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Autore: Lisa_Pan    26/04/2013    0 recensioni
"Eravamo allungati sui soliti materassi, lucidamente fatti, con il cuore che pompava adrenalina in tutto il corpo, gli occhi puntati su quel pezzo di autostrada che sbucava tra i rovi, incapaci di muoverci, incapaci di reagire. Eravamo in quel momento di svolta in cui o ti alzi e ti getti nel caos che ti sei creato o finisci per essere divorato dal buio. "
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Wood

Wood

Ho conosciuto Wood in uno di quei tipici momenti della propria vita in cui non si sa un cazzo di se stessi; sapete, uno di quei momenti in cui le domande sono tante e delle risposte non se ne vede nemmeno la fottuta ombra. Non che ci mettessimo molto impegno nel cercarle, ci andava bene così. Passavamo le giornate dentro la villa dei Darling, sul ciglio dell’autostrada, strisciando sotto le assi di legno marce e il terriccio umido e schifosamente viscido. Avevamo allestito un bell’accampamento, io e Wat, avevamo svuotato la piscina fino a raschiare il fondo da tutta la merda che negli anni aveva sedimentato, avevamo bruciato quello che rimaneva della veranda ricavandone un bel falò tossico che ci aveva fatto sputare catrame dalla gola per una settimana.

Dico, io e Wat non è che avessimo molto da fare, escludendo tutta quella faccenda sul nostro futuro, era una cosa di cui non ci andava di discutere e, detto molto sinceramente, non c’era niente di cui discutere. Avevamo vent’anni e le palle piene di testosterone e incoscienza, ci fumavamo il cervello attraverso filtri di carta e plastica umide e sciolte dalla muffa, dormivamo poco e quel poco che dormivamo lo facevamo su materassi sfondati, recuperati da una delle camere del secondo piano. I vestiti erano quelli della settimana prima e i capelli crescevano indisturbati nascondendo fronte e mascella.

Avevamo famiglie deluse e aspettative buttate nel cesso, in attesa di essere scaricate insieme a cumuli di carta igienica e pranzi mai digeriti. Eravamo brave persone, nonostante tutto, non facevamo male a nessuno, semplicemente vivevamo a miglia orarie mai sfiorate da nessun’altro uomo. Acceleravamo i battiti e correvamo per strada mossi dall’unico bisogno di condividere esperienze. Il futuro era nostro, insomma: gli unici che potevano giocarselo eravamo noi e lo facevamo risparmiando sulle bollette e sulle toppe dei pantaloni. Dal buco nella siepe osservavamo le macchine sfrecciare sull’asfalto secco e dentro di noi desideravamo stenderci al centro di quella strada rovente e sentirci finiti, finiti come solo chi decide di mettere la propria vita nelle mani di un caso qualsiasi con la faccia di metallo e quattro piedi di gomma. Se fossimo sopravvissuti allora avremmo cominciato a parlare di futuro, seriamente, come solo chi ha sfidato la morte può fare.

Ma non ne avevamo il coraggio. Non solo di ficcarci sotto le ruote di un land rover, avevamo una fottuta paura di tutto: di dove poggiassimo il culo, di quali piedi calpestassimo, di quante birre potevamo permetterci, di rubare nei posti giusti e alle persone giuste. Avevamo paura d’illuderci che avremmo potuto fare qualcosa, qualcosa d’importante nella nostra vita. Perché eravamo entrambi bravi io e Wat, sapevamo pulire piscine e rimettere a posto impianti andati. Pulivamo bene i giardini e smontavamo pezzi di tutto trasformandoli in qualcosa di nuovo, qualcosa di inutile ma potenzialmente sfruttabile. Più che altro eravamo bravi a parlare; lunghi discorsi su quanto la gente morisse d’illusioni intorno a noi, di quanto ognuna di quelle macchine, quelle veloci che non facevano che sbuffare davanti alla siepe e lasciarsi dietro scie di fumo e tracce di gomma fusa, rincorresse un tempo di cui non sono nemmeno i diretti creatori. Speravamo un giorno di vederla vuota quella dannata autostrada, vuota di gente che corre e piena di gente che osserva. Niente di particolare, non credo che chiedessimo molto; è che sono tutti pronti a dirti dove sbagli, tutti con le loro belle parole messe in fila e appese ad un ipotetico filo sensato e solido. Ma, insomma, è solo un fottuto filo, nessuno si rende conto che con un paio di forbici quel filo crollerebbe a terra portandosi dietro tutte quelle alternative di vita che campano per aria senza mai darti piena soddisfazione.

