Wood
Ho conosciuto Wood in uno di quei tipici momenti della
propria vita in cui non si sa un cazzo di se stessi; sapete, uno di quei
momenti in cui le domande sono tante e delle risposte non se ne vede nemmeno la
fottuta ombra. Non che ci mettessimo molto impegno nel cercarle, ci andava bene
così. Passavamo le giornate dentro la villa dei Darling, sul ciglio
dell’autostrada, strisciando sotto le assi di legno marce e il terriccio umido
e schifosamente viscido. Avevamo allestito un bell’accampamento, io e Wat,
avevamo svuotato la piscina fino a raschiare il fondo da tutta la merda che
negli anni aveva sedimentato, avevamo bruciato quello che rimaneva della
veranda ricavandone un bel falò tossico che ci aveva fatto sputare catrame
dalla gola per una settimana.
Dico, io e Wat non è che avessimo molto da fare, escludendo
tutta quella faccenda sul nostro futuro, era una cosa di cui non ci andava di
discutere e, detto molto sinceramente, non c’era niente di cui discutere.
Avevamo vent’anni e le palle piene di testosterone e incoscienza, ci fumavamo
il cervello attraverso filtri di carta e plastica umide e sciolte dalla muffa,
dormivamo poco e quel poco che dormivamo lo facevamo su materassi sfondati,
recuperati da una delle camere del secondo piano. I vestiti erano quelli della
settimana prima e i capelli crescevano indisturbati nascondendo fronte e
mascella.
Avevamo famiglie deluse e aspettative buttate nel cesso, in
attesa di essere scaricate insieme a cumuli di carta igienica e pranzi mai
digeriti. Eravamo brave persone, nonostante tutto, non facevamo male a nessuno,
semplicemente vivevamo a miglia orarie mai sfiorate da nessun’altro uomo.
Acceleravamo i battiti e correvamo per strada mossi dall’unico bisogno di
condividere esperienze. Il futuro era nostro, insomma: gli unici che potevano
giocarselo eravamo noi e lo facevamo risparmiando sulle bollette e sulle toppe
dei pantaloni. Dal buco nella siepe osservavamo le macchine sfrecciare
sull’asfalto secco e dentro di noi desideravamo stenderci al centro di quella strada
rovente e sentirci finiti, finiti come solo chi decide di mettere la propria
vita nelle mani di un caso qualsiasi con la faccia di metallo e quattro piedi
di gomma. Se fossimo sopravvissuti allora avremmo cominciato a parlare di
futuro, seriamente, come solo chi ha sfidato la morte può fare.
Ma non ne avevamo il coraggio. Non solo di ficcarci sotto le
ruote di un land rover, avevamo una fottuta paura di tutto: di dove poggiassimo
il culo, di quali piedi calpestassimo, di quante birre potevamo permetterci, di
rubare nei posti giusti e alle persone giuste. Avevamo paura d’illuderci che
avremmo potuto fare qualcosa, qualcosa d’importante nella nostra vita. Perché
eravamo entrambi bravi io e Wat, sapevamo pulire piscine e rimettere a posto
impianti andati. Pulivamo bene i giardini e smontavamo pezzi di tutto
trasformandoli in qualcosa di nuovo, qualcosa di inutile ma potenzialmente
sfruttabile. Più che altro eravamo bravi a parlare; lunghi discorsi su quanto
la gente morisse d’illusioni intorno a noi, di quanto ognuna di quelle
macchine, quelle veloci che non facevano che sbuffare davanti alla siepe e
lasciarsi dietro scie di fumo e tracce di gomma fusa, rincorresse un tempo di
cui non sono nemmeno i diretti creatori. Speravamo un giorno di vederla vuota
quella dannata autostrada, vuota di gente che corre e piena di gente che
osserva. Niente di particolare, non credo che chiedessimo molto; è che sono
tutti pronti a dirti dove sbagli, tutti con le loro belle parole messe in fila
e appese ad un ipotetico filo sensato e solido. Ma, insomma, è solo un fottuto
filo, nessuno si rende conto che con un paio di forbici quel filo crollerebbe a
terra portandosi dietro tutte quelle alternative di vita che campano per aria
senza mai darti piena soddisfazione.
Non che noi ne avessimo molta di soddisfazione nel fare quel
che facevamo; perdevamo tempo, in senso figurato. Seminavamo secondi in giro
per la città, terrorizzati dal fatto che nessuno riuscisse a raccoglierne un
po’, disperdevamo tempo in erba, libri, istantanee appiccicate sulle pareti blu
della piscina.
