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Autore: Hika86    25/04/2013    1 recensioni
Il Giappone è in subbuglio: le guerre si incrociano sul territorio, i potenti si alleano e si tradiscono ogni giorno, l'amico che ti ha sempre difeso, un giorno potrebbe pugnalarti alle spalle, coloro che ti sostengono potrebbero non farlo la vota successiva e d'improvviso chi ami oggi, domani potrebbe essere il nemico...
Ora, in tutto questo casino: io che ci faccio qui?
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kazunari Ninomiya , Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Per gentile concessione di Morikawa Rie, avevo due possibilità di risposta. Oltre alla fuga intendo, ma non era plausibile: io zoppicavo e tra me e la porta d’uscita, unica breccia che io avessi visto nelle alte mura bianche che circondavano la casa, c’erano una trentina di uomini armati di spada da allenamento, abituati al combattimento e la maggior parte di loro doveva essere pluriomicida dato il periodo.
La prima opzione, quindi, era mentire.
Non credo di essere mai stato un buon bugiardo e recitare e mentire sono due cose diverse. So mantenere abbastanza bene una faccia da poker, ma quello avrebbe dovuto essere un altro genere d’inganno. Quale storia incredibile avrebbe spiegato il mio abbigliamento? O il modo in cui ero comparso e piombato dal cielo? O il perché parlassi dicendo cose che non comprendevano? Per non parlare di tutti gli altri dettagli che in quel momento non esistevano, come la mia famiglia, i miei amici, la mia vita. Addirittura la mia città!
Poi, oltre ad architettare una scusa avrei dovuto interpretarla. Ero quasi sicuro che mi sarei contraddetto più che facilmente su alcuni dettagli ed è proprio su di essi che nei film cercano di fregare i personaggi per scoprire se dicono la verità oppure no, se sono spie o alleati. Mi avrebbero colto subito in fallo e a quel punto avrebbero sospettato di me per sempre: se avessi mentito una volta perché non due? Insomma mi sarei giocato la credibilità.
Non rimaneva che la seconda possibilità: dire la verità. Quella famiglia mi aveva soccorso, mi aveva ospitato comodamente e curato, seppur con gentile freddezza. Si erano meritati quella verità.
Il problema di fondo era che pure quel che non era una bugia sarebbe suonata come una balla: colossale, grossolana e piena di falle. Infatti, per assurdo, qualsiasi idiozia mi fossi inventato, purché un minimo ragionata, sarebbe suonata molto più credibile della realtà, quindi non potevo escludere che pur parlando sinceramente il signor Morikawa avrebbe potuto non credermi.
Un altro aspetto spinoso della questione era proprio il mio interlocutore. Non potevo raccontargli tutto nello stesso modo usato con Rie: lei era una donna, che in molte realtà di quel tempo significava essere appena più importanti dello straccio per i pavimenti, mentre lui non solo era un uomo, ma era anche il capo di una famiglia importante, o almeno ricca, data l’estensione della casa in cui viveva. Inoltre era una persona istruita, non era un semplice guerriero particolarmente ricco: conosceva la medicina dell’epoca che -per quanto dovesse essere un misto di rimedi della nonna, vaghe conoscenze scientifiche e deduzioni empiriche- era comunque un’istruzione non da tutti, né banale e probabilmente poco accessibile.
Insomma, quello davanti a me era un uomo con molte conoscenze e molti mezzi. In confronto a lui il mio Q.I. doveva essere ridicolo, soprattutto perché non avevo grandi informazioni sulla vita di quel periodo e tutto il mio sapere geografico del mondo, le mie conoscenze di tecnologia o quel poco che ricordavo di scienze e storia dal liceo, in quel momento valevano meno di zero.
Avevo pensato tutte quelle cose la sera prima, come Rie mi aveva consigliato di fare? Ovviamente no. Pensai ognuna di quelle cose in cinque minuti, fissando la spalla dell’uomo davanti a me, in silenzio e cadendo come in trance. Ero immobile da tanto tempo che il mio corpo oscillava leggermente.