Non che noi ne avessimo molta di soddisfazione nel fare quel che facevamo; perdevamo tempo, in senso figurato. Seminavamo secondi in giro per la città, terrorizzati dal fatto che nessuno riuscisse a raccoglierne un po’, disperdevamo tempo in erba, libri, istantanee appiccicate sulle pareti blu della piscina.

Un giorno, mentre seminavo qualche secondo nel buco della siepe, ho visto Wood fare l’autostop al centro della strada. A quei tempi nessuno più faceva l’autostop, quindi la cosa già mi sembrava assurda di per sé, persino io e Wat avevano una specie di mezzo cigolante, uno di quelli che non supera le sessanta e che tossisce benzina dal tubo di scappamento. Il pollice in su e un paio di cuffie impiantate nelle orecchie.

Non ricordo il perché si sia voltato verso di me, forse sentiva un paio di occhi puntati sulla schiena; il punto è che si è girato, mi ha salutato e ha attraversato l’autostrada senza nemmeno guardare se arrivasse una fottuta macchina. E’ scivolato tra le assi di legno e si è gettato sul materasso di fianco al mio, quello di Wat con le molle scoperte. Si rosicchiava un’unghia mentre con lo sguardo vagava per la villa, un giro lungo, ampio, prima il giardino, poi la facciata e poi di nuovo il giardino e poi di nuovo la facciata. Solo alla fine si è girato verso di me e mi ha salutato. Beh cazzo amico, buongiorno!

Aveva un modo di sorridere strano, strano forte. Gli mancavano i denti davanti ma per il resto era un bell’uomo. Lo era se uno scavava sotto la barba incolta, lo strato di grasso nero che gli ricopriva metà della faccia e il cappello bucato calato sulla testa. Per intenderci, sembrava uno spaventapasseri. Comunque, quel sorriso… mi ha fottuto il cervello. Era pazzo, ma pazzo veramente.

Schizofrenico, convulsivo. Glielo leggevi in faccia, il timer girava veloce, tre-due secondi e poi solo uno prima dell’esplosione. Ed esplodeva, in un modo strano. Cominciava a tremare e a sparlare, saltava e si gettava nella piscina. A volte correva per strada e si fiondava addosso alle macchine che deviavano miracolosamente prima di ridurlo in poltiglia. Quando tornava tra noi indossava solo quel sorriso strano, compiaciuto, quasi soddisfatto. Parlava tanto ma mai seriamente, non è che ci capissimo molto di quel che diceva, non eravamo nemmeno sicuri parlasse la nostra lingua.

Non era del nostro mondo, ormai ce n’eravamo fatti una ragione. Ci svegliavamo la mattina, andavamo al supermercato a comprare pop-corn in busta e aspettavamo che Wood facesse la sua magica comparsa dal buco della siepe. Non sapevi mai quanto ti toccasse aspettare, lo facevi e basta, steso sul materasso o con i piedi a penzoloni dal bordo della piscina. A volte ci alzavamo perché ci faceva male il culo con tutto quello star seduti e facevamo due passi per il giardino, sempre con gli occhi puntati verso il buco e le assi di legno marce. Ci eravamo abituati alla sua presenza, tanto che in quelle poche volte che non si presentava sentivamo la mancanza di qualcosa, come se ci fosse un vuoto da riempire e allora ci toccava riempirlo con qualcosa di fisico, materiale, come tamponi di cotone infilati nello stomaco. Poi però lo vedevi sbucare dal buco, verde su verde, muffa su muffa. Era sempre più sporco, sempre più logoro, a volte evitavamo di avvicinarci troppo per paura di consumarlo. Avevamo cominciato a costruirci su un mito, raccontavamo di lui come di un genio, il più folle tra i geni e la notte se non riuscivamo a prendere sonno ci facevamo domande.

