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Autore: CleaCassandra    11/11/2007    3 recensioni
Frances, una vita fuori dall'ordinario, e una persona speciale, reincontrata dopo anni.
Diciamo pure che non sono brava a fare riassunti, spero solo vi piaccia.
attention please: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone di cui parlo (ma magari li conoscessi di persona ;O;), nè offenderle in alcun modo...beh, insomma, era una precisazione necessaria u_ù
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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chiedo perdono, quest'università mi sta succhiando via il cervello ;__;'' e poi son stata due settimane via da casa, comunque adesso c'è un capitolo nuovo tutto per voi che leggete *O*

Cap. 27 - About Leaving

Sono partita per il nostro tour europeo senza nemmeno chiarire con Frank. Una vigliaccata, la mia, visto che inconsapevolmente aveva ragione lui, però non riuscivo, e non riesco a mandare giù tuttora, il fatto che mi abbia rivolto delle parole così cariche di odio per una cosa che nemmeno ha visto.
Ancora una volta non c'era, a toccare con mano il mio disagio. A osservare bene il grado di decadenza a cui può giungere un essere umano. Non pretendo che mi capisca, perché spesso faccio fatica anche io a stare dietro a questi ragionamenti pregni di autocommiserazione e debolezza, ma che almeno, ecco, non mi venga a dare della stronza così, a casaccio. Oddio, non molto a casaccio...insomma, anche il mio astio non regge, e Keith se la ride, vedendomi così, a vaneggiare su chissà cosa e insultarmi da sola a voce alta nel bus, mentre Dave bofonchia che vuole dormire, e che non devo rompere i coglioni. Parole testuali.
Io non devo mai rompere, secondo la sua logica. La cosa, se prima mi infastidiva, adesso mi fa solo ridere. Un riso amaro e rassegnato all'idea di non sapere mai cosa gli stia passando per la testa, perché anche in preda ai fumi dell'alcool non s'è minimamente sbottonato, la notte di capodanno. Confermatomi a due voci, in coro, con mille scuse, sia da Keith che da Alice.
Ha suonato una padella, scambiandola per il suo basso, ha ballato sui tavoli e iniziato a imprecare in uno stentatissimo, quanto comico italiano (reminiscenze di quando stava con quella tizia, sì, insomma, quella che mi ha insegnato a cucinare la pasta. Sempre lei.), ma non ha detto niente di quella faccenda.
Niente di niente.
In vino veritas. Ma andate a fanculo, latini del cazzo.
O forse non ha davvero nulla da dire. O forse non era ubriaco, ha fatto soltanto finta. O forse...o forse basta, Frankie.
Sono passati diversi giorni ormai, da quando sono partita. Dal tre gennaio. Nemmeno ci penso, a telefonargli. Che ci pensi lui, mi dico, in preda all'orgoglio più cieco e stupido. Nel frattempo suono, e suono come mai in questi ultimi mesi ho fatto.
Bene. Fottutamente bene.
La chitarra è un prolungamento del mio corpo, e le mie dita scorrono, a volte armoniose, altre rabbiose, altre ancora malinconiche, ora decise e ora delicate, come il tocco di un vetraio con le sue creature. Minuzioso e colmo di amore.
Io amo le mie chitarre. Le amo come la cosa più preziosa di cui sono in possesso, come i tramiti tra il talento e la sua messa in pratica, come le artefici di quello che sono, e quello che faccio per vivere. Quello che vivo per fare.
Suonare, e non mi importa se tra pochi amici o davanti a una folla oceanica, non mi importa, giuro. É la musica, quella che conta.
Sto imparando ad amare anche la mia voce, a curarla come si fa con una piantina debole, a portarla il più in là possibile, a farle esplorare mondi che mai ha visitato.
La amo, perché è debole anche lei, sfiancata, ma stoica, a volte flebile, e a volte così profonda da far venire la pelle d'oca alta due dita anche a me che la tiro fuori sforzandomi come in un parto.
É l'anima, che straripa all'esterno.
Quello che ho da dire al mondo, serio o meno che sia, doloroso o faceto, amaro o ironico.
O tutte queste cose insieme.
Sono io, in definitiva, sul palco. Niente personaggi, niente maschere da indossare con grazia e disinvoltura, niente movenze da istrione d'altri tempi. Quelle sono cose che lascio fare volentieri a gente che ne ha bisogno per non impazzire, o per affermare un ego che ha paura di calcare un fottuto mucchio di assi e cavi nella sua completa nudità, come le persone comuni di tutti i giorni, quelle che non hanno il bisogno nè l'obbligo di mostrarsi a una folla.
