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Autore: sleepingwithghosts    30/04/2013    1 recensioni
"Ero finito. Sarei morto.
Ero imperfetto, piccolo. Sarei morto.
Ero umano: sarei morto presto."
Michelangelo era un uomo come tutti noi. Un genio, ma un uomo.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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MICHELANGELO

 

« [...] quel ch'a par sculpe e colora,
Michel, più che mortale, Angel divino »

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso.

 

 

Ero finito. Sarei morto.
Ero imperfetto, piccolo. Sarei morto.
Ero umano: sarei morto presto.

 
Guardavo il blocco di pietra che mi stava davanti gli occhi come avevo sempre visto qualsiasi altro blocco di pietra: vivo. C’era la vita dentro di esso. C’erano uomini, donne, bambini, il cristo morto e qualche eroe greco. C’erano vittorie e sconfitte, amore, odio, tristezza, angoscia, bellezza, solitudine e ancora amore. Tutto dentro, racchiuso in quello scrigno minerale solidissimo.
Impugnai meglio lo scalpello e cominciai a battere. Qualche colpo leggero che si limitava a scalfire la pietra, altri a strisciarla appena, altri a frantumarla e farla cadere ai miei piedi. Qualche colpo e mi fermai ad osservare quel nulla diventare reale, diventare vita. Ci lavorai tutta la notte: un braccio, qualche dettaglio del busto appena accennato. Poi mi fermai, gli occhi offuscati e le mani stanche e dolenti.
L’insonnia ormai faceva parte della mia vita, e testimone ne erano le occhiaie molli e rugose che avevo in faccia. Ero solito vagare per le stanze di casa mia, prima per bere un sorso di qualcosa di fresco, dopo per lavarmi le mani sporche di polvere. Rimanevo sveglio, a fissare la pelle cadente delle mie braccia e le mie opere sempre più imprecise.
L’avevo capito da un po’, che le cose erano cambiate. Avevo capito che io ero cambiato. Stavo diventando vecchio, e non c’era niente di innaturale e stupido in tutto ciò, ma l’unica cosa che riuscivo a pensare di me era proprio quello “sei uno stupido”. Perché io ci credevo davvero, che sarei stato immortale, che la mia bravura mi avrebbe portato in alto, sempre più in alto, su, dove sta Dio. Lo stesso Dio che mi aveva dato una vista eccellente, dei muscoli possenti, una forza bruta, e che adesso mi sta portando via tutto, anche me stesso.
Era in momenti come quello che mi chiedevo veramente chi fossi, che cosa avevo fatto nella vita, quali erano stati gli errori, e perché diavolo ero così umano. Perché io la sentivo costantemente, quella sensazione nello stomaco che non mi faceva stare bene. I miei tormenti, le mie mancanze, le mie tristezze.
Mi distesi a letto, che protestò cigolante sotto il mio peso, e persi la faccia dentro al cuscino morbido. Mi imposi di dormire, e lo feci, per qualche ora, agitandomi a destra e a sinistra, rannicchiandomi su me stesso per scaldarmi di più e sbattendo le palpebre ogni volta che mi svegliavo, riperdendo conoscenza in pochi istanti. Quando i crampi alle gambe si impossessarono di me, lo presi come un chiaro segno che chi dorme non piglia pesci, e, vestito, mi rimisi al lavoro. Scalpellai per tutto il giorno, con le dovute pause, e ciò che ne uscì fu un uomo. Ci vedevo sofferenza nel viso, e in quella gamba e quel busto piegati in modo innaturale. Ci vedove sofferenza e tristezza, tutto in lui urlava “non vado bene, non sto bene!”. Quell’uomo ero io.
Ne rimasi molto turbato, e senza cena, mi coricai a letto, dove ci rimasi per tutto il giorno seguente, ignorando la pretesa di allungarsi delle mie ossa e i morsi della fame. Non ce la facevo proprio, ad alzarmi e a vedermi brutto e insofferente, un pezzo di pietra.
Nei giorni seguenti, dopo aver nascosto quella statua che tanto mi angustiava, non toccai scalpello. Uscivo di casa il più possibile, anche solo per guardare per un po’ il cielo e fare quattro chiacchiere con qualcuno che non fosse la mia mente. Sapevo bene, comunque, che non sarei potuto fuggire per sempre.
Un tardo pomeriggio rincasai e mi misi a fare quello che sapevo fare meglio: modellare la pietra. Ero nato per quello. Dio stesso mi aveva dato quel dono, il dono della vita, della creazione della bellezza. Ero il suo braccio destro, lui ideava e io facevo, faticavo e facevo apparire quello che lui voleva facessi.
Lavorai a quel corpo umano per giorni, completai il volto, il busto, le gambe e le braccia. Ma lo lasciai così, un po’ dentro e un po’ fuori dal blocco di pietra, un po’ vivo e un po’ no, un po’ finito e un po’ infinito. Era una bella statua, ero ancora bravo, ma di certo non era il David. Non era bello, né giovane, né grande e perfetto. Non era un eroe greco, forte senza paura. Le paure lo dominavano, gli mangiavano le viscere.
Lo lasciai come me, quello schiavo: con i suoi tormenti, con la sua finitezza. Perché lui non era un Dio, era solo un’idea di Dio. Perché io non ero Dio, ero solo un uomo. Uno schiavo della vita.

In quel momento non sapevo, comunque, che sarei passato alla storia. Ero solo Michelangelo Buonarroti, un agglomerato di paure e dubbi. Sarei diventato un genio, ma non lo sapevo ancora. Sarei diventato famoso, grande. Non ero solo un uomo, io ero un Dio.

 

 

 

Note
Non so da dove sia uscita fuori questa cosa, ma ho davvero, davvero amato il non-finito di Michelangelo, e il significato che ha. Non sono un uomo, non sono un artista e non sono lui, ma mi ci sono immedesimata ed è stato interessante. Un qualcosa un po’ diverso che spero sia piaciuto anche a voi. D.

  
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