The day after cocoon
Rayban calati sul
naso, sguardo fiero e un paio di imprecazioni contro la carburazione di una
cinquecento verde acqua che sembra arrancare inesorabilmente.
“Non
dovevi parcheggiarla in salita” la apostrofo io, so perfettamente quanto mi
odierà per questo. E altrettanto perfettamente so che scherzerà semplicemente.
Severamente, ma semplicemente.
“E
che ne sapevo io che questa cazzo di macchina avrebbe avuto la
carburazione a pezzi?” mi risponde lei, battendo ripetutamente le mani sul
volante.
“
Comunque secondo me non è la carburazione” incalza sua sorella sbucando da
dietro di me, inondandoci in un colpo sole di capelli castano scuro e del
profumo del suo gel. Rifletto che è lo stesso profumo che i miei capelli
dovrebbero emanare in questo preciso istante, dato che ieri sera con quel gel
ha conciato per le feste anche me, nel senso che c’era davvero una festa in
paese. E nel senso che aveva insistito tutto il giorno perché le permettessi di
provare a conciarmi i capelli in qualche strano modo. E nel senso che siccome
io adoro queste cose, dopo essermi mostrato falsamente restio – dopo aver,
cioè, messo in salvo l’orgoglio di uomo non frivolo- ho docilmente
acconsentito. Questo ha completamente messo a nudo la situazione: due ragazze che
una sera, prima di uscire in un paese che finge di essere in festa, fanno di un
loro amico tutto quello che vogliono, proprio come si fa per un bambolotto.
Neppure
secondo me è la carburazione, e glielo faccio presente mentre mi tocco i
capelli, che iniziano ad inumidirsi in prossimità delle tempie a causa del gran
caldo che pervade la cinquecento, come fosse un immenso forno per cuocere le
persone come vasetti di argilla. Magari, poi, arriveranno i decoratori e ci
dipingeranno, diventeremo splendidi vasi di porcellana. Annuso la mano. Come
pensavo, è lo stesso profumo dei capelli di Lavinia. Profumo, chiamiamolo così.
“ E
allora cosa dovrebbe essere?” risponde Lucia alla mia supponente opinione. Ci
devo riflettere un attimo, non so molto di macchine, io.
“
Al massimo è la frizione” rispondo, sforzandomi di sembrare abbastanza sicuro
di me. Quel poco che basta per convincere qualcuno che quello che dici è
irreprensibilmente corretto, sotto tutti gli aspetti.
“
In realtà ci avevo pensato, la prima non entra bene…” risponde lei, e se ci
avesse pensato o meno, io non lo so. Sono quasi le undici, cerco di mascherare
la leggera irritazione che mi si insinua sottopelle al solo pensiero di
arrivare troppo tardi sulla spiaggia, o di non poterci proprio arrivare. Cavolo,
un minimo di abbronzatura non mi avrebbe fatto schifo.
Sul
sedile posteriore Lavinia ha assunto una delle sue posizioni preferite – quella
supina- e inizia a cantare qualcosa di sconosciuto con quell’intonazione che
finisce per farci scoppiare a ridere.
È
vero, è brava nelle imitazioni, c’era scritto anche in quell’articolo di
giornale, e io lo confermo.
So
quanto sia bello comparire in un trafiletto giornalistico, seppur brevissimo e
contestatissimo dal resto della redazione, che invece di un articolo sulla
vittoria delle nuove leve dello sport fiorentino avrebbe preferito una profonda
riflessione sul tempo libero delle mogli dei calciatori.
Ciò
non toglie che una volta ogni tanto quell’articoletto riesce ad uscire sul
giornale, e nella fattispecie, alle pagine di cronaca sportiva locale. Non
crediate, è un’eco niente male. Niente male davvero.
Qualche
tuo compagno di classe che lo legge – compagna, volendo essere onesti fino in
fondo- rischia di ritagliarlo ed attaccarselo sul diario, sperando che prima o
poi quello possa essere il biglietto da visita per entrare gratis in discoteca,
o qui, o là. Qui e là.
Nonostante
tutto, fa piacere vedersi citati per i propri meriti sportivi piuttosto che per
altro.