Ma io non sono normale.
Io sono fatta per stare qua sopra a urlare al mondo che fa schifo, e che un po' faccio schifo anche io. Per un fatto di adattamento, immagino.
E la gente, beh, viene ad ascoltarmi, e sembra persino essere d'accordo. Un gran bel traguardo da raggiungere, direi.
C'è solo una cosa che può cambiare il mio modo di vedere le cose, e guarda il caso, quella cosa sta emanando una stupidissima sigla di un abominevole cartone animato.
Keith sta già sfoderando lo sguardo assassino che accompagna alla classica frase "Rispondi, o cambia suoneria!", frase in cui l'unica variabile è determinata dalla quantità e varietà di improperi che riesce a proferire a gola spianata prima che riesca a interrompere quello stillicidio.
"Pronto" borbotto.
"Ehm...ehi, Frankie, sono io...Frank."
La sua titubanza, da bambino timoroso, riesce a strapparmi un sorriso. E a farmi uscire dal bus, in piena notte, una di quelle in cui non suoniamo, una di quelle in cui la luna è lì, appesa nel cielo, rotonda e materna, che ti osserva e approva quell'oscuro sentimento che è il motore della tua vaga esistenza, a prescindere da dove ti porti.
"Ehi, ciao" farfuglio, in evidente disagio.
"Beh, volevo sapere come stai, non ci siamo nemmeno salutati, prima che tu partissi..."
Faccia tosta. Perché hai aspettato così tanto a farti sentire?
Mi sei mancato come l'aria, ma sono troppo orgogliosa per ammetterlo, o per decidere di prendere e chiamarti.
"Sta andando tutto a gonfie vele!" esclamo, cercando di mostrarmi entusiasta solo per il tour. Solo per quello, non montarti la testa.
Anzi, montatela pure, perché è una balla. I concerti sono passati in secondo, terzo, ultimo piano, da quando la tua voce è tornata ad accarezzarmi le orecchie.
Silenzio. Starà aspettando qualcosa? Io aspetto che dica qualche cazzata delle sue.
Ah, ma sono io che devo parlare.
"E...e tu? Le registrazioni procedono bene?"
"Sì...sto bene, anche il disco sta bene, il lavoro grezzo sta per essere inciso, stiamo provando come dannati...sono stanchissimo" risponde, trascinando la sua verbosità come una fila di lumache sotto la pioggia. Riesco a sentire tutta la fatica che lo assale, nel modo insolito in cui dosa le parole. Di solito è un fiume in piena di frasi e movenze; credo che invece, se potessi vederlo adesso, probabilmente gesticolerebbe molto meno dello standard, quasi in un tentativo di risparmiare energie per suonare al meglio.
"E... beh, diciamo che ti ho chiamato anche per un altro motivo..."
"Quale?" chiedo, stupita.
"Ho esagerato, l'ultima volta. Ti ho accusato senza ascoltarti, e non avrei dovuto. Scusami, davvero."
"Ah, no, tranquillo, non c'è problema, credimi! Scusami tu, per averti dato della testa di cazzo e, uh, poi non ricordo più..." rispondo, ridacchiando.
Ride anche lui: "No, direi che non hai calcato la mano più di tanto, con gli insulti..."
Siamo troppo formali, questa telefonata sta assumendo una piega grottesca.
"...uhm, ecco, non dovrei prendermela così, ma ci tengo a te, e lo sai...insomma, non mi importa, cioè, non so se fosse la verità o meno, se sto davvero con una tossica come dice qualcuno, ma se così fosse, ti prego di smetterla..."
"Non posso." rispondo, decisa, senza farti nemmeno finire.
"Come non puoi?" chiedi, stranito.
Aspetta, ti ribadisco il concetto.
"Hai sentito bene. Non posso smettere."
"Mi hai mentito tutto questo tempo, allora?" salti su inviperito.
No, vedi, non ti ho mai detto bugie. Vabbè, meglio esser chiari, QUASI mai.
La questione è un'altra. E tu sei sempre pronto a vederne il lato peggiore, suscettibile come sei.
"No. O meglio, sì. In un certo senso sì, ti ho mentito..."
Taci, poi riagganci.
Frank, accidenti a te e alla tua impulsività! Non avevo finito il discorso.