Un giorno, mentre seminavo qualche secondo nel buco della
siepe, ho visto Wood fare l’autostop al centro della strada. A quei tempi
nessuno più faceva l’autostop, quindi la cosa già mi sembrava assurda di per
sé, persino io e Wat avevano una specie di mezzo cigolante, uno di quelli che
non supera le sessanta e che tossisce benzina dal tubo di scappamento. Il
pollice in su e un paio di cuffie impiantate nelle orecchie.
Non ricordo il perché si sia voltato verso di me, forse
sentiva un paio di occhi puntati sulla schiena; il punto è che si è girato, mi
ha salutato e ha attraversato l’autostrada senza nemmeno guardare se arrivasse
una fottuta macchina. E’ scivolato tra le assi di legno e si è gettato sul
materasso di fianco al mio, quello di Wat con le molle scoperte. Si rosicchiava
un’unghia mentre con lo sguardo vagava per la villa, un giro lungo, ampio,
prima il giardino, poi la facciata e poi di nuovo il giardino e poi di nuovo la
facciata. Solo alla fine si è girato verso di me e mi ha salutato. Beh cazzo
amico, buongiorno!
Aveva un modo di sorridere strano, strano forte. Gli
mancavano i denti davanti ma per il resto era un bell’uomo. Lo era se uno
scavava sotto la barba incolta, lo strato di grasso nero che gli ricopriva metà
della faccia e il cappello bucato calato sulla testa. Per intenderci, sembrava
uno spaventapasseri. Comunque, quel sorriso… mi ha fottuto il cervello. Era
pazzo, ma pazzo veramente.
Schizofrenico, convulsivo. Glielo leggevi in faccia, il
timer girava veloce, tre-due secondi e poi solo uno prima dell’esplosione. Ed
esplodeva, in un modo strano. Cominciava a tremare e a sparlare, saltava e si
gettava nella piscina. A volte correva per strada e si fiondava addosso alle
macchine che deviavano miracolosamente prima di ridurlo in poltiglia. Quando
tornava tra noi indossava solo quel sorriso strano, compiaciuto, quasi
soddisfatto. Parlava tanto ma mai seriamente, non è che ci capissimo molto di
quel che diceva, non eravamo nemmeno sicuri parlasse la nostra lingua.
Non era del nostro mondo, ormai ce n’eravamo fatti una
ragione. Ci svegliavamo la mattina, andavamo al supermercato a comprare
pop-corn in busta e aspettavamo che Wood facesse la sua magica comparsa dal
buco della siepe. Non sapevi mai quanto ti toccasse aspettare, lo facevi e
basta, steso sul materasso o con i piedi a penzoloni dal bordo della piscina. A
volte ci alzavamo perché ci faceva male il culo con tutto quello star seduti e
facevamo due passi per il giardino, sempre con gli occhi puntati verso il buco
e le assi di legno marce. Ci eravamo abituati alla sua presenza, tanto che in
quelle poche volte che non si presentava sentivamo la mancanza di qualcosa,
come se ci fosse un vuoto da riempire e allora ci toccava riempirlo con
qualcosa di fisico, materiale, come tamponi di cotone infilati nello stomaco.
Poi però lo vedevi sbucare dal buco, verde su verde, muffa su muffa. Era sempre
più sporco, sempre più logoro, a volte evitavamo di avvicinarci troppo per
paura di consumarlo. Avevamo cominciato a costruirci su un mito, raccontavamo
di lui come di un genio, il più folle tra i geni e la notte se non riuscivamo a
prendere sonno ci facevamo domande.
Ecco, le prime domande che io e Wat iniziammo a farci furono
su Wood. Da dove veniva? Come si era ridotto in quello stato? Da chi andava la
sera, dopo aver parlato con noi? A volte tentavamo anche di risponderci, per
assurdo. Noi che di risposte non ne avevamo mai avute. In quegli attimi di
lucida follia ci rispondevamo che Wood fosse nessuno, non frutto della nostra
immaginazione, semplicemente nessuno.
