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Autore: Zaratustra    01/05/2013    1 recensioni
Vittorio è una storia che è nata due anni fa nella mia mente, ma con il passare del tempo ha subito molte variazioni. Il fatto di dover raccantora la storia da un punto di vista così diverso dal mio ha creato non pochi problemi alla costruzione dell'opera, ma adesso penso di essere arrivata ad un compromesso fra la voce di Vittorio e la mia, lasciando che tutte e due le voci coincidano.
Vittorio è un soldato di Roma, ma una Roma lontana dai fasti della tarda età repubblicana o imperiale; siamo nell periodo dell'assediuo di Mediolanum da parte dei romani per sottrarre il territorio ai galli. Vittorio è il migliore soldato dell'esercito stanziato in quella zona, perchè è l'unico che non vuole tornare a casa, vuole, forse, morire lì.
Nulla riesce a smuoverlo dalla volontà di non tornare mai più nella sua casa di campagna, dal suo dolore. Il problema è che il dolore che pensa di aver racchiuso dietro la porta di legno di casa sua ora vuole raggiungerlo e costringelo a combatterlo, o a disintegrarsi con esso.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Nella mia vita non avevo mai un paesaggio più bello.
Il sole calava giocando con le montagne dolcemente frastagliate. Tutto era di un colore rosso cremisi.
I raggi del sole che sfioravano la mia pelle mi rievocavano alla mente l’abbraccio dolce che mia madre mi dava per dimostrarmi il suo amore incondizionato.
Il ruscello gorgogliante si scontava nel suo lento scorrere con alcune rocce, ricoperte da uno spesso strato di alghe sulla parte che non veniva a scontrarsi direttamente con il fiume, e questo scontro violento faceva alzare in aria migliaia di gocce che per quell’istante brillavano come stelle nel cielo nero.
Il vento sfiorava il mio volto come una pesante carezza. Tutto intorno taceva, l’unico rumore era quello delle foglie che sfregando contro i rami provocavano quell’ineguagliabile fruscio e quel particolare odore di casa.
Peccato che la casa fosse così lontana.
Purtroppo avevo, però, già visto nella mia vita un paesaggio così turpe e sporco, una bellezza così violentemente violata dal sangue.
I corpi senza vita e le loro ombre si stagliavano sulla piana un tempo verde, ormai senza più un filo d’erba pulito, un fiore di diverso colore dal rosso.
Il vento cambiò rapidamente direzione e portò alle mie narice l’odore acre, pesante e opprimente del sangue.
L’unico segno di pietà, di una qualche umanità, in quella valle ormai segnata eternamente dalla morte erano quattro uomini due amici, due nemici, ma in quel frangente non importava. Erano quattro uomini accumunati dal pesante fardello di dire a una moglie, una madre, un padre, un figlio che del loro caro non rimaneva altro che un corpo mutilato, decapito, squartato, irriconoscibile; dilaniati dalla paura di vedere lacrime salate scendere lente o copiose e di dover rimare impassibili e consegnare una spada, un elmo, una corazza come unico conforto alla famiglia.
I quattro uomini raccoglievano i corpi o i resti di questi, cercando di riconoscere i compagni, poi lentamente li riportavano al campo.
Portavano le anime di quelli nel lugubre Ade e le loro, contemporaneamente, nell’oscuro e tetro burrone della disperazione, perché erano coscienti che probabilmente loro, tra poco, seguiranno le anime nei compagni nell’Ade. 
“Comandante gli uomini sono stanchi di aspettare cosa devo digli?” disse alle mie spalle Lucio. “Vogliono sapere dove devono essere collocati per il loro lavoro di vigilanza notturna”.
Lucio era un ragazzino di diciotto anni che stava partecipando alla sua prima vera campagna militare.
Agile e veloce in campo, mi preoccupava però la sua magrezza. Alto più di un metro e ottanta, quando era a petto nudo si potevano contare le costole e la carente muscolatura lo rendevano più adatto al lavoro di messaggero che di fante in prima linea.
Era simpatico e solare con un sorriso contagioso, con i suoi capelli scarmigliati neri e quegli occhi scuri.
Era un perfetto ragazzo della sua età.