Ricompongo il tuo numero, e mi rispondi, secco, freddo, bastardo.
Ma stavolta non mi spaventi, non ho la sensazione di stare per perderti, perché non hai ascoltato la parte più importante.
"Sei tu la mia droga, adesso capisci perché non posso smettere?"
Un silenzio sepolcrale riecheggia nell'auricolare.
"Sì, in un certo senso stai con una tossica, una che si farebbe di te fino a farsi scoppiare le vene, e chissà quante altre cazzate potrei dire, ma rovinerei tutto, come al solito, quindi fermami, per favore, o potrei continuare all'infin..."
"Allora siamo due drogati del cazzo, credo."
E ridi, ridi come non ti sentivo ridere da giorni, ormai, felice come un bimbo davanti a ciò che desidera più di ogni altra cosa esistente, e finisci per contagiarmi, e ridiamo assieme, ebbri di quella pura gioia che credevo esistesse solo nei film, o nei libri, in mondi non percorribili fisicamente, che rimangono così, nella testa, come piacevoli idealizzazioni fini a se stesse. Ma ci siamo dentro fino al collo, e forse anche un po' più su, perché è la realtà, e per una volta mi sento di porgere delle tacite scuse al mondo, mormorando nel cervello che non fa poi così schifo, che tutto sommato è un bel posto per viverci, ogni tanto.
Alzo gli occhi al cielo, e la luna è sempre lì, sempre nostra complice silenziosa, sempre presente quando ci riavviciniamo dopo una burrasca, sempre pronta a farsi da parte, riflettendo una luce non sua sui nostri visi provati dal lavoro e da sterili litigi. Da te è giorno, ma non importa. Il cielo è dalla nostra parte, qui col suo scuro splendore, là con la limpida rincorsa delle nuvole nel cielo, bagnate dal calore del sole.
"Sai, qua piove..." mi comunichi, così, dal nulla.
Okay, niente nuvolette bianche spostate dal vento e lambite dal sole. Scherzavo.
"Qui invece il 'soffitto' è sgombro, si vedono un sacco di stelle!"
"Soffitto?!"
"Ma sì, il cielo! Non mi va di chiamarlo sempre con lo stesso nome"
Sento sghignazzare.
"Non è male, come metafora..."
"Eh già" dico, poi sento aprire la porta alle mie spalle, e mio fratello mi scompiglia i capelli con affetto e sussurra di interrompere la telefonata e rientrare a riposarmi, perché domani ci aspetta un concerto denso di aspettative.
"Devo rientrare, scusami! Ci sentiremo ancora, mentre sarò a zonzo per l'Europa?"
"Spero di sì...ma non mi hai detto dove sei adesso."
"Parigi. Ed è meravigliosa, dovremmo farci un giro, sai? Io e te. Da soli."
"Perché no? É davvero bella! Buonanotte, stellina, salutami le tue sorelline lassù sul soffitto!" sussurra, con dolcezza.
"Lo farò senz'altro" rido "buon lavoro, drogato!"
"Ma come, io faccio il carino, ti chiamo stellina, e tu mi dai del drogato?!"
"Per tua stessa ammissione, ti ho solo citato, signor Frankenstein!"
"Okay, okay..."
"Dici che dovrei chiamarti anche io stellina? Anzi, stellino!" rido "Allora, vuoi essere chiamato stellino?"
"No, grazie, meglio tossico, piuttosto...riposati bene, mi raccomando, mia piccola droga..."
"Ti amo." mormoro, quasi senza accorgermene.
"Scusa, scusa, cos'hai detto? Non ho sentito" incalza, sarcastico.
In effetti è la prima volta che me lo sente dire. Cioè, un attimo, rettifico: è proprio la prima volta che lo pronuncio. Non so se riuscirò a dirlo ancora, tanto mi pesano queste due piccole, stupide parole, ma adesso è successo, e non me ne pento. Lui se le merita tutte, dalla prima all'ultima lettera.
"Buona la prima, mi dispiace per te, ma non ripeto!"
"Tanto ti ho sentita!" e fa una pernacchia.
"E allora cosa vuoi che ripeta!"
"Niente, mi piaceva l'idea che me lo ribadissi..." bofonchia, un po' deluso.
"Comunque...anche io..." sussurra, quasi con pudore.
"Ciao" e attacchiamo in sincro, o almeno, mi piace immaginare che possa essere così.
  
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