Ecco, le prime domande che io e Wat iniziammo a farci furono su Wood. Da dove veniva? Come si era ridotto in quello stato? Da chi andava la sera, dopo aver parlato con noi? A volte tentavamo anche di risponderci, per assurdo. Noi che di risposte non ne avevamo mai avute. In quegli attimi di lucida follia ci rispondevamo che Wood fosse nessuno, non frutto della nostra immaginazione, semplicemente nessuno.  Avevamo questa teoria che essere nessuno fosse una roba assurda; io e Wat fuggivamo da una vita che non ci apparteneva, da posizioni che non avremmo mai potuto occupare o semplicemente sostenere. Per qualche millesimo di secondo, con il sangue pieno di un qualcosa d’indefinito, ci crogiolavamo in quello stato di nulla mistico e dimenticavamo i nostri nomi, i nostri luoghi, staccavamo quelle etichette dal petto e ci liberavamo dalla paura di non essere all’altezza. In quei momenti eravamo pronti a giurare di poter correre fuori dalla siepe e piazzarci al centro dell’autostrada, capaci di disegnare i nostri destini ad occhi chiusi. E proprio lì, con i piedi sulla linea bianca, immaginavamo di sentirci nessuno, perché quando sei nessuno puoi diventare chiunque. E’ come… mangiare un biscotto. C’è chi lo mangia briciola per briciola, chi lo rende morbido inzuppandolo nel latte e chi non resiste e deve buttarlo giù tutto d’un fiato. Noi eravamo del terzo tipo, eravamo convinti di poter buttare giù un biscotto intero senza masticarlo e di poter sopravvivere. Eravamo golosi di vita tanto da spingerci sull’orlo del baratro, semplicemente per gustarla da angolazioni diverse.

Il problema fondamentale di tutto questo ingozzarsi è che alla fine, in un modo o nell’altro, ti rendi conto di avere fame di altro ma lo stomaco pieno.

Wood, invece, avevo lo stomaco sempre vuoto, era uno che divorava ogni dannata cosa, fino all’ultima briciola, solo che lo faceva con gli occhi, con le mani, con i piedi. Si spingeva sempre più in là del possibile, del lecito, dello spiegabile, e barcollava ubriaco di vita fino al primo appiglio per riprendere fiato e ripartire più affamato di prima.

E’ grazie a lui che io e Wat abbiamo capito di non aver capito un cazzo di noi stessi. Credevamo di poter essere qualcuno e, per paura di avere ragione, ci siamo vestiti di convinzioni che ci sembravano solide prima che uno spaventapasseri qualunque le distruggesse e ci riportasse alla realtà.

Deve essere una specie di hobby: collezionare illusioni di cui non essere all'altezza. La cosa divertente è quando illudi te stesso mentre tenti di fuggire dalle illusioni. E’ così che Wood ci ha lasciati: disperati.

Eravamo allungati sui soliti materassi, lucidamente fatti, con il cuore che pompava adrenalina in tutto il corpo, gli occhi puntati su quel pezzo di autostrada che sbucava tra i rovi, incapaci di muoverci, incapaci di reagire. Eravamo in quel momento di svolta in cui o ti alzi e ti getti nel caos che ti sei creato o finisci per essere divorato dal buio. Un buio che non ha nulla a che vedere con il confortante essere nessuno a cui tanto ambisci.

Forse era per tutta la merda che avevamo in corpo o per il rumore costante dei clacson che copriva i silenzi forzati e le congiunzioni sconnesse, ma improvvisamente ci scoprimmo capaci di capire Wood. Le sue frasi avevano senso, un senso nuovo, folle ma comprensibile. E allora lì cominciava a venirti il dubbio: possibile che in tutto quel tempo, in tutto quell’osservare e aspettare fino a farsi venir male al culo, fossimo stati noi quelli a non parlare la lingua di Wood? Possibile che ci fossimo illusi di parlare una lingua universale senza mai comunicare davvero, capirci davvero? Dicono che è proprio di questo che si tratta, illudersi di potersi capire, di poter conoscere con esattezza quello che passa nella testa del tizio di fianco a te.

Quello che non dicono è che prima o poi arriva quel momento in cui, vuoi o non vuoi, sei in perfetta linea d’aria con la perversione di un’altra mente affine alla tua. E quella perversione è come un richiamo, ti cerca, ti sfiora e solo alla fine ti aggancia, quando sei abbastanza lucido da capire che sei fottuto.

E’ una perversione sana, più una tendenza, ecco, una tendenza ad attaccarsi a quell’ultimo barlume di follia prima che la realtà e la sanità mentale tornino a spingerti lontano dal ciglio della strada. E quell’ultimo granello di follia era nascosto in una delle due facce di una monetina da cinquanta centesimi, non sapevamo nemmeno dove la tenesse nascosta, tutte le tasche utilizzabili erano bucate o mangiucchiate.

