece che coraggio, intelligenza e sì, perché no, anche un pizzico di follia siano il cocktail perfetto per fare l’uomo perfetto. Non crede anche lei?”
Non so se per l’improvvisa sferzata di vento gelido o se per quello sguardo, altrettanto pungente, rabbrividii. Non mi ispirava niente di buono, quella persona, e per me avrebbe potuto benissimo essere un qualsiasi drogato in cerca di soldi per una dose che non si poteva permettere o il peggior criminale del ventunesimo secolo che, pensai, non me ne poteva importare di meno.
Che diavolo stavo facendo? Ah sì, mi stavo cacciando nei guai, ancora. E in quel momento avrei tanto voluto che la mia gamba facesse un po’ più male.
“Quello che credo, gentile signore, è che sia molto tardi e che è stato davvero un piacere parlare con lei di aghi, persone che fanno cose stupide e cocktail, ma adesso devo proprio tornare in albergo” dissi, e feci per voltarmi.
“Così presto? Ma abbiamo appena iniziato.”
Pronunciò queste parole lentamente, poco più che un sussurro, mentre altrettanto lentamente si avvicinava portandosi alle mie spalle, bloccandomi così l’unica via di fuga possibile.
“Senti,” sospirai, decisamente sotto pressione “dimmi cosa vuoi e finiamola qui.”
“Il problema non è cosa voglio io. Il problema è cosa vuoi tu, John.”
Uno scatto, un più che familiare click metallico, e la punta circolare di un oggetto premuta al centro esatto della mia nuca: ora si che ero più tranquillo.
“È una pistola, quella?”
“Marushin NBB Sturm Ruger Mk. 1, silenziatore integrato. Preferisco le canne lunghe ma è pur sempre la mia bambina. Nikita, l’ho chiamata.”
“Tanto piacere.”
“A questo punto dovrei dirti di alzare le mani, minacciandoti di aprirti in due il cranio come un melone e di lasciarti a marcire qui, in questo vicolo, dove ti troverà qualche barbone come in uno di quegli agghiaccianti film d’oltreoceano…”
“Perché ho la netta sensazione che non lo farai, invece?”
Sicuramente, pensai, quello strano formicolio che cominciò a solleticarmi la base del collo era dovuto al sorriso maligno che, nonostante non lo potessi vedere in faccia, giurai si fosse appena stampato sul volto squadrato del mio aguzzino, deformandoglielo in una specie di sfregio di guerra.
“Perché sono un gentiluomo e il mio compito non è quello di ucciderti. Per ora” mormorò, spostando la canna della pistola dalla testa alle prime vertebre cervicali.
“E qual è il tuo compito, soldato?”
“Soldato?”
“Avanti. Il taglio dei capelli, la mano straordinariamente ferma, le tue scarpe, l’assoluta indifferenza verso la possibilità di stroncare una vita umana… Stai prendendo in giro la persona sbagliata. Afghanistan o Iraq?”
Silenzio. Uno straziante, demotivante, immenso silenzio di cui mi macchiai io stesso quando mi venne posta la stessa domanda, a suo tempo.
Abbassò l’arma e fece il giro per poter tornare a guardarmi negli occhi e sussultai quando mi accorsi della dimensione della pistola, la canna lunga e grigia del silenziatore, la sicura disinserita. Faceva sul serio. E anch’io.
“Afghanistan. Colonnello Sebastian Moran, cecchino.”
“Afghanistan. Capitano John Hamish Watson, medico militare e fuciliere.”
Sebastian ridusse il suo sorriso spavaldo a poco più che un taglio netto al centro del viso che, se osservato meglio e da vicino, presentava diversi segni che mi confermavano le sue parole, uno più profondo degli altri appena sotto l’occhio destro, sullo zigomo, un lembo di pelle rialzata e malamente suturata che gli arrivava fino all’orecchio costringendolo a tenere leggermente più sollevato un angolo della bocca in un perenne ghigno di dolore.
Il deserto era di nuovo tra noi.
