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Autore: shevaara    24/04/2013    0 recensioni
Un viaggio nel passato, nei ricordi dolorosi, nel perduto rapporto con il padre
La testa mi doleva, il mondo oscillava, confuso. Davanti a me, unico punto nel vorticante nulla che mi circondava, vedevo un albero ondeggiare dolcemente sotto un vento che non sentivo. La sua ombra cresceva, strisciava sul terreno riarso facendosi densa e melmosa, camminò lenta fino a riversarsi sulla secca ombra della roccia al suo fianco.
Mio padre era lì, seduto contro il masso, onde d'ombra che gli lambivano miti i piedi nudi per poi tornare indietro. Rideva, roco, gli occhi contornati da poche oneste rughe.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'orizzonte era lontano, sottile, un'indistinguibile linea grigia tra l'azzurro limpido del cielo e il marrone polvere del deserto.
Il cielo sopra di me era il più bel cielo che avessi mai visto, chiaro, luminoso, macchiato appena da qualche bassa esile nuvola. Il sole brillava alto a sud. Un sole caldo e cocente, un sole accecante e luminoso come quello estivo che brilla sopra fiori colorati nel pieno del loro splendore. Una giornata di una bellezza invidiabile.
Provai a guardarmi intorno, tentai di trovare un qualsiasi punto di riferimento diverso da quell'impietoso sole. Ma intorno terra secca e sabbiosa, solo alberi magri e bassi dalle sottili foglie seccate dal caldo, cresciuti sporadicamente a ridosso di massi che creavano l'unica mutevole ombra nel raggio di chilometri. Quando mio padre vedeva massi così isolati, così scostanti da qualsiasi altra formazione rocciosa mi stringeva una spalla con la sua salda presa e sorridendo mi diceva che un gigante doveva essersi tolto un sassolino dalla scarpa.
Poi rideva. Un suono così diverso, un suono così roco, l'unico che per me significasse allegria pura, felicità.
L'orizzonte era lontano e grigio, troppo lontano.
Un passo ancora, poi un altro, la terra arida si sgretolò sotto il mio piede.
Il cielo divenne terra, la terra divenne cielo.
La testa mi doleva, il mondo oscillava, confuso. Davanti a me, unico punto nel vorticante nulla che mi circondava, vedevo un albero ondeggiare dolcemente sotto un vento che non sentivo. La sua ombra cresceva, strisciava sul terreno riarso facendosi densa e melmosa, camminò lenta fino a riversarsi sulla secca ombra della roccia al suo fianco.
Mio padre era lì, seduto contro il masso, onde d'ombra che gli lambivano miti i piedi nudi per poi tornare indietro lasciando dietro di se ombra bagnata. Rideva, roco, gli occhi contornati da poche oneste rughe.
Mi alzai a fatica, barcollai lento, ondeggiando verso destra più di quanto volessi. Lo raggiunsi su quel bagnasciuga d'ombra, guardandolo con affetto e stupore.
- Siediti - Mi disse - I Giganti sono stati clementi con noi. -
Con il senno di poi mi rendo conto di quanto tutto ciò fosse illogico, ma allora mi sembrava tutto così reale, così nitido, più veritiero del più veritiero dei sogni. Per un attimo dubitai, allungai una mano verso mio padre, convinto che al mio tocco si sarebbe dissolto in polvere. Poi le mie dita incontrarono la sua spalla.
- Che ci fai qua? -
- Siediti, dai - ribadì lui toccando con una mano il terreno al suo fianco - Quando saremo seduti tranquilli parlerò. Di cose importanti non si parla in piedi, ci vuole calma. -
Un sorriso allungò le mie labbra spaccate dal sole. Mi sedetti vicino a lui, piacevolmente coperto dall'ombra dopo ore passate sotto il sole cocente.
- Cosa ci fai qua? -
Lui non rispose. Guardavo davanti a me, senza fretta, senza preoccupazioni. Guardavo lontano tra il cielo limpido e il marrone polvere.
- E così il piccolo Joshua si smarrì nell'oscura foresta nera... - L'intonazione della sua voce mi ricordò quando recitava per me le fiabe dei fratelli Grimm, d'estate, quando aspettavamo che le ore più calde passassero.
Mi voltai a guardarlo. Lui era rilassato, seduto composto e dritto, il viso sereno.
- Non siamo in una favola... -
- Fatto sta che ti sei perso -
Sorrisi. L'ombra mi arrivava ormai alle caviglie, rinfrescandomi piacevolmente.
