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Autore: Rigel und Betelgeuse    03/09/2004    16 recensioni
Raccontata in prima persona da Bill Weasley. One-shot che parla della situazione di un fratello maggiore in una famiglia di sette figli e del suo rapporto con la più piccola di loro... un po' vaga, ma mi sono divertita a scriverla^^
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Weasley, Ginny Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Titolo: Nobody smiles like you (titolo originale: Home sweet Home)
Commento: Tadadadaaaan!!! La prima One-shot (in realtà la prima fic) che scrivo in vita mia, e in effetti si vede. Per dirla veramente tutta non ha ne capo ne coda, ma mi sono divertita a scriverla^^!
Listening: Breathe in (Frou Frou)

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Da che ho memoria non sono mai stato l’unico. All’età di tre anni avevo già un fratello, Charlie, che si reggeva abilmente su entrambe le gambe e che teneva discorsi di un’eloquenza impressionante per un bambino di appena un anno e mezzo.
Era come se lui ci fosse sempre stato, come se fossimo nati insieme. Così nella mia testa non sono mai stato figlio unico in tutta la mia vita. Litigavo spesso con lui, ma alla fine era divertente. Le rare volte che ci separavano mi sembrava d’essere un’anima in pena. Mi annoiavo, semplicemente. Per cui, il mio legame con Charlie è sempre stato molto solido.
Il secondo ad entrare in casa fu Percival, ed allora avevo cinque anni. Sembrano passati solo pochi mesi, e invece sono già vent’anni… Mi ricordo che la prima notte che passò in casa, appena uscito dall’ospedale, non fece altro che piangere. Io e Charlie ci eravamo appostati sulle scale, curiosi come gatti, e ci divertivamo a guardare mamma e papà che, a turno, uscivano ciondolanti dalla loro camera, trascinandosi dietro le pantofole con aria sofferente e stremata, per andare ad acquietare il sonno irrequieto di quel nuovo arrivato. Il giorno dopo dormimmo tutto il giorno e, probabilmente, assieme a noi anche Percy recuperò le ore perse durante il buio. Fu la prima notte che passai interamente in bianco. Allora mi sembrò divertente, ma non mi rendevo effettivamente conto di cosa voleva dire essere tenuti svegli da urla incessanti ed immotivate…
Quando compii sette anni trovai come regalo di compleanno due bambini uguali identici tra loro e uguali identici a come era stato Percy due anni prima e che però, invece di urlare come disperati, non facevano altro che dormire e ridacchiare. A quel punto cominciavo a seccarmi un pochino di tutta quella gente nuova che non faceva altro che entrare dalla porta di casa mia, dormire in quella che era stata la mia culla e indossare quelli che una volta era i miei vestiti. Ma comunque evitati di darlo a vedere e mi mostrai interessato nei confronti dei gemelli. La culla era stata messa nella mia stanza, perché secondo i miei genitori ero “abbastanza grande da poter dare una mano”.
La stessa sera, quando sia Fred che George cominciarono a dar voce a quel pianto che non avevano rivelato durante il giorno, e una doppia voce si levò per tutta la casa in urla incessanti, la mia pazienza cominciò a cigolare spaventosamente. Fu allora che mi resi conto che non era poi così divertente passare la notte a fare su e giù da una stanza all’altra, tirandosi dietro pannolini e biberon vari, per far scemare i lamenti di due marmocchi che non hanno nient’altro da fare che piangere e dormire.
Quando arrivò Ronald avevo nove anni e, per fortuna, Charlie ne aveva sette ed era lì a sostenermi moralmente. Mi sembrò di assistere per l’ennesima volta al medesimo dejà vu. Lo stesso bambino lentigginoso e ancora senza capelli di tante volte prima mi stava di fronte con espressione sonnacchiosa e dentro di me io non facevo altro che domandarmi che cavolo avessi fatto di male per meritarmi tutto questo. E per la terza volta un’altra serie di nottate in bianco mi attendeva minacciosa dietro l’angolo. E, come ho già detto, fortunatamente i miei genitori avevano ritenuto Charlie abbastanza in gamba da aggregarsi al club degli “Insonni per volontà o per forza”, il che significava qualche ora di sonno in più, quando le grida perpetue di Ron lo permettevano.
