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Autore: WestboundSign_    26/04/2013    5 recensioni
Quando muori, puoi solo guardare il mondo andare avanti senza di te.
Le persone che hai lasciato, le opportunità alle quali hai voltato le spalle.
I medici impotenti, le lacrime dei genitori.
Storia di un suicidio? Sì, il mio. Aspettando la fine.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Quando aprirono la porta era ormai troppo tardi per me.
Fu mio padre a buttarla giù, dopo aver bussato per fin troppo tempo senza ricevere alcuna risposta. Mia madre pensava stessi giocando, anche se lei non ci era mai stata agli scherzi.
Mi ritrovarono vicino al water, la testa abbandonata sul petto, i capelli neri appiccicati al viso, un po' per il sudore, un po' per il vomito.
Riuscirono a tenere indietro mia sorella, alzando la voce, come sempre.
Mia madre svenne. In più di quindici anni di vita non mi era mai successo di vederla sbiancare così, all'improvviso. Per fortuna non sbatté la testa sul lavandino, ma urtò solo il braccio di mio padre. Che dopo averla presa al volo si fiondò sul mio corpo immobile, ancora caldo.
Iniziò a balbettare, mi prese per le spalle, mi scosse, mi tirò i capelli, mi abbracciò, mi picchiò.
Ma ormai ero persa, andata.
Avrei voluto accarezzare i capelli ricci di mia madre, ma potevo solo guardare, come un'estranea, come un passante dietro le strisce gialle di una scena del crimine, come se fossi stata al cinema.
Il film, quella sera, era la mia morte.
Ci misero qualche minuto a realizzare di dover chiamare l'ambulanza, la polizia, i vigili del fuoco, i familiari, gli amici, il parroco, Dio in persona.
L'infermiere che raccolse la mia persona da terra si sporcò con il vomito, e quasi mi dispiacque per lui, che in fondo non c'entrava nulla con me, o forse sì.
Non volevo azzardarmi a dire che fosse colpa del mondo intero, anche se in fondo lo pensavo.
Forse era colpa dei cantanti, così irraggiungibili, così amichevoli.
Ma era facile dire che le cose sarebbero andate meglio quando si era su un palco di fronte a centinaia di persone adoranti. Quando si aveva una band, degli amici, una nuova famiglia, dei soldi, del talento.
Io cos'avevo? Niente, niente di tutto ciò.
Solo una connessione internet e qualche canzone da ascoltare.
Una camera tappezzata di poster, che spesso mi avevano fatta piangere.
Soldi, intelligenza, un bel viso, degli occhi profondi.
Ma il mondo era troppo grande, pieno di persone migliori di me.
Quando l'infermiere mi caricò sulla barella e, subito dopo, in ambulanza, mia sorella stava sbirciando dal terrazzo del terzo piano gli avvenimenti.
Mi chiesi se avesse capito, ma dalla mia postazione non riuscivo a vederle il viso, e solo quando due piccole lacrime brillanti sfiorarono il terreno constatai che da quel preciso momento la sua vita era segnata. Avrebbe cambiato città, in cerca dell'amore che le avevo negato. E, non trovandolo, sarebbe finita come me. O magari sarebbe stata più forte, chi avrebbe potuto dirlo?
Mia madre fece in tempo a correre fuori di casa per salire con me, nonostante fosse appena rinvenuta; mio padre ci seguì in macchina.
Il tragitto fu veloce, ma all'interno del veicolo il tempo sembrava non scorrere mai, i secondi pesavano sulle mani dei paramedici e sui vari “libera” pronunciati sconnessamente.
Addosso, avevo i vestiti di sempre.
I soliti jeans neri logori e rotti, che tanto amavo. La maglietta del mio gruppo preferito, semplice e scura. La felpa larga e piena di ricordi che mi accompagnava da sempre. Le Vans consumate.
Quando arrivammo in ospedale i miei genitori vennero fatti allontanare da un infermiere dai modi bruschi, e fu lì che mia madre crollò definitivamente. Iniziò a picchiare quell'uomo e a urlare, finché non intervenne mio padre a fermarla.
Vittime, innocenti vittime del mio ultimo attimo di egoismo.
Il primario comparì nel corridoio più o meno mezz'ora dopo.
“Temo ci sia qualcosa che dobbiate vedere”, disse, laconico.
Come automi, i miei genitori lo seguirono in una sala piccola, scura.
Al centro troneggiava un lettino verde, illuminato da un led sul soffitto.
Inutile dire che, sdraiataci sopra, c'ero proprio io.
Mia madre alzò un braccio e si portò una mano alla bocca, gli occhi spalancati e pieni di lacrime, mentre mio padre scoppiò a piangere.