- Come me ne vado di qua? -
- Non lo so, piccolo mio. Non ne ho idea -
“Piccolo”. Mi aveva sempre chiamato così, anche quando me ne ero andato.
- Questo è un posto infido, incredibilmente infido. Qui tutto è uguale, tutto è irraggiungibile, tutto è mutevole e dannatamente infido. -
Scosse la testa, e poi con disappunto si colpì la coscia con il palmo.
- Dannazione, mi vuoi dire che ci sei venuto a fare qua? -
- Faccio il fotografo ora - dissi - Freelancer - specificai.
- Dev'essere bello. Pericoloso, ma bello -
- Molto bello - Gli risposi con il sorriso - E anche molto pericoloso -
- Sono felice che tu abbia trovato la tua via, infine -
E anche se in una frase del genere anni fa avrei trovato velate accuse, ora vi sentii solo affetto.
- Si, ho penato, ho faticato, ma ho trovato la mia strada. Sono felice di quel che sono diventato. -
- Bene -
E poi scese il silenzio. Un silenzio colmo di frasi interrotte, senza neanche la volontà di cominciarle, colmo di anni passati lontano, nella reciproca indifferenza.
Mio padre strinse le sue forti mani, piene di calli, rese dure dal lavoro di anni.
- Mi odi? -
Odio. Quanto ne avevo sventolato davanti al suo viso contratto da rabbia e tristezza. Quanto ne avevo tenuto dentro in quelle lunghissime sere prima di prendere quella dura, giusta, decisione.
- Non lo so. Forse non più. -
Non lo avevo mai ammesso, mai, con qualcuno o anche solo con me stesso...
- Ti ho fatto soffrire, forse più di quanto abbia sofferto io - La sua voce tremava.
Sofferenza. Ogni volta che mi chiedevano dei miei genitori, che mi chiedevano se erano d'accordo, se sapevano quello in cui mi stavo cacciando.
- No - L'ombra mi lambiva i polpacci, l'albero che ne era fonte e protettore che si ingrandiva sotto il sole. - È stato doloroso per entrambi -
Lui annuì, serio e sereno al tempo stesso, guardandosi le mani.
- Da quando Annah è morta nulla è stato più lo stesso -
Nonostante una calma buia e densa come l'ombra mi pervadesse, il nome di mia madre portò agitazione nel mio cuore.
Mia madre era stata il fulcro della mia vita e di quella di mio padre. Era la mia migliore amica, era la portatrice di pace e serenità nella nostra piccola famiglia. Era tutto per noi.
La sua perdita... La sua morte...
- Lo so. Ero piccolo, ma lo capii subito. Senza di lei non c'era più allegria nella nostra famiglia. Non era neanche più una famiglia. -
Mio padre era diventato un alternarsi di tristezza e disperazione e momenti di una dolcezza senza fine. Tristezza per la perdita, dolcezza per compensarla. Ma col tempo era diventata più una cupa, profonda e perenne tristezza. Non più acuta, fatta di pianti nel cuore della notte, lontano dalle mie innocenti orecchie. Si era nascosta sotto la sua pelle, dietro i suoi occhi...
- Volevo il tuo bene... Quello che io e tua madre volevamo per te. Lo volevo così tanto che non ho pensato a cosa volevi tu. Non mi importava, pensavo solo che fossi ribelle per via di... Di... -
Non era così lontano dalla realtà. Tornare a casa per me, dopo la scuola, significava rientrare nel dolore di una perdita che durava da anni. Per quanto cercassi di scrollarmela di dosso, mio padre ne era l'eterno ricordo.
E io l'odiavo.
Un odio infantile che non se ne era più andato. Lui era mio padre, lui era forte, grande e grosso, lui poteva tutto, poteva sconfiggere i mostri della mia stanza, poteva sollevarmi fino a farmi toccare il cielo.
Non aveva salvato mia madre.
- Volevo che fossi ciò che lei fantasticava sorridendo. Volevo il meglio per te e cercavo di dartelo da solo, sforzandomi di darti ciò di cui avevi bisogno e di essere abbastanza serio da non viziarti... -
Non piangeva, niente lacrime, niente respiri sordi come quelli che sentivo nel silenzio della casa. Non piangeva, la sua voce lo faceva per lui.
- Ci hai provato. Non posso dire che tu abbia fatto del tuo meglio, ma ci hai provato. - L'ombra mi lambiva le ginocchia, con onde sempre crescenti. Il suo scrosciare copriva il suono dei nostri respiri.
- Dici sul serio? - Mi guardò - Davvero la pensi così? -
Me ne resi conto. In tredici anni non avevo mai pensato niente del genere. Non avevo mai ammesso al mio cuore questi ovvi, semplici pensieri.