Qualche tempo dopo mi resi conto che il prossimo “ospite” sarebbe arrivato molto prima del previsto. Ron aveva otto mesi e la mamma un pancione di sei.
Fu davvero un brutto periodo. Ero letteralmente sgomento. Non avevo ancora compiuto dieci anni e avevo già cinque fratelli più uno in arrivo. I miei genitori avevano smesso di interessarsi con enfasi a me da un tempo che a mio parere era quasi immemorabile e io mi sentivo obbligato a stare dietro a tutta quella squadra di demolitori DOC che giravano per la Tana. A dire la verità, la situazione non era poi così drammatica. Charlie era un sostegno valido, anche se aveva l’unico compito di tenere dietro Percy che, per essere un bambino di cinque anni, era davvero tranquillo e giudizioso. Fred e George compensavano il senno del più grande, e io dovevo rimettere a posto il loro disordine e strigliarli una volta ogni tanto. Ron era ancora piccolo, e a lui ci pensavano mamma e papà…
Comunque, alla fine arrivò anche l’ultimo bambino e, con mia grande sorpresa, era diverso da tutti gli altri. Era la creatura più piccola e bianca che avessi mai visto, con gote rotondette e imporporate, costellate di efelidi, e un ciuffo di fitti capelli di un intenso rosso che raccoglievano tutti i riflessi del sole di maggio e li frammentavano in sfumature fulve e ramate.
-Si chiama Ginevra- fu la prima cosa che la mamma disse a tutte quelle teste amarantate chine a scrutare il nuovo ospite –ed è una bambina-
-Ciao Ginny- aveva cantilenato George, agitandole la mano davanti al nasino. E lei, per tutta risposta, aveva afferrato il suo dito indice con le mani minuscole e aveva aperto il più radioso sorriso che mi fosse mai capitato di vedere in tutta la vita.
Era femmina, la prima femmina tra tutti i miei fratelli, la mia unica sorellina. E per lei provai immediatamente una simpatia incondizionata. Durante tutta la settimana che seguì il suo arrivo non perdemmo neanche un’ora di sonno. Dormiva qualcosa come una ventina di ore al giorno, e per le rimanenti quattro restava sempre e comunque in una specie di dormiveglia perpetuo. E, mentre lei sonnecchiava, io la osservavo con una curiosità innata, facendo girare il carillon sopra la culla e studiando tutte le sue reazioni, ricambiando i sorrisi quando lei mi sorrideva e parlandole di cose assurde mentre lei si addormentava. Mi ci affezionai moltissimo, e credo che per lei fu lo stesso.
La Vigilia di Natale di quello stesso anno, mentre io e Charlie pelavamo una mucchia infinita di patate per la mamma (“coraggio ragazzi, non si può fare mica sempre tutto con la magia!”), Ginny si alzò in piedi un po’ barcollando e, con la massima naturalezza, uscì dalla cucina a passi decisi e si mise a sedere davanti alla porta d’ingresso, il visetto lentigginoso rivolto all’insù, ad attendere l’arrivo del papà.
Qualche mese dopo era in grado di recitare tutti i nostri nomi in ordine cronologico, partendo da ”Arhur” per concludere poi con ”Inny”. E quando fu di nuovo maggio chiacchierava così disinvoltamente che Percy dava di matto perché non riusciva a concentrarsi mentre leggeva (a quattro anni aveva imparato a leggere i libri illustrati) e i gemelli le insegnavano degli scioglilingua e delle filastrocche che nemmeno io riuscivo ancora a recitare senza impappinarmi. Era diventata la mascotte della famiglia, l’unica figlia femmina e la più piccola di sette fratelli. Però spesso si arrabbiava con Fred e George, si innervosiva con Percival e si spazientiva con Charlie che era troppo preso col quiddich (che aveva scoperto da poco) per ascoltarla. Così passava la maggior parte del suo tempo con Ron e con me che, quando mi trovavo a casa da Hogwarts, ero incaricato da fare da babysitter ad entrambi.
-Billy, leggi la storia?- era una richiesta davvero frequente da parte sua. Arrivava quasi correndo con sempre il solito libro in mano e chiedeva docilmente di leggerglielo. Io sbuffavo ed alzavo gli occhi al cielo, ma in verità non mi dispiaceva affatto accontentarla, anche se non l’avrei mai ammesso davanti ai miei genitori o ai miei fratelli.