«Ninomiya sama?» domandò Morikawa con una nota di apprensione ad addolcire l’aria severa che aveva assunto dopo avermi posto la domanda
«Scusate» balbettai sbattendo le palpebre e cominciando a massaggiarmi la gamba piegata, che nel frattempo si era addormentata. «Stavo pensando a come rispondere, sembra più difficile di quanto non credessi» ammisi parlando lentamente.
«E’ tanto complicato dirmi da dove vieni?» chiese stupito
«Forse è più corretto chiedere prima “da quando” vengo» spiegai facendo una smorfia. «Ma anche in quel caso non sarebbe facile spiegarsi»
«Non capisco» commentò l’uomo portandosi una mano al pizzetto sul mento
«Voi avete pronipoti?» provai a chiedere, alzando timidamente lo sguardo su di lui
«No» mi rispose confuso. «Neanche nipoti, non per ora almeno»
«Bene, allora provate a pensare a me come ad un pronipote. Non ne avete, no? Eppure io sono qui, già cresciuto, e dico di abitare in una città in cima a questa collina»
«Non c’è alcuna città lassù» asserì ancora l’uomo, pensoso
«Non ora, ma magari, per quanto vostro pronipote sarà grande, ci sarà. Quindi lui viene da lì, perché nel suo tempo c’è una città in cima alla collina. E dice di vivere con il fratello Jun e il padre Sho, che sarebbe quindi vostro nipote» ragionai contando gli ipotetici familiari sulle dita
«Che io però non conosco, perché ancora non sono nati» cominciò a ragionare lui seguendo il mio discorso
«Proprio così. Quindi voi state chiedendo al vostro pronipote di dire che viene da una città che ancora non esiste e di raccontarvi di cose di sé che non sono ancora successe: io non sono vostro pronipote ovviamente, anzi non credo di avere alcuna parentela, ma anche se fosse temo che i nipoti e i pronipoti tra di noi siano almeno una decina, il che significa che vengo da un tempo ancora più lontano»
«Quindi non solo mi parleresti di una città che ancora non esiste, ma potrebbe darsi che per te non ci sia nemmeno più la collina?» domandò ragionando lentamente
«Esattamente» annuii entusiasta. Il mio era stato un escamotage brillante per spiegare una cosa semplice come “vengo dal futuro”, in maniera contorta eppure abbastanza pragmatica e chiara da farmi sentire quasi intelligente. Wow! «La mia città non esiste, così come non esistono la mia famiglia, i miei amici e tutto ciò che era la mia vita. Ha senso allora rispondere alla vostra domanda?»
«Alla prima forse no, ma alla seconda?» chiese cocciutamente
«Per assurdo, potrebbe essere più facile, ma sono solo supposizioni. Nella mia epoca io sono un artista e mi stavo preparando per fare una recita» cominciai a spiegare cercando di evitare termini che non sarebbero stati compresi come "camerino", "film", "riprese" e cose del genere. «Poi d'improvviso c'è stata una grande luce e dopo sono caduto a terra in una città sconosciuta. E' stato allora che mi sono fatto male e che sono stato portato qui. Rie sama ha detto che secondo lei sono arrivato con la magia» aggiunsi titubante. La parola “magia” cominciava ad assumere lo stesso sapore di idiozia misto a quello di unica-risposta-possibile che aveva caratterizzato anche la frase “vengo dal futuro”. Era una sensazione fastidiosa.
«Le hai parlato di questo?» domandò Morikawa leggermente allarmato
«No, no. Ma lei mi ha visto comparire in cielo e cadere a terra, non avevo bisogno di raccontarle da dove venivo perché arrivasse ad una simile conclusione» cercai di spiegare. Quella ragazza era stata gentile, non volevo metterla nei guai facendo intendere che aveva taciuto ai suoi familiari la verità. «Anche se fossi di questa epoca, non sarebbe tanto normale comparire dal nulla»
«Non è normale, ma non è impossibile» mi rispose lapidario.