Il
caldo aumenta progressivamente, nonostante i finestrini spalancati e il vento
fresco – di un fresco surreale, a tratti addirittura freddo- che adesso sta
entrando copioso da ogni fessura della macchina, ed è come un pollice premuroso
che asciuga una lacrima solitaria, isolata. Totalmente estranea ad un pianto
scomposto e disperato. I pollici premuroso sono per chi piange in silenzio,
cercando costantemente di lottare contro la totale mancanza di lacrime.
Arrivando a piangere anche sangue, come certe iguane del deserto che spesso si
vedono nei documentari, e che puntualmente spaventano. Fanno almeno schifo.
E
la macchina non parte, e questo può fare ancora più schifo.
“
Uffa, possibile?” esclama sconsolata Lucia, battendo con forza sul volante,
quasi arresa, glielo leggo negli occhi, io e Lavinia dovremo scovare il
problema e proporre una soluzione, o il mare rimarrà dietro la collina.
Beffardo come una chitarra che costa troppo.
“
Eppure ieri non ha dato assolutamente problemi, neppure in salita!” esclama,
con meno energia, continuando nel suo soliloquio sconsolato e disperato.
Noi
non rispondiamo, evitando anche di guardarla. C’è qualcosa nella sua resa
nervosa che ci tiene incredibilmente guardinghi e deferenti. Come apprendisti
chirurghi che osservano un famoso professore che si lamenta per un’arteria che
prende improvvisamente a zampillare, al di fuori di ogni previsione. Cosa puoi
dirgli? “ E io che ci posso fare?” sarebbe appropriato, ma inutile. Quindi
ingegnati a trovare una soluzione, prima che il paziente muoia dissanguato.
“
Tieni conto che stai facendo una partenza in salita, che è comunque più
difficile…” le faccio notare io.
“ è
vero..” Lavinia mi segue nella discesa verso la risoluzione del problema,
canticchiando e pensando ad alta voce, sebbene questa non sia sua abitudine.
Stiamo insinuando – e questa insinuazione esce pericolosamente dalle righe del
discorso- che tutto è dovuto ad una piccola negligenza della ragazza che adesso
ci guarda attraverso i rayban.
“
Sì, ma mi è sempre partita in salita!” risponde lei, per nulla convinta della
nostra ipotesi, e come darle torto, che ne sappiamo, noi – sedicenni senza
patente- di come si guida una macchina?
“
Vabbè, mettici la carburazione che non funziona benissimo, mettici il cambio
che gratta un po’… è chiaro che parte con più difficoltà, no?” continuo io, e
in questa mia argomentazione neppure uno dei meccanici delle scuderie Ferrari
potrebbe trovare qualcosa di manifestamente sbagliato o – ancora peggio.
Incoerente.
Mi
adagio contro il finestrino, con mia scarsa sorpresa, è caldo. Non servono a
nulla gli alberi che circondano quel parcheggio, il parcheggio di una paesino
marittimo in collina, nel cuore del litorale tirrenico toscano. E non serve a
nulla neppure il vento, che peraltro è sempre più forte e insistente.
Non
appena mi giro a controllare cosa sta facendo Lavinia, vedo le foglie muoversi.
I tronchi si spostano verso destra, e per un attimo mi sfiora il pensiero di
stare vivendo mere allucinazioni. Un sofferto rantolio del motore e la muta
esultanza di Lucia mi convincono invece che a muoverci siamo noi. La
cinquecento verde acqua si sfila abbandona la jeep e la Mercedes class C che
prima le stavano ai due fianchi, minacciando di farsi graffiare. Mi sento
notevolmente sollevato, arriveremo al mare e potrò prendere un po’ di colore, quel
minimo che può servirmi per non apparire eccessivamente smunto al mio ritorno
in città.
Ovviamente
un mese di vacanze sulla costa atlantica è bastato a donarmi un piacevole
colorito, ma il ritorno nei meandri urbanistici urbani ha avuto cura di schiarirmi
progressivamente, facendo piovere varechina e acqua eccessivamente dura.