-Va bene Gin, ma non chiamarmi Billy-
Mi sedevo per terra a gambe incrociate e lei mi si accoccolava di fianco. Ormai sapevo tutto il libro memoria, ma mi faceva piacere comunque rileggerlo tutte le volte, anche solo per sentirla ridacchiare ogni tanto e per ricevere l’abbraccio finale con il quale mi ricompensava sempre.
-Sei il mio fratello preferito- diceva ridendo.
-Che bugiarda!- facevo io di rimando –non è vero!-
-Sì, sì che è vero!-
E così passò il tempo, veloce come mai mi era sembrato prima. E, mentre io compivo quindici anni e cominciavo ad avere le prime ragazze, Ginevra ne compiva cinque, e cominciava a cambiare i primi denti.
Charlie diventava l’asso nella manica della squadra di quiddich di cui io ero capitano e Grifondoro vinceva partite su partite. Percival aveva cominciato a documentarsi su Hogwarts ben prima di mettervi piede e, quando alla fine aveva compiuto undici anni ed era entrato a sua volta a far parte dei grifoni, aveva cominciato a collezionare il massimo dei voti in quasi tutte le materie (volo non era tra queste, con grande soddisfazione sia mia che di Charlie). E poi fu il turno dei gemelli, che entravano mentre io uscivo e cominciavo a rimboccarmi le maniche per trovarmi un lavoro. Era un periodo in cui mi sentivo soffocato. Mia madre (oltre a continuare ad assillarmi per via dei capelli lunghi) voleva che entrassi a lavorare al Ministero, assieme a mio padre, ma io non ero decisamente il tipo che poteva starsene chiuso una dozzina di ore al giorno dentro un cubicolo senza finestre e stipato di carte… Poi un giorno qualcuno mi propose quello che sembrava decisamente un bell’affare: lavorare per il Ministero della Magia standomene in Egitto a scartabellare in mezzo a sabbia e piramidi. Oltretutto mi interessava, e quindi un bel giorno raccolsi baracca e burattini e salutai tutti quanti per lasciare l’Inghilterra e trasferirmi nel deserto. Mia madre era un po’ contrariata, ma solo il fatto di sapere che lavoravo per il Ministero la fece rallegrare. Mio padre era entusiasta, oltremodo incuriosito da tutta la faccenda. Mio fratello Charlie sembrava felice e un po’ ansioso. Prima di partire mi abbracciò più o meno una mezza decina di volte. Percy mi scrutava dall’alto in basso, continuando a ripetermi dubbioso –Ma sei sicuro di quel che fai?-.
I gemelli erano euforici. Volevano partire assieme a me, ansiosi di vedere “una mummia in carne ed ossa”, queste furono le loro parole. Anche Ronald sembrava incuriosito. -Scrivi, mi raccomando!- esclamò strizzandomi l’occhio, il che mi fece sorridere parecchio.
Quella mattina erano scesi tutti quanti in cucina per salutarmi, tutti tranne Ginny. La cosa mi colpì parecchio, non capivo come mai non fosse uscita anche lei dalla sua camera a dirmi almeno “arrivederci”. Così salii in camera sua e la trovai in lacrime, con la testa nascosta sotto il cuscino come uno struzzo, rannicchiata sul suo letto e scossa da singhiozzi incontrollati. Ci rimasi male, lo ammetto. Quando mi sedetti accanto a lei e le chiesi perché stava facendo una scenata, le si mise a sedere e mi buttò il guanciale in faccia.
-Perché te ne vai così lontano?- si era messa a gridare così forte che avevo paura che venisse qualcuno a controllare che tutto andasse bene –Perché vai via adesso, perché hai aspettato così tanto a dirlo? Non stavi bene qui?-
Allora provai a spiegarle tutta la faccenda, ma mi trovai improvvisamente senza parole e lei s’infuriò ancora di più.