Se non mi fossi trattenuto avrei strillato un “ah no!?”, poi mi venne in mente che anche Rie si era fatta molto seria quando avevamo parlato di magia. Possibile che esistesse una roba così assurda nel Giappone del 1500?
Morikawa mi staccò gli occhi di dosso, e io fissai la mia maglietta di E.T.: il premio assurdità lo vincevo io comunque.
«D'improvviso eri in un posto e poi ti sei trovato da un'altra parte, eh? Anzi, anche in un altro tempo» rimuginò a bassa voce. Perché ancora non mi stava ridendo in faccia?
«Sì, è così» annuii.
Mi portai le dita alle tempie. Ora che avevo chiarito un paio di cose con il mio ospite mi ritrovai a chiedermi quante volte avrei dovuto spiegare quella situazione assurda e quanti mi avrebbero creduto.
«Lo hai sentito, Toshinori?» chiese Morikawa guardando alle mie spalle.
L’uomo muscoloso che avevo visto battersi poco prima si era rimesso la parte superiore del kimono e si era appoggiato col corpo al bordo del “palco” dove ci trovavamo noi, rimanendo in piedi e in silenzioso ascolto con le braccia incrociate.
«Ho sentito» annuì senza guardarci, ma tenendo gli occhi fissi sugli uomini in allenamento. Aveva risposto in tono scontroso, cosa che mi ricordò che lui non aveva mai desiderato avermi in casa sua.
«Gli credi?» domandò ancora il padre
«Se me lo chiedi così, ho il sospetto che dovrei farlo» sbuffò, girandosi finalmente a guardarlo mentre gli parlava. «Non riesco a capire in base a cosa, ma immagino che se gli credi tu, ci sia sicuramente una risposta che io non riesco a comprendere»
«Come? Mi credete?» feci spalancando gli occhi e fissando Morikawa, incredulo
«Ci sono vari motivi per cui accetto la spiegazione del nostro ospite» disse il padrone di casa, finalmente facendo un sorriso cordiale e sincero. «Prima di tutto, la storia che ha raccontato è così poco credibile che se fosse una bugia cercherebbe di inventarne una più convincente. In secondo luogo, le sue parole mi spiegano alcune cose che ha farfugliato quando era malato e che già mi avevano fatto intendere che non era una persona qualsiasi. Certo, non pensavo ad un viaggio nel tempo, ma piuttosto ad una remota isola in mezzo al mare di cui sappiamo poco» ammise aggrottando le sopracciglia.
Gli guardai le piccole rughe che si piegarono ai lati degli occhi e notai la pelle in parte rovinata, forse da qualche malattia. Nonostante per i miei standard non fosse un uomo particolarmente anziano, per le prospettive di vita di quell'epoca doveva essere già un vecchio uomo con molte brutte esperienze alle spalle.
«Quindi in parte sapevo già cosa stavi per dirmi e il fatto che ciò che dici coincide più o meno con quel che avevo dedotto, mi dimostra che posso fidarmi di te: non hai cercato di nascondermi la verità» mi disse infine, provando che ci avevo visto giusto durante i miei ragionamenti pre-discorso.
Avrei voluto sospirare sollevato o fare qualche urlo di gioia dato che era la prima cosa che sembrava andare per il verso giusto, ma chiaramente non era il frangente appropriato e non sapevo fino a che grado di cafoneria avrebbe funzionato la scusa dell'essere un uomo del futuro ignaro dei costumi dell'epoca.
Da una porta alle spalle di Morikawa comparve una serva in un kimono grigio perla. Il padrone di casa le chiese di preparare del té per noi tre, poi tacque ascoltando il figlio maggiore, allontanatosi da noi, che dava nuove direttive sugli allenamenti. Sia io che l’uomo rimanemmo silenziosi ad osservare i giovani guerrieri che si colpivano o provavano schemi di combattimento.