C’era solo un problema ed era che quegli occhi erano, da un po’ troppo tempo, oscurati da oscure ombre. Quelle ombre era il prominente segnale di una sua instabilità, di una sua difficoltà ad affacciarsi a questa vita di militare.
Adesso era meglio togliermi dalla testa i problemi personali di Lucio e risolvere il problema delle sentinelle.
“I miei uomini devono fare il secondo turno di guardia nel quadrante sud e in quello nord, il terzo nel quadrante nord e il quarto in quello est, giusto?” chiesi pensieroso a Lucio. “Sì, capitano, ma il console a esonerato il suo reparto dal quarto turno e a ricollocato i suoi uomini a curare i cavalli.” Rispose Lucio titubante.
I cavalli non l’ingresso più scoperto- pensai tra me - davvero il console mi dava così poca fiducia?
“Bene! Allora dì a Claudio, Giulio, Marco, Iulio che saranno loro a fare il secondo turno di guardia insieme ai quattro uomini di Cirro. Varro e Tito faranno il quarto turno alle stalle, e digli da parte mia che il loro lavoro è molto importante e se un solo cavallo si fa male, gli uccido! Petronio e Silla faranno il terzo turno.”
Ripresi fiato e poi continuai: “Avvertili, anche, che se mi mettono ancora fretta per un qualsiasi motivo mentre sto pensando gli farò pagare gravemente questo affronto.” Ordinai con voce forte e determinata a Lucio.
Lui mi guardò con sguardo esitante, dover parlare così a uomini che erano il triplo di te non era facile, allora mentre Lucio scendeva lentamente dalla collina verso il gruppo di soldati in attesa, mi voltai e urlai al gruppo: “Cani rognosi! Se sento solo che uno di voi ha in qualche modo provocato scompiglio gli farò rimpiangere di essere nato!”.
Lucio si era voltato in quel momento per guardarmi e proprio in quell’attimo passò nel suo sguardo un’ombra provocata dall’odierno massacro.
Avevo notato che era troppo attento alla vita del nemico, era quello che provocava quelle ombre, ma io non lo avrei rassicurato che sarebbe stato più facile uccidere con il passare del tempo, perché avrei mentito.
Più il tempo passava più le immagini indelebili delle persone uccise dal mio gladio, mi perseguitavano nei miei sogni.
Il tempo serviva solo a distruggere la tua compassione, a rendere lo sguardo impenetrabile e la tua anima vuota ma pesante per l’odio provato per te stesso, per il nemico, per gli dei, per l’amore, per la paura, per il pesante corazzamento, per il sangue, per il suo odore, per il suo colore, per il suono inquietante di un osso rotto, per la perdita di un compagno, di un amico.
Voltai lo sguardo dal gruppo alla piana e poi all’accampamento.
Cinquecento tende erano disposte in ordine sul terreno. Quattro stendardi con in cima un aquila sventolando lenti all’arrivo di una folata di vento.
I fuochi erano stati spenti. Solo quello centrale era rimasto acceso insieme alle fiaccole sul perimetro.
Intorno regnava il silenzio, l’unico rumore erano i passi delle sentinelle attutite dall’erba.
M’incamminai verso la mia tenda situata quasi al centro dell’accampamento, vicino a quella del console Marcello.
Dopo la presa di Castillum, rinominato dai noi romani Mediolanum, ci stavamo spostando verso nord nella Gallia Cisalpina per sconfiggere le ultime sacche di resistenza nemiche che si erano radunate sotto un unico capo per ricacciare indietro i Romani.
I Galli erano robusti e agili combattenti e la loro mole molto più sviluppata di quella dei soldati romani non li svantaggiava per nulla.
Visti la mattina con il sole che sorgeva alle loro spalle sembravano un’armata divina con i loro capelli lunghi, scuri e scarmigliati che gli sfioravano il viso e il collo.
Visti al tramonto dopo un intero giorno di battaglia sanguinosa ricordavano dei famelici lupi che avevano appena finito di sbranare la loro preda con le barbe incolte imbrattate di sangue.   
