MICHELANGELO
« [...]
quel ch'a par sculpe e colora,
Michel, più che mortale, Angel divino »
Ludovico
Ariosto, Orlando Furioso.
Ero finito. Sarei
morto.
Ero imperfetto,
piccolo. Sarei morto.
Ero umano: sarei morto
presto.
Guardavo il blocco di
pietra che mi stava davanti gli occhi come avevo sempre visto qualsiasi
altro
blocco di pietra: vivo. C’era la vita dentro di esso.
C’erano uomini, donne,
bambini, il cristo morto e qualche eroe greco. C’erano
vittorie e sconfitte,
amore, odio, tristezza, angoscia, bellezza, solitudine e ancora amore.
Tutto dentro,
racchiuso in quello scrigno minerale solidissimo.
Impugnai meglio lo
scalpello e cominciai a battere. Qualche colpo leggero che si limitava
a
scalfire la pietra, altri a strisciarla appena, altri a frantumarla e
farla
cadere ai miei piedi. Qualche colpo e mi fermai ad osservare quel nulla
diventare reale, diventare vita. Ci lavorai tutta la notte: un braccio,
qualche
dettaglio del busto appena accennato. Poi mi fermai, gli occhi
offuscati e le
mani stanche e dolenti.
L’insonnia ormai faceva
parte della mia vita, e testimone ne erano le occhiaie molli e rugose
che avevo
in faccia. Ero solito vagare per le stanze di casa mia, prima per bere
un sorso
di qualcosa di fresco, dopo per lavarmi le mani sporche di polvere.
Rimanevo
sveglio, a fissare la pelle cadente delle mie braccia e le mie opere
sempre più
imprecise.
L’avevo capito da un
po’, che le cose erano cambiate. Avevo capito che io ero
cambiato. Stavo
diventando vecchio, e non c’era niente di innaturale e
stupido in tutto ciò, ma
l’unica cosa che riuscivo a pensare di me era proprio quello
“sei uno stupido”.
Perché io ci credevo davvero, che sarei stato immortale, che
la mia bravura mi
avrebbe portato in alto, sempre più in alto, su, dove sta
Dio. Lo stesso Dio
che mi aveva dato una vista eccellente, dei muscoli possenti, una forza
bruta,
e che adesso mi sta portando via tutto, anche me stesso.
Era in momenti come
quello che mi chiedevo veramente chi fossi, che cosa avevo fatto nella
vita,
quali erano stati gli errori, e perché diavolo ero
così umano. Perché io la
sentivo costantemente, quella sensazione nello stomaco che non mi
faceva stare
bene. I miei tormenti, le mie mancanze, le mie tristezze.
Mi distesi a letto, che
protestò cigolante sotto il mio peso, e persi la faccia
dentro al cuscino
morbido. Mi imposi di dormire, e lo feci, per qualche ora, agitandomi a
destra
e a sinistra, rannicchiandomi su me stesso per scaldarmi di
più e sbattendo le
palpebre ogni volta che mi svegliavo, riperdendo conoscenza in pochi
istanti.
Quando i crampi alle gambe si impossessarono di me, lo presi come un
chiaro
segno che chi dorme non piglia pesci, e, vestito, mi rimisi al lavoro.
Scalpellai per tutto il giorno, con le dovute pause, e ciò
che ne uscì fu un
uomo. Ci vedevo sofferenza nel viso, e in quella gamba e quel busto
piegati in
modo innaturale. Ci vedove sofferenza e tristezza, tutto in lui urlava
“non
vado bene, non sto bene!”. Quell’uomo ero io.
Ne rimasi molto
turbato, e senza cena, mi coricai a letto, dove ci rimasi per tutto il
giorno
seguente, ignorando la pretesa di allungarsi delle mie ossa e i morsi
della
fame. Non ce la facevo proprio, ad alzarmi e a vedermi brutto e
insofferente,
un pezzo di pietra.
Nei giorni seguenti,
dopo aver nascosto quella statua che tanto mi angustiava, non toccai
scalpello.
Uscivo di casa il più possibile, anche solo per guardare per
un po’ il cielo e
fare quattro chiacchiere con qualcuno che non fosse la mia mente.
Sapevo bene,
comunque, che non sarei potuto fuggire per sempre.
Un tardo pomeriggio rincasai
e mi misi a fare quello che sapevo fare meglio: modellare la pietra.
Ero nato
per quello. Dio stesso mi aveva dato quel dono, il dono della vita,
della
creazione della bellezza. Ero il suo braccio destro, lui ideava e io
facevo,
faticavo e facevo apparire quello che lui voleva facessi.
Lavorai a quel corpo
umano per giorni, completai il volto, il busto, le gambe e le braccia.
Ma lo
lasciai così, un po’ dentro e un po’
fuori dal blocco di pietra, un po’ vivo e
un po’ no, un po’ finito e un po’
infinito. Era una bella statua, ero ancora
bravo, ma di certo non era il David. Non era bello, né
giovane, né grande e
perfetto. Non era un eroe greco, forte senza paura. Le paure lo
dominavano, gli
mangiavano le viscere.
Lo lasciai come me,
quello schiavo: con i suoi tormenti, con la sua finitezza.
Perché lui non era
un Dio, era solo un’idea di Dio. Perché io non ero
Dio, ero solo un uomo. Uno
schiavo della vita.
In quel momento
non
sapevo, comunque, che sarei passato alla storia. Ero solo Michelangelo
Buonarroti, un agglomerato di paure e dubbi. Sarei diventato un genio,
ma non
lo sapevo ancora. Sarei diventato famoso, grande. Non ero solo un uomo,
io ero
un Dio.
Note
Non so da
dove sia
uscita fuori questa cosa, ma ho davvero, davvero
amato il non-finito di Michelangelo, e il significato che ha.
Non sono un
uomo, non sono un artista e non sono lui, ma mi ci sono immedesimata ed
è stato
interessante. Un qualcosa un po’ diverso che spero sia
piaciuto anche a voi. D.