Sull’angolo sinistro dello spiazzo si ergeva un albero gigantesco. Alcune foglie cadevano lentamente fino a terra o si incastravano tra i rami più bassi. Non sono mai stato un esperto di botanica, ma chissà come, sapevo che aveva la ramificazione tipica degli alberi di tiglio e che sono poche le specie che arrivano ad essere così grandi e dalle foglie tanto folte.
C’era anche un enorme pianta rampicante che ricopriva la facciata della casa (o forse erano due, non ci avevo fatto caso), ma non sapevo che pianta fosse, era già spoglia di fiori e foglie. L’estremità nude di alcuni rami oscillavano nel vuoto, penzolando dal tetto. In primavera dovevano formare una deliziosa cornice per quella veranda, ora sembravano solo le scarne dita di tanti mostriciattoli che stavano per scendere giù dal tetto.
«Come mai avete un piccolo esercito in casa?» azzardai a chiedere per rompere il silenzio e distrarmi da quegli inutili pensieri botanici.
Inizialmente avevo pensato di trovarmi in una palestra di arti marziali, ma non le era affatto. Non avevo visto praticamente nulla degli interni, ma era chiaro che quella era una residenza, una villa vera e propria. Avere spadaccini disciplinati a combattere lì non era normale, nemmeno in tempo di guerra.
«Dalle tue parti non è normale?» domandò l’uomo in risposta
«Non lo è, la mia terra è in pace» spiegai evitando accuratamente di parlare del Giappone come di uno stato unito, cosa che per lui non era normale e sarebbe stata un anticipazione di eventi futuri.
«Questi sono solo una parte dei guerrieri della zona che mi sono fedeli. Alcuni sono in missione» disse l’uomo facendosi scuro in viso. «Noi siamo in guerra, anche se ancora non è stata dichiarata tale ufficialmente. Immagino che ritrovandoti qui sarà bene che tu sappia in che tempo sei finito»
«Ho qualche idea, ma la mia epoca è molto lontana e i nomi delle ere si confondono, quindi abbiamo adottato un modo alternativo per contare gli anni» tentai di spiegare parlando con molta cautela. Volevo essere sincero, ma dovevo far attenzione a qualsiasi parola strana che avrebbe potuto destare eccessiva curiosità e svelare troppo sul futuro. «Molti ricordano meglio quello, piuttosto che il metodo tradizionale e così io non so dire esattamente in quale anno ci troviamo secondo il nuovo calendario» scossi il capo: non avrei mai smesso di rammaricarmi per quella gravissima lacuna di conoscenza che altrimenti mi avrebbe aiutato ad orientarmi in quell’epoca.
Gli raccontai quel che potevo dire in generale sull’epoca Sengoku di modo da semplificare il discorso che mi avrebbe fatto.
«Queste una volta erano le terre degli Ujie. La famiglia lavorava direttamente per lo shōgun e nel suo nome amministrava un’area non molto vasta, perché era una delle famiglie minori. Quando c’è stato l’indebolimento della figura centrale, gli Ujie gli sono rimasti fedeli perché non avevano sufficiente peso e potere per poter fare la voce grossa. Purtroppo però la famiglia che controllava il territorio più vasto a nord del nostro è stata tra le prime a rendersi indipendente e in pochissimi giorni ci ha conquistati per superiorità numerica» raccontò continuando a guardare i guerrieri anche quando la cameriera tornò con un vassoio e le tazze di tè fumante. Ne posò una davanti a me, poi davanti al padrone di casa e la terza vicina al bordo del palco: Toshinori stava tornando verso di noi ed era per lui.