Avevamo questa teoria che essere nessuno fosse una roba assurda; io e
Wat fuggivamo da una vita che non ci apparteneva, da posizioni che non avremmo
mai potuto occupare o semplicemente sostenere. Per qualche millesimo di
secondo, con il sangue pieno di un qualcosa d’indefinito, ci crogiolavamo in
quello stato di nulla mistico e dimenticavamo i nostri nomi, i nostri luoghi,
staccavamo quelle etichette dal petto e ci liberavamo dalla paura di non essere
all’altezza. In quei momenti eravamo pronti a giurare di poter correre fuori
dalla siepe e piazzarci al centro dell’autostrada, capaci di disegnare i nostri
destini ad occhi chiusi. E proprio lì, con i piedi sulla linea bianca,
immaginavamo di sentirci nessuno, perché quando sei nessuno puoi diventare
chiunque. E’ come… mangiare un biscotto. C’è chi lo mangia briciola per
briciola, chi lo rende morbido inzuppandolo nel latte e chi non resiste e deve
buttarlo giù tutto d’un fiato. Noi eravamo del terzo tipo, eravamo convinti di
poter buttare giù un biscotto intero senza masticarlo e di poter sopravvivere.
Eravamo golosi di vita tanto da spingerci sull’orlo del baratro, semplicemente
per gustarla da angolazioni diverse.
Il problema fondamentale di tutto questo ingozzarsi è che
alla fine, in un modo o nell’altro, ti rendi conto di avere fame di altro ma lo
stomaco pieno.
Wood, invece, avevo lo stomaco sempre vuoto, era uno che
divorava ogni dannata cosa, fino all’ultima briciola, solo che lo faceva con
gli occhi, con le mani, con i piedi. Si spingeva sempre più in là del
possibile, del lecito, dello spiegabile, e barcollava ubriaco di vita fino al
primo appiglio per riprendere fiato e ripartire più affamato di prima.
E’ grazie a lui che io e Wat abbiamo capito di non aver
capito un cazzo di noi stessi. Credevamo di poter essere qualcuno e, per paura
di avere ragione, ci siamo vestiti di convinzioni che ci sembravano solide
prima che uno spaventapasseri qualunque le distruggesse e ci riportasse alla
realtà.
Deve essere una specie di hobby: collezionare illusioni di
cui non essere all'altezza. La cosa divertente è quando illudi te stesso mentre
tenti di fuggire dalle illusioni. E’ così che Wood ci ha lasciati: disperati.
Eravamo allungati sui soliti materassi, lucidamente fatti,
con il cuore che pompava adrenalina in tutto il corpo, gli occhi puntati su
quel pezzo di autostrada che sbucava tra i rovi, incapaci di muoverci, incapaci
di reagire. Eravamo in quel momento di svolta in cui o ti alzi e ti getti nel
caos che ti sei creato o finisci per essere divorato dal buio. Un buio che non
ha nulla a che vedere con il confortante essere nessuno a cui tanto ambisci.
Forse era per tutta la merda che avevamo in corpo o per il
rumore costante dei clacson che copriva i silenzi forzati e le congiunzioni
sconnesse, ma improvvisamente ci scoprimmo capaci di capire Wood. Le sue frasi
avevano senso, un senso nuovo, folle ma comprensibile. E allora lì cominciava a
venirti il dubbio: possibile che in tutto quel tempo, in tutto quell’osservare
e aspettare fino a farsi venir male al culo, fossimo stati noi quelli a non
parlare la lingua di Wood? Possibile che ci fossimo illusi di parlare una
lingua universale senza mai comunicare davvero, capirci davvero? Dicono che è
proprio di questo che si tratta, illudersi di potersi capire, di poter
conoscere con esattezza quello che passa nella testa del tizio di fianco a te.
Quello che non dicono è che prima o poi arriva quel momento
in cui, vuoi o non vuoi, sei in perfetta linea d’aria con la perversione di
un’altra mente affine alla tua. E quella perversione è come un richiamo, ti
cerca, ti sfiora e solo alla fine ti aggancia, quando sei abbastanza lucido da
capire che sei fottuto.
E’ una perversione sana, più una tendenza, ecco, una
tendenza ad attaccarsi a quell’ultimo barlume di follia prima che la realtà e
la sanità mentale tornino a spingerti lontano dal ciglio della strada. E quell’ultimo
granello di follia era nascosto in una delle due facce di una monetina da
cinquanta centesimi, non sapevamo nemmeno dove la tenesse nascosta, tutte le
tasche utilizzabili erano bucate o mangiucchiate.
Wood ci guardava con quel sorriso strano che non ci sembrava
più tanto strano, solo familiare, e ci raccontava di noi: della voglia di
stenderci a terra al centro di un’autostrada e decidere cosa farne della nostra
vita; della rincorsa all’illusione; dell’amore disperato verso un fantasma
oltre la siepe. Parlava la nostra lingua e noi parlavamo la sua, e la monetina
girava in aria sopra le nostre teste in attesa di cadere sul palmo di Wood.
