FOTOGRAFIA
Lo trovai con la schiena poggiata su un muro della fabbrica dismessa. L'edera che cresceva alle
sue spalle fremeva nel vento, balzando indispettita ai miei occhi stanchi.
Sembrava lo scenario di una recente fucilazione e lui, seduto a terra, era parte integrante di quel
lugubre quadro.
Nessuno poteva dire quando le pennellate di quel triste panorama fossero state stese.
Era una fiera di selvaggina. Le oche starnazzavano su quel terreno abbandonato, vagavano inermi,
qualcuna colpita dal calore di bacco e altre, semplicemente, dalla luce del tramonto. I cocci di vetro
scuro, che non avevano intenzione di riflettere i colori del cielo, si adagiavano acuti e pericolosi
sulle pietre polverose, e dalla sua casacca, sul punto dove il battito del cuore era stato sospeso, un
rivolo di vino opaco sgorgava senza vita.
Non ci furono belle parole di benvenuto, né tanto meno sospiri infatuati. Come due sconosciuti ci
fissammo con occhi vitrei, io ospite del suo nuovo mondo.
Senza dire una parola, mi voltai e proseguii lungo la mia strada, lasciando il suo corpo immobile
in mano al fato.
Forse, a pensarci ora, quel che mi mosse fu il timore di intaccare la meravigliosa malinconia di
quella fotografia.