«I discorsi politici sono difficili da affrontare» disse il padrone di casa prendendo tra le mani la sua tazza. «E non è il momento. Comunque posso dire che non sarebbe sicuro se si venisse a sapere in giro che nelle ex terre degli Ujie i guerrieri si stanno allenando: potrebbe essere interpretato come un segno che ci stiamo preparando a ribellarci»
«Cosa che stiamo facendo» lo interruppe il figlio
«Sì, ma se lo scoprissero sarebbero loro ad attaccarci per primi e verremmo uccisi tutti. Sono convinto che esista una via alternativa» affermò l’altro, lapidario.
Imbarazzato da quel piccolo bisticcio familiare decisi di far finta di nulla e mi concentrai a mia volta sul tè. La temperatura dell’acqua era ottimale, dopotutto ero fermo e seduto da almeno un’oretta e l’aria non era molto calda, doveva essere autunno inoltrato. Nel mio tempo era Maggio, se avessi saputo di quel viaggio nel tempo e che sarei finito anche in una stagione differente mi sarei portato dietro almeno una felpa!
«Che terre sono queste adesso?» domandai per far andare avanti la spiegazione, mentre osservavo affascinato le decorazioni fatte a mano sulla tazza: la tradizione giapponese della decorazione del vasellame, ancora viva nella mia epoca, in quel momento si mostrava in tutta la sua bellezza e profondità storica.
«Sono le terre dei Tokudaiji. Crudeli, dispotici e superbi» mi rispose Toshinori con una smorfia di disgusto
«Gli Ujie non sono che una famiglia cadetta ormai, ma tutti gli abitanti di ogni villaggio o cittadina sono fedeli a loro, così come lo sono io: le guerre non mi piacciono, combattere e ferire gli altri non è nella mia natura, per questo spero in un’altra soluzione. Però se il mio signore, Ujie Masamune, mi chiederà di portare in campo i miei guerrieri, allora lo farò e dovremo essere pronti» asserì Morikawa con docile sicurezza. Era chiaro che il figlio ardeva del fuoco della ribellione, mentre lui era anziano e stanco, ma non per questo meno leale ai suoi doveri.
«Padre ormai hai me, non dovrai essere tu a guidare le nostre truppe» si intromise Toshinori con apprensione
«Tokudaiji» mi trovai a ripetere. Avevo già sentito quel nome, era mai possibile? «Sì, Rie sama ha detto che conoscono la magia!» esclamai ricordandomi all’improvviso di ciò che mi aveva detto.
I due uomini mi fissarono seriamente. «Si dice che nel loro palazzo viva un uomo esperto di questo argomento, ma non si sa se sia vero» azzardò a dire Toshinori
«Immagino di non poter contare su di lui se siete in guerra con quella famiglia» riflettei mascherando la mia delusione dietro un aria pensosa, come se stessi pensando ad una soluzione. La verità era che mi stavo leggermente rammaricando di non aver seguito i due guerrieri armati che mi avevano minacciato il primo giorno.
«Non si può contare sulla magia» affermò Morikawa con fredda decisione, prima di prendere un sorso di tè. «E averci a che fare è pericoloso»
«Se però è stata quella a portare qui il nostro ospite, temo non avremo molta scelta se non usarla per aiutarlo a tornare a casa» fece notare il figlio. Ok, era un burbero, però era un tipo sveglio, mentre su certi argomenti il padre sembrava piuttosto refrattario a cambiare opinione. Un classico.
«Ho appena saputo la verità, non puoi pretendere che abbia già una soluzione» sbuffò il padrone di casa. «Anzi, prima di pensare a questo, abbiamo altri problemi a cui pensare»
«Come possiamo tenere al sicuro lo straniero?» domandò Toshinori pensieroso. Scoprii allora quanto la lealtà per la famiglia e i legami tra persone fossero profondi, tanto da permeare ogni frase e azione delle persone che vivevano quell’epoca: quell’uomo era sempre stato contrario alla mia presenza lì, di certo doveva aver sospettato di me fino al giorno prima e aveva sempre detto la sua in merito, ma ormai suo padre mi credeva e lui rappresentava la famiglia, quindi tutti avrebbero dovuto conformarsi a quell’idea. Bene, la fedeltà e la gerarchia erano talmente forti che Toshinori da quel momento non parlò più di sospetti sul mio conto e cambiò totalmente atteggiamento ora che una decisione era stata presa, gradita o meno.