“
Adesso però dobbiamo assolutamente trovare un parcheggio in piano, questa non
ce la fa mica a ripartire in salita..” decreta con arguzia Lucia, pensando
quello che anche Lavinia ed io stiamo pensando, e cioè:
“
Ma col cavolo che trovi posto in piano a quest’ora, a Cala Ondangoscia!” lo
esclamo io, ma lo pensiamo tutti. E’ inutile essere ottimisti a quest’ora. I
turisti alemanno-svizzero-franco-sino-anglo-europei sono più veloci di
qualsiasi abitante del posto o turista italiano. Eccoli precipitarsi sulla
spiaggia bianca – Cala Ondangoscia è particolarmente rinomata- portando i figli
sotto braccio e gli ombrelloni nelle carrozzine, portando i cani nelle borse
termiche, e il cibo nelle cucce da viaggio. Muniti di guide turistiche di
Italia ed Europa – in quest’ultime poi, mi sono sempre chiesto come fanno a
trovare tante e tanto accurate informazioni- conoscono il nome del più piccolo
scoglio all’orizzonte, e sono convinti che nel fondale sabbioso si nascondano
piovre e squali tanto pericolosi da necessitare l’intervento di fiocine e
fucili acquatici. Resta il fatto che sono sempre più veloci di tutti noialtri.
“
Vabbè, al massimo parcheggiamo un po’ più lontano, ma non ho voglia di stressarmi”
risponde Lucia, fieramente ancorata al volante, mentre lancia la cinquecento e
rotta di collo – nel senso che il collo rischiamo di rompercelo seriamente- in
tornanti dalla pericolosità inaudita, dove ogni tanto sbuca qualche ape in
contromano, che da tutta l’impressione di portare un cartello recante la
scritta “ Si dia inizio alle bestemmie!”. E le bestemmie hanno inizio, non c’è
problema, non c’è nessun problema.
In
mezzo alla forca naturale creata da due colline si intravede il mare, e se non
c’è eccessiva foschia si può indovinare se sia mosso o meno. Dopo due giorni in
cui questo non è stato possibile, il forte vento ha messo nuovamente a nudo il
litorale e sono perfettamente visibili tante minuscole increspature in
prossimità della costa. Luccicano con insistenza sempre maggiore e vanno
svanendo man mano che l’occhio si sposta dalla zona costiera al mare aperto.
Sembra tutto sommato una giornata normale, con condizioni di mare non ottimali
ma decenti.
Odio
il mare decente, e sono sicuro di poter dire lo stesso per molte altre persone
che conosco. E che non conosco, certo.
Non
sopporto la minima increspatura sulla superficie, desidero vederla “liscia come
un olio” come mi diceva mio padre quando ero piccolo. Non posso però negare
che, un mare mosso quanto basta e non avanza per prendere per mano qualcuno e
portarlo con te ad affrontare le onde, mi affascina incredibilmente. Non tanto
per l’ebbrezza causata da un paio di schizzi in pieno viso e in piena pupilla,
quanto per l’indimenticabile esperienza che è affrontare in due la morte che
dorme e non si sveglia. Sfidare onde moderatamente alte è un modo sicuro per
sentirsi invincibili e non morire, per guardarsi negli occhi, accennare un
bacio e gettarsi nuovamente nei flutti marini, ululando e fingendo di essere
atterriti. Le onde sono troppo basse ancora, la morte non si vede, ma la puoi
sfidare in questo meraviglioso teatrino. E lei può sorridere in pace, mentre tu
inneggi alla vita che scopri di stare improvvisamente vivendo nel modo più stomacale
possibile. La senti in gola.
Questo
sarebbe il giorno adatto per farlo. E c’è Lucia, già, c’è Lavinia. Ma non sono
comunque in due. Io non sono in due. Manca qualcosa, un particolare di non poca
rilevanza che so essere a cinquecento chilometri di distanza. Un po’ troppi per
fare un fischio o per prendere un autobus. Un po’ troppi anche per lasciarsi
inforcare dalla nostalgia.
Inforchiamo
la pineta, in attesa di essere inforcati da vento e sabbia.