Stavo analizzando ognuno di questi elementi con una calma che non avevo mai avuto. Avevo pianto per meglio sopportarli, avevo gridato pieno di rabbia per liberarmi dal loro giogo, avevo bevuto per tentare di dimenticarli. Li avevo seppelliti in un angolo della mia coscienza per non soffrire.
Non ero mai riuscito a pensarci con tanta chiarezza.
Ora capivo, ora vedevo.
- Si - Dissi, risoluto, serio. - Si, papà. Non me ne rendevo conto, ma, si, la penso così -
Sorrise e io mi rilassai. Sorrisi a mia volta. Sorrisi a mio padre dopo tutta quegli anni.
Durò poco, neanche un minuto, ma fu importante per me.
- Temo sia ora di concludere questa nostra conversazione - L'ombra scrosciava contro la roccia, ora percossa da grosse onde. La sua freschezza iniziale stava diventando freddo, gelo, ghiaccio fin dentro le ossa. Prima che me accorgessi mi sommerse togliendomi il fiato.
Mio padre si alzò in piedi, tranquillo nonostante la forza dell'ombra. Mi porse una mano e io l'afferrai. L'ultimo appiglio, l'unico punto di calore e affetto in quel mare di fredda ombra. Era ruvida, era dura, era forte, era grande. Era quella mano che da bambino mi accompagnava per strada, era quella mano che mi portava in alto, che mi faceva volare.
Mi sostenne, mi guardò negli occhi, rise, la voce roca, rise mentre l'ombra saliva fino quasi a sommergerci.
- Vorrei rivederti sai? E ripetere questa nostra chiacchierata. So che lo vuoi anche tu -
Lì per lì non capii il senso di quella frase.
Mi tirai al di sopra delle onde, volevo risposte, volevo... Volevo...
Mi spinse via, mi lasciò andare. Vorticai nel buio denso. Cercavo la superficie, cercavo aria, cercavo mio padre.
Volevo... Un abbraccio.


Freddo e buio. Sabbia in bocca. Il bianco di un sorriso, il bianco di due occhi il cui centro era nero quanto il cielo stesso.
Parole in arabo.
Buio.


Mi sveglia con il martellante pensiero di mio padre. Il suo sorriso, il mio di rimando.
Aprì gli occhi e il sole mi accecò. Biascicai qualcosa, presi le leggere coperte lino portandomele sopra la testa.
Qualcuno rise.
- Hai avuto una grande fortuna - La sua voce esitò - Smiths - pronunciò a fatica - Smikt - Riprovò senza successo.
Lentamente riaprì gli occhi. Vidi le pelli, riconobbi l'interno di una tenda. Riconobbi un Tuareg, un viso scuro e snello incorniciato dal tipico vestito blu. Cercai di mettermi a sedere, ma il mondo vorticò intorno a me costringendomi a fermarmi.
L'uomo rise ancora.
- Hai avuto grande fortuna, ma non volerne troppa - il modo un cui cercava malamente di parlare americano mi rimbombava nella testa dolorante.
- Cos'è successo? - lo guardai dritto nei suoi profondi occhi neri. - Sei Ashraf? - chiesi poi esitante.
- Ha avuto davvero grande fortuna. Non tutti si perdono nel deserto e vivono ancora. Non tutti si perdono nel deserto e trovano tribù giusta -
Il servizio, la tribù, ero arrivato.
Il mio sogno, il mio miglior servizio, ero lì, dopo più di un anno passato a progettarlo. Ma tutto quel che volevo era essere altrove. Era tornare a Boston, era tornare in quella casa di mattoni rossi nascosta dal giardino mal curato.
Era rivederlo.
E sorridere.
Non cedetti, no, non lo feci.
Tredici anni, erano passati tredici anni dall'ultima volta in cui i nostri sguardi si erano incrociati. Cinque mesi in più non avrebbero fatto la differenza.
Da piccolo ci sedevano contro il muro della casa, sotto l'ombra del nostro grande pesco. Ondeggiava sotto il vento, ombre e brevi sprazzi di luce ci coloravano i piedi. Leggevamo fiabe.
Avremmo fatto lo stesso, solo che sarei stato io a raccontargli una fiaba, una fiaba triste, ma con il lieto fine.
- Smikt? Smik è il tuo nome? - mi chiese l'uomo.
Risi, con voce roca che mi graffiava la gola secca.
- Smith - lo corressi - Joshua Smith -
La fiaba di un padre e di un figlio che si volevano bene, ma non lo sapevano.
   
 
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