«Intanto non chiamiamolo “straniero”, ma “Kazunari”. Giusto?» chiese Morikawa girandosi a guardarmi con un bel sorriso stampato in faccia. Era impressionante come i suoi lineamenti, spigolosi quando aveva un’espressione seria, si ammorbidissero come burro al sole ogni volta che faceva un sorriso. «Con le mie supposizioni in mente ho fatto qualche progetto per coprire il tuo arrivo. Alla luce delle tue rivelazioni devo fare giusto qualche modifica, ma in linea generale penso di avere la soluzione per darti modo di vivere qui con noi senza destare sospetti»
«Significa che non devo far sapere da dove vengo?» chiesi incredulo. Questo mi risparmiava di dover rispiegare la situazione una terza volta, ne fui sollevato.
«O “da quando” vieni, come tu stesso mi hai corretto» fece Morikawa, quasi divertito. «Non so come sei arrivato, ma è effettivamente probabile che sia stato con la magia e non verresti ben visto se si sapesse in giro»
«Mio padre ha ragione. Quel tipo di potere è raro, ma le poche persone che lo hanno vengono isolate e non escluderei che, trovandoti qui e diventando parte dei nostri alleati, potrebbe diventare un’ottima scusa per farti fuori, se dovessi diventare una persona scomoda per i nostri nemici. Potesti essere un bersaglio e un punto debole». Toshinori sapeva essere convincente.
Così, in pochi minuti di conversazione con loro dissi addio a Ninomiya Kazunari e diventai Morikawa Kazunari.
Morikawa Kazunari doveva essere il figlio di uno dei tanti fratelli e sorelle di Morikawa Toshiya, il padrone di casa. Avremmo detto che ero stato mandato lì dalla mia famiglia perché non riuscivo a combinare niente di buono tra le fila dei guerrieri di mio padre. La speranza di questo fantomatico padre era che, sotto il severo allenamento di Toshinori, io imparassi finalmente un po’ di disciplina. Data la mia stravaganza nel vestirmi, cosa che avrebbe dovuto scomparire per dare meno nell’occhio, avremmo raccontato che venivo da una lontana e remota isola dove c’erano usanze diverse dalla terra ferma. Questo mi avrebbe aiutato anche nell’eventualità in cui io avessi usato parole incomprensibili e avrebbe spiegato perché il mio giapponese fosse, anche se comprensibile, piuttosto diverso da quello in uso.
Una cosa però ero determinato a non cambiarla: portare le mutande. Avrei trovato un modo per cucine un altro paio, ma fino ad allora avrei lavato più spesso le mie. Mi rifiutavo di vivere senza indossarle! Non avevo una felpa, ma avevo addosso delle mutande nere che invece mi sarei tenuto ben stretto: non intendevo andare in giro a giocare al samurai con il mio amichetto ballonzolante sotto il kimono. Oltre che essere poco igienico sarebbe stato maledettamente scomodo.

Finito il tè, Toshinori si offrì di accompagnarmi di nuovo alla mia stanza. Inizialmente lo seguii un po’ intimorito: non era eccessivamente più alto di me, ma era largo almeno il doppio grazie alla massa muscolare che aveva sviluppato.
A dispetto del suo aspetto e di come si era comportato fino al giorno prima. si rivelò molto socievole e persino simpatico, prova che ormai mi aveva accettato. Fu da lui che ottenni le mie prime informazioni sulla famiglia che mi ospitava e di cui, da quel momento, ero un membro nemmeno troppo alla lontana: secondo il ruolo assegnatomi da Morikawa, io e Toshinori eravamo cugini di primo grado.