Non l'avevo mai visto debole. Sembrava che solo sfiorandolo potesse sbriciolarsi in mille pezzi, o sciogliersi sotto l'effetto del sale contenuto nelle lacrime.
Il primario fece un cenno con il capo ad una infermiera, che alzò una manica della mia felpa, ben attenta a non toccare nient'altro, sul mio corpo.
Un medico riuscì a prendere mia madre al volo, prima che svenisse per la seconda volta in meno di due ore.
Il mio braccio sinistro non poteva più essere definito tale.
Lunghe, interminabili cicatrici lo ricoprivano, dal gomito fino al polso, righe continue e mostruose. Lacerate, come se qualcuno ci avesse versato sopra dell'acido. Cosa che, più o meno, era successa veramente.
“Crediamo sia... con della candeggina”.
Il sangue si era ormai seccato, ma lo spettacolo rimaneva agghiacciante.
L'infermiera alzò il braccio, mostrando la parte inferiore.
Apparentemente, sembravano solo altri segni, strane forme geometriche.
Piegando la testa, però, una scritta si formava sotto gli occhi del malaugurato spettatore.
“Roger Rabbit”.
Mio padre chiuse gli occhi, forse chiedendosi il perché.
Già, perché?
Sorrisi. Se lo sarebbero chiesto per sempre. Non l'avrebbero mai capito, mai.
Una volta che i miei genitori vennero accompagnati fuori, l'infermiera sollevò la mia maglietta, e iniziarono i controlli.
Mi chiesi se era comune per quell'ospedale ricevere giovani adolescenti morti alla domenica sera.
Dopo qualche ora, il primario ricomparve nel corridoio, e mia madre alzò la testa per la prima volta da quando era stata fatta sedere su quelle scomodissime sedie azzurre.
Mi godetti quindi la scena. “Morta...” “Sedici e dieci...” “Il vomito...” “Farmaci, di uso diverso...” “Overdose...” “Non è accaduto subito...”
Ad ogni parola del medico i miei genitori sembravano diventare più vecchi. Raggrinzirsi, morire un po' anche loro, dentro.
Avrei voluto dir loro che non era colpa loro, ma sarebbe stata una bugia.
Era colpa del mondo! Era anche colpa mia. Solo mia.
Il mio corpo venne portato in obitorio.
Quando le mie nonne vennero a trovarmi il loro dolore quasi toccò anche me.
Fra le lacrime, ricordarono gli ultimi momenti passati con me. Cercai di accarezzare i loro capelli, ma il mio tocco era inesistente, quindi feci solo finta.
Venne il turno degli zii, ma non tutti entrarono. Alcuni rimasero semplicemente a parlare fra loro sulla porta, indecisi sul da fare ma in fondo già stanchi di dover perdere tempo in quel posto orrendo.
Lo zio a cui ero più legata rimase dentro fino all'orario di chiusura, a guardarmi, e piangere, un pianto sconsolato, disperato, incontrollabile.
Lo dovettero portare via a forza, fra le urla.
Il giorno dopo vidi mia sorella entrare, spaventata e sperduta.
Era scappata di casa all'insaputa dei miei genitori, non sapevo neanche io come.
Quando mi vide lì, truccata e vestita come sempre, quasi stessi dormendo, corse ad abbracciarmi. Ma il mio corpo era freddo e non reagiva al suo tocco delicato, e non potevo più ridere e scherzare, o arrabbiarmi o offendermi o baciarla o accarezzarla.
Mi mostrò tutti i suoi disegni, mise il mio orsetto di fianco a me, e, prima di uscire, infilò le cuffie nelle mie orecchie, facendo partire la riproduzione casuale.
“Almeno non ti sentirai sola”, sussurrò baciandomi la fronte.
A casa nessuno si accorse di lei, del fatto che era uscita alle dodici e tornata alle otto, senza dire niente.
Il terzo giorno vennero a prendermi.
Tirarono fuori l'iPod e l'orso dalla bara e la chiusero prima di trasportarla nell'automobile.
Avevano deciso di lasciarla chiusa, perché ero uno spettacolo tremendo e straziante.
Durante la messa girai fra la folla, osservando le espressioni e le lacrime dei miei amici, concittadini, o semplici curiosi.
E al cimitero mi seppellirono, mentre il sole splendeva alto in cielo e gli uccelli cantavano pieni di passione.
Avevo distrutto la mia famiglia, i miei amici, la mia vita.
E quando posarono l'ultima badilata di terra sopra il legno scuro, il cielo tuonò, e una pioggia leggera si infilò sotto i vestiti delle donne e fra i capelli di mia madre.


Ringrazio MelodramaticFool_ per avermi fatto da beta. 
Il titolo della storia è preso dalla canzone dei Biffy Clyro "Machines".

   
 
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