Wood ci guardava con quel sorriso strano che non ci sembrava più tanto strano, solo familiare, e ci raccontava di noi: della voglia di stenderci a terra al centro di un’autostrada e decidere cosa farne della nostra vita; della rincorsa all’illusione; dell’amore disperato verso un fantasma oltre la siepe. Parlava la nostra lingua e noi parlavamo la sua, e la monetina girava in aria sopra le nostre teste in attesa di cadere sul palmo di Wood.

Abbiamo conosciuto Wood in quel momento della nostra vita in cui credevamo di sapere cosa stessimo facendo e ci siamo lasciati cullare dalle braccia instabili di quel pazzo verso le nostre paure, verso quel limite terrificante di asfalto nero e grigio. Avevamo bisogno di una spinta, avevamo bisogno di qualcuno che decidesse per noi, noi convinti di non aver bisogno di nulla se non di noi stessi.

E la monetina cade e Wood gira il palmo verso di noi e sorride.

Lo sapeva quel bastardo, nemmeno l’ha guardata la monetina, lui; sorrideva soddisfatto mentre indicava quell’inferno davanti a noi.

Io guardavo il centro della strada terrorizzato e, per la prima volta in vita mia, mi sentivo morto. Ma morto, morto. Un passo avanti e tutto ciò che i miei avrebbero potuto seppellire sarebbe stato un polmone, un pezzo d’intestino e magari, se mi fosse andata di culo, anche un braccio intero. Eppure non era tanto quello a spaventarmi, era che una volta che sei sul ciglio della strada, cominci a guardarti intorno e a renderti conto che l’unica direzione che puoi percorrere è quella davanti a te. Tornare indietro non è nei piani, non dopo aver trovato il coraggio di muovere il culo dal materasso e gettarmi in quell’inferno, sarebbe stato come trasformare un’illusione in delusione e io avevo smesso di giocare a quel gioco da un pezzo. Perciò l’unica era andare avanti.

Morto, mi sentivo morto. Quando sei morto non hai alternative, puoi solo aspettare che ti vengano a prendere.

E mi sono lasciato prendere, dalla frenesia di raggiungere quella stramaledetta linea bianca, con la monetina di Wood stretta in un pugno e l’ultimo briciolo di follia nell’altro. Non avevo chiuso gli occhi, non avevo smesso di osservare, mai. Il fischio dei clacson, il luccichio della ferraglia sotto il sole cocente, imprecazioni di ogni tipo.

E alla fine, lei. Bianca, al centro, dritta e ruvida.

Ero finito e l’unica cosa che sentivo esplodere nel petto era una felicità incontrollata, strabordante di soddisfazione e di una tranquillità isterica. Ero finito ma vivo. Avevo ancora gli occhi aperti e potevo vedere, e ancor prima sentire, i passi di gomma fermarsi a pochi metri dalle mie orecchie e gridare a chiunque di venire a soccorrermi. Ero finito, cazzo, ma non in senso figurato. Ero più vivo di tutti quelli stronzi che mi afferravano per i piedi e mi trascinavano lontano dalla strada, io corpo molle, malleabile, pronto a ricostruirmi. L’ultima cosa che ricordo, prima di chiudere gli occhi e godere di quel raro momento in cui, se mi chiedessero chi sono risponderei semplicemente “nessuno”, è la faccia di Wood, così fiera, così felice.

Fottuto bastardo pazzo e incosciente!

Risvegliarmi vivo era stata una bella sorpresa, una sorpresa che non ci mise molto a diventare consapevolezza. Mi avevano ripulito e ricucito e, contro ogni previsione, avevo ancora il braccio attaccato al busto. E avevo fame, fame di tutto, fame di me. Fame di me nel mondo.

Wat ha restaurato la villa e l’ha trasformata in un centro di riabilitazione, cosa che fa un po’ ridere date le condizioni in cui ci trovavamo poco meno di un mese prima; di Wood non seppi più nulla, si era come volatilizzato. Immaginavo il suo pollice in su al centro di una qualsiasi autostrada di un fottuto buco di mondo a raddrizzare la vita di poveri cristi buttati in una piscina stracolma di fango.

Io…

Io dipingo strisce bianche al centro delle autostrade.

Lo faccio nella speranza d’incontrare, prima o poi, qualche pazzo perverso disteso a terra, finito, distrutto.

Solo per vedere che faccia ha la felicità.

Ho ancora quella monetina cucita all’interno della giacca, mi ricorda che, se sono vivo, è solo grazie al palmo di Wood, al sudore di Wood, ai cinquanta centesimi che avrei dato a Wood prima di conoscerlo.

Perciò… ecco… grazie Wood, ovunque tu sia, fottuto bastardo!

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