I figli di Morikawa Toshiya, padrone di casa Morikawa, erano cinque. La primogenita, Akemi, non abitava più lì perché si era sposata pochi mesi prima con Ujie Masato, il primogenito degli Ujie, ed era entrata a far parte della famiglia del marito. Non mi sfuggì il fatto che quel matrimonio dava agli Ujie la sicurezza della discendenza e legava a loro i Morikawa che a quel modo non li avrebbero mai traditi. Inoltre quell’unione toglieva una bocca da sfamare lì in casa, e spianava la strada della successione per il secondogenito: Toshinori stesso. Non potei fare a meno di chiedermi come la ragazza avesse preso il matrimonio che con molta probabilità era stato combinato e deciso dalle famiglie, non dai suoi sentimenti.
Toshinori così era diventato l’erede di suo padre e questo spiegava perché fosse lui a comandare i guerrieri. Non spiegava però perché il signor Morikawa avesse chiesto di tacere la verità sul mio conto anche al suo terzogenito Nagatoshi, il tipo mingherlino contro cui avevo visto combattere Toshinori qualche ora prima. Non si fidava del suo terzo figlio, sangue del suo sangue?
Per ultima era nata Rie e nel darla alla luce il fisico della loro madre si era indebolito. Qualche anno dopo infatti era morta. Il piccolo di casa Morikawa, Toshiaki, era nato dal secondo matrimonio, ma anche la seconda moglie era scomparsa dando alla luce il bambino.
Quella storia mi rattristò. Per l’epoca la mortalità alta era normale, soprattutto perché era un periodo di guerra, e morire di parto non era un cosa così strana. Per me invece, un ragazzino orfano di madre a soli otto anni era un caso raro.
«Come sono le famiglie da te?» mi chiese Toshinori quando arrivammo davanti alla porta della mia stanza. La gamba si era riposata mentre ero rimasto seduto e le scale non avevano aiutato a mantenerla rilassata, però dopo aver fatto la strada al contrario mi sembrava di provare meno dolore rispetto all’andata. O forse mi ero solo abituato alle fitte?
«Meno numerose» ammisi. «Di solito si fanno due figli, di più non capita spesso»
«Allora si preoccuperanno di più per te. Pensi ti siano cercando?» mi chiese, improvvisamente preoccupato.
Sgranai gli occhi: se c’era una cosa a cui non avevo minimamente pensato era cosa poteva essere successo nel mio tempo se io ero scomparso! E per la verità mi preoccupavo di più per i miei compagni, che per la mia famiglia. Ero scomparso da settimane! Mi stavano ancora cercando? Cos’avevano fatto gli Arashi senza di me?
Sentii che le gambe faticavano a reggermi in piedi, non per il dolore, ma per quell’improvvisa realizzazione e per l’angoscia che stava seguendo, sempre più violenta. «Io mi riposerò un pochino» tentai di dire nella speranza che Toshinori mi lasciasse solo: per come cominciavo a sentirmi avrei anche potuto buttarmi sul letto e mettermi ad urlare come un disperato. Cos’avevano pensato i miei amici non trovandomi più da nessuna parte? Avevano chiamato la polizia ed era in corso un’indagine? Masaki stava piangendo? Jun era in giro a cercarmi anche dopo tutto quel tempo? Il Riida aveva fatto un mio ritratto magari, e Sho? Stava riuscendo a tenerli tutti insieme in quel momento tragico?
«Fai bene. Mio padre dice che in un paio di giorni dovresti rimetterti. Sembra che tu abbia una costituzione robusta: non ti sei mai rotto niente?» domandò sorpreso. Nella mia epoca non rischiavo di venire sgozzato facilmente, né dovevo lottare per la vita e se pure avessi praticato arti marziali avrei usato protezioni di ogni tipo, quindi no, non mi ero mai fatto male in modo serio.
Però non riuscii a rispondergli, in quel momento la mia mente era piena di immagini di notiziari che annunciavano la mia scomparsa e l’idea dei fan increduli e di mia madre afflitta mi toglievano il fiato.