-Ti odio, ti odio!-
-Ginny smettila!- era raro che alzassi la voce con lei, ma sembrava completamente uscita di senno. E funzionò. Abbassò la testa e moderò i singhiozzi, poi mi si aggrappò ad un braccio senza guardarmi in faccia –Non puoi…restare?-
No, non potevo. Anche se quella volta fui veramente tentato di rinunciare. Allora glielo spiegai e lei capì come stavano le cose. Non scese di sotto, mi salutò da camera sua, sbucando dalla finestra e agitando la mano, costringendosi a sorridere.
Così partii per l’Egitto. Da là scrivevo a casa ogni mese, con una lettera alla famiglia ed una lettera per Ginevra. Lei era la prima a rispondere e riempiva sempre i fogli con disegnini buffi che quasi sempre si riferivano a Percy, Ron o alla mamma. Dopo quasi un anno tornai a casa per la prima volta e trovai tutti cresciuti. Ginny era sorridente come al solito e fu lei ad aprirmi la porta e a saltarmi quasi in braccio. Quando, una settimana dopo, ripartii lei fu la prima a scendere per salutarmi.
-Portami un libro illustrato la prossima volta- aveva chiesto sorridendo.
Non passò troppo tempo prima che mi mandassero la lettere nella quale mi informavano che Charlie era partito per la Romania, a studiare i draghi, e che Ron era entrato ad Hogwarts ed, ovviamente, era stato smistato in Grifondoro. L’anno dopo anche Ginevra entrò nella scuola, e anche lei era grifone. Durante una delle mie fugaci visite alla famiglia venni a sapere che Ginny si era presa una cotta per Harry Potter, quell’Harry Potter che era sopravvissuto a Voldemort e che io conobbi di persona solamente in seguito.
Tutte le volte che tornavo in Inghilterra dall’Egitto, trovavo la mia famiglia cambiata, e la mia Ginny sempre più cresciuta. E tutte le volte, puntualmente, lei mi chiedeva di raccontarle delle piramidi e io, in cambio, le chiedevo di raccontarmi della scuola e dei suoi amici. Non ho mai toccato direttamente il tasto Harry ma lei fiutava a naso quando cominciavo ad indagare e cambiava abilmente discorso.
Ora compie quindici anni e io quasi venticinque. Di tutta la mia famiglia, Ginevra è quella che conosco da meno tempo, eppure è come se fosse nata assieme a me, come se i veri gemelli della situazione fossimo io e lei. E lei è il membro della mia famiglia che preferisco, non solo perché è la più piccola e l’unica femmina dei miei fratelli, ma perché capisce sempre al volo tutto quanto, anche se tra me e lei c’è la bellezza di dieci anni.
Perché lei mi ha sempre confessato tutto e ha sempre intuito tutto senza che io dicessi nulla, perché si è sempre fidata e ha dimostrato di essere degna della mia fiducia e soprattutto perché sorride come nessun altro nella mia famiglia sorride.

-Bill, e Fleur che fine ha fatto?- chiede guardandomi di traverso, un sopracciglio inarcato, mentre passa un canovaccio sul tavolo. Alzo gli occhi dal giornale con aria annoiata.
-Fleur? Quale Fleur?-
Lei mi guarda con gli occhi sgranati, poi sghignazza furbescamente.
-Dai Bill, seriamente! Oh, scommetto che non ce l’hai fatta, eh?-
-Vedi- faccio con davvero poco interesse, sfogliando il giornale –Fleur è … bèh per essere carina è carina, ma… è una persona un po’ particolare e…Gin?! Gin, ti pregherei di non ridere-
Lei cerca di trattenere le risate, tappandosi la bocca con una mano, ma è perfettamente inutile.
-Eheheh…cielo, dovresti vedere la tua faccia- scoppia alla fine, tenendosi la pancia –Io lo dicevo che ti saresti stufato! Vedi? Vedi?! Avanti, dillo che la tua fantastica sorellina ha sempre ragione! Dillo che sono una maga!-
-Sei una strega- sbotto io, chiudendo il giornale e poggiandolo al tavolo.
-Certo che lo sono!- esclama lei con ovvietà.
-Di che parlate?- chiede Ron, sbucando sulla soglia sgranocchiando una mela.
-Niente…-
-Niente…- conferma Ginevra, annuendo con un ampio sorriso.
Ridacchio. Non c’è nulla da fare, nessuno sorride come Ginny.
  
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