Abbiamo conosciuto Wood in quel momento della nostra vita in
cui credevamo di sapere cosa stessimo facendo e ci siamo lasciati cullare dalle
braccia instabili di quel pazzo verso le nostre paure, verso quel limite
terrificante di asfalto nero e grigio. Avevamo bisogno di una spinta, avevamo
bisogno di qualcuno che decidesse per noi, noi convinti di non aver bisogno di
nulla se non di noi stessi.
E la monetina cade e
Wood gira il palmo verso di noi e sorride.
Lo sapeva quel bastardo, nemmeno l’ha guardata la monetina,
lui; sorrideva soddisfatto mentre indicava quell’inferno davanti a noi.
Io guardavo il centro della strada terrorizzato e, per la
prima volta in vita mia, mi sentivo morto. Ma morto, morto. Un passo avanti e
tutto ciò che i miei avrebbero potuto seppellire sarebbe stato un polmone, un
pezzo d’intestino e magari, se mi fosse andata di culo, anche un braccio
intero. Eppure non era tanto quello a spaventarmi, era che una volta che sei sul
ciglio della strada, cominci a guardarti intorno e a renderti conto che l’unica
direzione che puoi percorrere è quella davanti a te. Tornare indietro non è nei
piani, non dopo aver trovato il coraggio di muovere il culo dal materasso e
gettarmi in quell’inferno, sarebbe stato come trasformare un’illusione in
delusione e io avevo smesso di giocare a quel gioco da un pezzo. Perciò l’unica
era andare avanti.
Morto, mi sentivo morto. Quando sei morto non hai
alternative, puoi solo aspettare che ti vengano a prendere.
E mi sono lasciato prendere, dalla frenesia di raggiungere
quella stramaledetta linea bianca, con la monetina di Wood stretta in un pugno
e l’ultimo briciolo di follia nell’altro. Non avevo chiuso gli occhi, non avevo
smesso di osservare, mai. Il fischio dei clacson, il luccichio della ferraglia
sotto il sole cocente, imprecazioni di ogni tipo.
E alla fine, lei. Bianca, al centro, dritta e ruvida.
Ero finito e l’unica cosa che sentivo esplodere nel petto
era una felicità incontrollata, strabordante di soddisfazione e di una
tranquillità isterica. Ero finito ma vivo. Avevo ancora gli occhi aperti e
potevo vedere, e ancor prima sentire, i passi di gomma fermarsi a pochi metri
dalle mie orecchie e gridare a chiunque di venire a soccorrermi. Ero finito,
cazzo, ma non in senso figurato. Ero più vivo di tutti quelli stronzi che mi
afferravano per i piedi e mi trascinavano lontano dalla strada, io corpo molle,
malleabile, pronto a ricostruirmi. L’ultima cosa che ricordo, prima di chiudere
gli occhi e godere di quel raro momento in cui, se mi chiedessero chi sono
risponderei semplicemente “nessuno”, è la faccia di Wood, così fiera, così
felice.
Fottuto bastardo pazzo e incosciente!
Risvegliarmi vivo era stata una bella sorpresa, una sorpresa
che non ci mise molto a diventare consapevolezza. Mi avevano ripulito e
ricucito e, contro ogni previsione, avevo ancora il braccio attaccato al busto.
E avevo fame, fame di tutto, fame di me. Fame
di me nel mondo.
Wat ha restaurato la villa e l’ha trasformata in un centro
di riabilitazione, cosa che fa un po’ ridere date le condizioni in cui ci
trovavamo poco meno di un mese prima; di Wood non seppi più nulla, si era come
volatilizzato. Immaginavo il suo pollice in su al centro di una qualsiasi
autostrada di un fottuto buco di mondo a raddrizzare la vita di poveri cristi
buttati in una piscina stracolma di fango.
Io…
Io dipingo strisce bianche al centro delle autostrade.
Lo faccio nella speranza d’incontrare, prima o poi, qualche
pazzo perverso disteso a terra, finito, distrutto.
Solo per vedere che faccia ha la felicità.
Ho ancora quella monetina cucita all’interno della giacca,
mi ricorda che, se sono vivo, è solo grazie al palmo di Wood, al sudore di
Wood, ai cinquanta centesimi che avrei dato a Wood prima di conoscerlo.
Perciò… ecco… grazie Wood, ovunque tu sia, fottuto bastardo!