Ombrellone
sotto braccio, uno zaino leggermente troppo pieno, decisamente inadeguato
secondo qualche perfezionista perso nel suo unico schema di gioco. Palla lunga,
e dritto in porta. Non funziona sempre, no, se gli avversari hanno una buona
difesa, ti voglio vedere col palla lunga e in porta. Corri corri corri, la
voglia di correre farà bene a non mancarti, perché ti infilzano in contropiede.
E non ti manchi neppure la precisione! Entra bene, sulla palla. Se sei ultimo
prima del portiere e insegui a rotta di collo il famoso attaccante, non puoi
scambiare il suo stinco per la palla. Fallo da ultimo uomo. Cartellino rosso.
Ci vediamo in cassa integrazione. Ci vediamo tra un anno, ci vediamo al mare.
Ci
lanciamo rapide occhiate. Nessuno parla, sarà il cielo che ci zittisce ruggendo
e tuonando. Non è nero, non c’è presagio di una tempesta, ma tuona plumbeo. Ci
zittisce con la soggezione della foschia. E non disubbidiamo.
Incespichiamo
sulle radici di pino che sbucano dal sottobosco ( aghi di pino + sabbia +
ghiaia = mai a piedi nudi). Non si vedono, arrivano. Quasi che fossero come certe trovate dei film dell’orrore, dove
gli alberi si animano e fanno uscire dalla terra le loro radici, che nella
peggiore delle ipotesi verranno usate come vibratore dalla protagonista. Beata
lei, disse il saggio. Beata lei, diciamo noi.
La
pineta è fitta, e non ci ero mai stato. Ero sempre arrivato dall’altro lato,
quello dove gli alberi si fanno più radi. Magari con l’aiuto dell’edilizia
abusiva, sempre particolarmente accorta nel rendere la costa più bella, più
accessibile al grande pubblico, e più pulita.
Ancora
esitiamo a guardarci, abbozziamo un paio di smorfie sorridenti che ci scaldano
solo leggermente, tanto comunque da farci sudare. Complice magari, l’umidità
che tocca livelli difficilmente immaginabili.
Inciampo,
fortunatamente senza cadere. Ci si può fare veramente tanto male. Si girano per
controllare se mi sia fatto male o meno. Mi prendono in giro, mi sto lamentando
di qualche sbucciatura sul ginocchio. Lo fanno, mi scherniscono, ma l’occhio
che ha osservato il mio ginocchio era attento e non minimizzava. Era in stretto
contatto con la voce, e resosi conto della ridicola entità della ferita le
aveva ordinato prontamente di sdrammatizzare. Odio quando si sdrammatizza, ma
lo faccio. Lo faccio perché alle volte sembra davvero che pesi meno. Che pesi
meno farsi la doccia di urla non appena si mette piede a casa, che pesi meno
essere convinti che la persona che fino a pochi secondi prima era avvinghiata a
te adesso possa tradirti. Peso tutto meno, e si capisce alla fine.
Si
arriva a comprendere che è la chiave per una vita lunga, disillusa quanto
basta, e divertente.
Ma
non divertente perché con gli amici si faccia sempre i buffoni e ci si racconti
fino alla nausea aneddoti e battute raccontate vent’anni prima e smodatamente
passate di moda.
Ci
si diverte quando non si contano
I
giorni
L’amore
Le
ore.
Ci
si diverte mordendo un orecchio
Sentirai
come mugola
Sentirai
che gli piace.
-
ti
amo-
-
anch’io-
-
ma
ti prego, cerca di crederci-
-
ci
credo, è questione d’amore, ma anche di te, e anche di me.-
-
e
allora ti amo ancora di più-
-
anch’io-
-
ci
verrei a vivere con te-
-
andiamoci
allora-
Un
ultimo sguardo divertito e rassegnato, il mare non è mai stato così mosso, il
vento è pazzesco, niente bagno.
Saliamo
l’ultima duna, non ci teniamo per mano, ma ci teniamo per mano.
Un
pensiero verso Venezia.
Una
verso Firenze.
Uno
verso il Mare.
Penso
che oggi farò per primo la doccia.
Mi
diverto.