Mi aggrappai alla porta in carta di riso e un angolo remoto del mio cervello mi ricordò di non stringere la presa o ne avrei strappato la superficie sottile. «Non importa, sei stanco immagino. Riposati per bene, anche perché domani cominci» disse Toshinori dato che non rispondevo
«Comincio cosa?» quell’unica frase mi fece riemergere dalla mia disperazione
«L’addestramento. Devi fingere di essere stato mandato qui per imparare qualcosa di utile, no? Domani ti unirai agli altri» spiegò tutto contento, combattere doveva proprio essere la cosa che gli riusciva meglio.
In quel momento mi resi conto di essermi dimenticato di far loro presente un altro dettaglio importante: sapevo combattere, certo, ma sapevo usare un’arma soltanto, il controller dell’X-box.


Se ve lo state chiedendo, sì, il tiglio è il mio albero preferito. E, sì, la pianta che ora Nino non sa riconoscere è un glicine. Ultimamente ne sto vedendo tanti fiorire in giro e ho deciso di piazzarcelo anche qui. Beh comunque si era già capito che la villa è un posto nascosto tra gli alberi e in mezzo alla natura (c'han pure laghetto e cascata naturali nel giardino!).
Il nostro valoroso Nino, armato di maglietta di E.T., affronta il colloquio con il capo famiglia dei Morikawa finalmente. Da notare l'abilità di Nino nell'evitare il più possibile frasi in cui dovrebbe per forza rivolgersi con rispetto all'uomo che ha davanti XD Beh, dato come si conclude il colloquio d'ora in poi può stare tranquillo che se parla in maniera più familiare sarà solo una cosa normale.
Magari qualcuno comincerà a far fatica coi nomi, il mio consiglio è di cominciare ad impararli fin da subito, questa ff ha un intreccio complesso e moltissimi personaggi (per ora ne ho contati 15/16 tra più e meno importanti) dovrete riconoscerli per capire. E comprendo anche che i nomi simili non aiutino la memoria. Sfortunatamente, all'epoca si usava dare ai nomi dei figli maschi un kanji in comune tra loro e con quello del padre. Nella famiglia Moriwaka il kanji è quello di 智 (sì, lo stesso che forma il nome di Satoshi).
Comunque vi faccio uno specchietto riassuntivo se vi fa comodo (con anche i kanji scelti per i nomi che, come al solito, non sono scelti a caso).

智也 Toshiya → Capofamiglia dei Morikawa
明美 Akemi → Primogenita, andata in sposa al primogenito degli Ujie, Masato
智則 Toshinori → Secondogenito ed erede della famiglia
理智 Nagatoshi → Terzogenito
律恵 Rie → Ultima figlia della prima moglie di Morikawa Toshiya, ora morta
智明 Toshiaki → Figlio della seconda moglie, morta dopo il parto


Nel prossimo capitolo

Scrivere mi sarebbe servito a schiarire le idee. Mi erano accadute tante di quelle cose in poche settimane che avevo bisogno di fare ordine, inoltre fingevo di essere un’altra persona, ventiquattro ore su ventiquattro dovevo modificare il mio carattere e la mia parlata e non avevo più il mio nome. Forse avevo paura di dimenticare chi fossi veramente.

Notai che c’era una luce accesa nella prima sala di ricevimento degli ospiti, dall’altra parte del cortile. «Nessuno è un nemico»
«Amico mio, so che tu insisti con la tua linea diplomatica, ma sai anche tu che siamo agli sgoccioli: la tensione sta raggiungendo il culmine, presto o tardi basterà un incidente qualsiasi per scatenare la rivolta»

Tutti urlarono a tutti della mia presenza, probabilmente nessuno dei presenti mi riteneva dalla sua parte dato che non sapevano che fossi lì, quindi presi la lama che avevo davanti al naso e la tirai verso di me, in preda al panico: se non mi fossi difeso sarei morto su due piedi, per mano dell'una o dell'altra parte.

  
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