“Vattene, dottore” disse all’improvviso, dopo avermi guardato senza dire altro per una decina di secondi.
“Tu conoscevi il mio nome ancora prima che mi presentassi. John.”
Grugnì e mi diede repentinamente le spalle. Se ne sarebbe andato se non avessi raccolto tutto il mio coraggio e non gli avessi messo una mano sulla spalla.
“Aspetta…”
“Vattene, ho detto!” ringhiò, scostandosi bruscamente da me.
“Perché?”
Incredibile come un uomo possa cambiare atteggiamento così repentinamente passando da un potenziale assassino a… uno qualunque, incontrato in un vicolo buio con un arsenale militare sotto il giubbotto.
Sembrava turbato, abbattuto e tremendamente diviso tra il senso del dovere e una qualche sottoforma di coscienza, riaffiorata chissà da dove, chissà come, da uno degli angoli più oscuri di un cuore ridotto in cenere.
“Perché?” ripetei “Me lo devi.”
“Io non devo niente a nessuno se non a me stesso.”
“Sebastian…”
Si voltò verso di me, lo sguardo basso, la pistola ancora in mano, e tutto il buio di Ginevra sembrava che gli si fosse trasferito negli occhi, quei due smeraldi tinti di nero e di tutto il male che solo un altro soldato potrebbe sopportare senza svenirgli di fronte, la testa tra le mani mentre piange tutte le lacrime che gli sono rimaste.
“Non sono una buona persona, John” disse, e mise la sicura all’arma prima di riporla dentro alla giacca dalla quale trasse fuori una terza sigaretta. “Fumi?”
“No, grazie.”
“Certo. Sei passato dalla parte dei buoni, adesso” sospirò sputando a terra il mozzicone che aveva ancora tra le labbra ed accendendosi quella che mi aveva appena offerto.
“Non c’è nulla di particolarmente buono in me. Come credo che non ci sia nulla di particolarmente malvagio in te.”
“Ottimista.”
“Realista. A tutti viene concessa una seconda possibilità.”
Sebastian tirò forte, tanto forte che quasi non si fece fuori mezza sigaretta in un tiro solo. Poi chiuse gli occhi, le labbra semiaperte, trattenendo il respiro. Ed io con lui.
“La mia, sempre che ne abbia mai avuta una, me la sono fottuta al rientro in patria, capitano” esalò, facendo fuoriuscire il fumo in parte dalle narici, in parte dalla bocca sottile. “Solitudine, fantasmi, conoscenze sbagliate, una grande abilità nell’usare il fucile, troppi grammi di neve… Sai com’è.”
“No, non so com’è.”
“Già… Non puoi saperlo. Hai una moglie che ti vuole bene, un buon lavoro…”
“Come fai a sapere che sono sposato? Chi ti ha dato tutte queste informazioni sul mio conto?”
“Non lo vuoi sapere.”
“Non sto aspettando altro, in realtà.”
“John, fidati. È stato uno sbaglio venire qui.”
“Io sono in cerca della verità.”
“No, tu sei in cerca della signora incappucciata con la falce, te lo dico io.”
“Non ho paura.”
Scosse la testa ridendo mestamente, fece altri due tiri e poi si soffermò ancora un istante sui miei occhi, che non si erano mai scollati dai suoi, prima di sparire nell’oscurità portandosi dietro il suo segreto.
“Ne avrai.” 







Note:
(14) nel linguaggio dei fiori, la camelia simboleggia il sacrificio, in particolare il pegno per il sacrificio d'amore. Lo trovo piuttosto adatto come fiore per Mary. Voi no?







Author's Corner:

Salve salvino caro fandomino! *si automartella le dita*
Mi scuso per la lunga attesa di due settimane rispetto ai soliti sette giorni per il tredicesimo capitolo. E' stato... impegnativo. E spero che piaccia.
Forse il prossimo sarà l'ultimo. Di idee ne ho tante ma non riesco a fare pace con il mio cervello. Ha cominciato lui.
Aspettando di leggere cosa ne pensate, vi saluto e vi do appuntamento al prossimo capitolo.

miss potter
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