Al
termine di una lunga giornata, fatta di giuramenti conosciuti, reverenti cerimonie,
e applausi zittiti con discorsi di furia, la casa che lo accoglie era sempre
quella.
Neanche
il tempo di andarsene, e gli era subito corsa dietro.
<<
Purtroppo >>, diceva qualcuno,
un po’ per rabbia, un po’ per delusione, un po’ per far dello spirito,
immaginandoselo così ansioso di sdraio e pantofole, un poveraccio, messo lì a
forza dai soliti incapaci, a cui rivolgere tutta la nostra commiserazione.
Quando
il suo osannato, criticato e ridacchiato rientro era infine dietro le spalle, lì,
in uno tra i tanti, stupendi, corridoi di marmo del Quirinale, ecco che se ne
andava l’ultimo assistente; via ministri, generali, commendatori e giornalisti,
restavano infine solo il presidente e quei due così fidi e così ingenui.
Quelli
di cui era capo indiscusso e per i quali lui ogni mattina si alzava e avrebbe
continuato ad alzarsi dal letto presto ogni mattina.
“Bene,
rieccoci qui.” –esclamò nel silenzio, guardando arredi e candelabri dorati d’intorno,
come recitando l’emozione provata l’altra prima volta.
“Perché
cavolo lo ha fatto?!” –sbraitò quello dei due che più facilmente alzava il
tono- “Cioè, ma chi glielo ha fatto fare?! Perché non li ha lasciati a cuocere
nel loro brodo a quei quattro piantagrane litigiosi che…”
“Romano,
se avessi lasciato loro avrei lasciato anche voi in quello stesso brodo, no?”
“……”
L’altro,
quello pacato, quello che faceva presto ad emozionarsi, non poté che uscirsene
mesto e solidale: “Non è giusto… Lei è anziano, ha combattuto le sue battaglie,
ha svolto il suo dovere e anche bene, ha dato quel che doveva dare, avrebbe il
diritto di riposarsi ora!”
Astio
e pietà, i due volti delle reazioni degli italiani, giusto di fronte a lui: non
per niente l’Italia erano loro appunto, in quei momenti si vedeva benissimo.
“Se
solo non fossimo così… così…” –proseguì Feliciano, per poi fermarsi.
L’altro
chinò la testa insieme a lui: per carattere tendeva a tenerla alta, ma quando c’era
da fare i conti con la realtà era già da tempo, purtroppo, che aveva imparato a
guardare il pavimento.
“Ci dispiace. Come nazione siamo un vero disastro. Diciamo che vogliamo andare
avanti e migliorare, e invece non siamo stati capaci di fare un passo senza di
lei. E ora dovrà restare qui altri sette anni.”
“Feliciano,
è un palazzo e anche molto bello, mica una prigione!”
La
sua battuta fece scappare un sorriso a tutti e due.
“Vero,
volevo ritirarmi e invece mi trovo ancora qui, e un motivo ci sarà no? Se
veramente, in questo momento, non potete fare a meno di me… allora baderò a voi
un altro po’. Di pensioni qui d’intorno se ne elargiscono fin troppo facilmente…”
–strizzò loro un occhio- “Vorrà dire che io me la guadagnerò sul serio.”
Feli
e Romano risero di nuovo: il bello di poter essere in confidenza con le persone
importanti è la soddisfazione di sentirle dire quello che pensano realmente.
Anche se non sempre, sapendo ciò che pensavano realmente alcuni dei loro capi,
veniva loro voglia di ridere…
“E
poi… se non c’è qualcuno un po’ più giovane di questo “vecchio” per tenere il
timone, allora ho una valida ragione per dare l’esempio. Oggi la responsabilità
è una sconosciuta o una lontana conoscente per troppi giovanotti pieni di
energie: qualcuno dovrà pure insegnare loro cos’è il dovere.”
Il
dovere è un ultraottantenne che deve commuoversi in parlamento davanti un
popolo intero per quanto è contento che non si rassegnino a lasciarlo andare.
L’Italia
era abituata ai tempi bui, forse non aveva mai visto che lumicini e penombre al
massimo; ma quando erano davvero pesti come quel periodo, per loro come per
altri, faceva molto piacere sapere di avere ancora qualcosa, o meglio qualcuno,
grazie al quale potersi ancora ritenere una nazione fortunata.
“Io mi ritiro nei miei alloggi, e consiglio anche a tutti e due di andare
immediatamente a letto; oggi ce la siam presi di festa, ma da domani si ricomincia
a lavorare, e sodo. Intesi?”
Conosciuti
da alcuni come scansafatiche per antonomasia, i due sentirono all’improvviso
sonno: una gran voglia di una bella dormita che facesse arrivare presto domani.
Lo
aspettavano da parecchio un domani. Che davvero una guida con così tante rughe
potesse aiutarli a raggiungerlo?
“Buonanotte, signor presidente.” –salutarono.
“Buonanotte
a voi.” –e le sue gambe ripresero il passo.
Personalmente ho salutato l’elezione di
Napolitano, pur non disconoscendo la giusta stima da lui meritata in questi
anni, con scetticisimo e non poca insoddisfazione, come lo specchio di un paese
fossilizzato, incatenato a vecchi schemi, incapace di rinnovarsi ed avanzare.
A mente fredda e con il discorso di oggi
in parlamento dopo il suo secondo giuramento ho iniziato a guardare la cosa da un
altro punto di vista.
Se siamo veramente allo sbando, allora
mai come ora il paese potrebbe aver bisogno di un paio di gambe salde e robuste
persino dopo aver percorso una lunga e degna distanza.
Non voleva tornare, aveva detto che non
lo avrebbe fatto, poteva rifiutarsi di farlo, eppure è andato lì, a giurare e
bacchettare tutti.
A far vergognare un popolo diventato egoista e restio alle responsabilità; a
mostrare a tutti che per il proprio paese non si è mai fatto abbastanza.
La casa a cui è tornato non è il
Quirinale, ma l’Italia, casa non solo sua ma di tutto il suo popolo, che nemmeno
il meritatissimo riposo è riuscito a fargli dimenticare.
Viva il presidente della Repubblica,
viva l’Italia!