Remus sapeva
Remus sapeva — che il torpore incoraggiante della primavera sarebbe poi sfociato nel rimorso secco dell’inverno.Remus sapeva — che lui sarebbe partito col vento e la moto, che il viaggio l’avrebbe cambiato, i viaggi ti cambiano sempre un po’.
Remus lo sapeva — che i baci ubriachi si dimenticano in una notte e quelli mai dati si ricordano a lungo, che le promesse fatte a diciassette anni sono fallaci e mutevoli come la luna, che tutto sarebbe stato un po’ meno uguale a se stesso, dopo.
Era Sirius a non saperlo.
Sirius che prendeva, avvolgeva, sfiorava. Sfiorava.
E Remus sfioriva, come i petali dei peschi, troppo presto.
Perché Sirius era Sirius e taceva, prendeva, partiva, insieme stringeva e lasciava.
A volte tornava.
E sempre, sempre Remus ricominciava.
Tornava. Imperfetto come il tempo verbale più poetico e stronzo.
Vago, indefinito, idealmente perpetuo.
Ma la realtà faceva schifo, la poesia non esisteva e di perpetuo c’era solo il gocciolio del rubinetto nella cucina squallida.
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