I Galli avevano un macabro sorriso quando incominciavi a combattere con loro e non supplicavano mai pietà o scappavano davanti ai nemici e se ci provavano un altro gallo, ti toglieva l’onore di ucciderlo, una cosa che ammiravo e volevo infondere anche ai miei soldati.
Le loro donne invece erano minute e abbastanza formose.
I loro capelli andavano dal nero pece al biondo del grano maturo e anche gli occhi erano di molti colori diversi, alcune avevano perfino gli occhi di un colore così azzurro da ricordare un lago di montagna.
Quando si scrutavano le donne durante le esplorazioni, avevano un sorriso ampio e sereno, ma se le rincontravi mentre i loro uomini erano in guerra nel loro sguardo, vedevi saettare nei loro occhi la determinazione di proteggere la loro famiglia fino alla fine.
Mi ricordavano la mia donna o almeno quella che avevo visto prima che …  
Non poteva essere una lacrima quella che scendeva lenta sulla mia gota, mi dissi.
La asciugai con violenza con la mano callosa resa così dal duro lavoro e dalla vita militare.
Non si deve piangere, -mi ripetei come un mantra nella mia mente- non si deve supplicare, non ci si deve mai arrendere.
Erano le mie regole e non le avrei abbandonate proprio adesso!
Scostai la cortina di tessuto che copriva l’entrata della mia tenda e scrutai l’interno. Sulla sinistra erano ammassati dei grandi bauli che contenevano l’abbigliamento, sulla destra c’erano due grandi catini per l’acqua, uno fungeva anche da vasca improvvisata e al centro c’era il mio letto … e una donna? Non l’avevo portata io dentro la tenda.
La donna era sporca di fango ormai asciutto su tutto il corpo e soprattutto trai capelli che avevano preso il colore marrone chiaro del fango, ma nei punti dove lo sporco non era arrivato, si vedevano ciocche bionde di un colore molto vicino al grano.
I suoi occhi erano verdi, di un verde che ricordava le foglie delle querce in estate, e proprio quegli occhi mi guardavano sfrontati e penetranti, pronti a sfidarmi a toccarla.
Il corpo era sorretto dagli avambracci e questo mi fece capire insieme al movimento veloce del petto che doveva essere appena stata depositata nella mia tenda.
Il corpo era coperto da un leggero vestito che era stato violentemente stappato sul petto e quell’ampia scollatura si apriva ogni volta che il petto si sollevava rendendomi visibile il bianco seno della donna.
“Chi sei?” gli chiesi imperioso, ma lei non rispose, forse non capiva. “Ti hanno portato qui i miei uomini?” riprovai e questa volta lei annuì.
Perciò sapeva la mia lingua, ma non voleva usarla.
I miei uomini dovevano averla trovata da sola durante una ricognizione e portandomela pensavano di farmi un grande piacere, poiché io e i soldati non vedevamo una donna da quel punto di vista da circa un anno.
Avrei ripreso i miei uomini il giorno dopo.
Non avevano avuto una bruttissima idea ma ora in terra nemica, l’attacco poteva essere imminente, non potevo farmi trovare sorpreso e impreparato.
Qualcosa di umido mi colpì la guancia.
Mi avevasputato addosso!
La rabbia invase la mia mente in un attimo, ma la trattenni, non avevo mai pestato né violentato una donna e non avrei iniziato adesso.
La tirai violentemente per un braccio e la posi davanti a me.
“Non provare più a fare una cosa del genere, capito!” quasi urlai.
Il suo sguardo passò dallo sfrontato allo spaventato.
Feci un profondo respiro per calmarmi e ripresi con una voce più controllata: “Stai tranquilla, non ti farò del male e per dirla tutta non m’interessi neanche dal punto di vista fisico.”
Detto questo, mi diressi verso i bauli.
Quando sentì l’inconfondibile rumore di passi alle mie spalle, l’avvertii “Non provare a fuggire, o ti darò a un uomo meno gentile, di quanto lo sia stato io adesso”.
Lei si fermò all’istante.
C’erano tre bauli uno accatastato sull’altro nella parte sinistra della tenda: uno adesso era vuoto perché il suo compito era contenere il vestiario e l’armatura che indossavo in quel momento, un altro conteneva le armi e l’ultimo conteneva tessuti che fungevano da coperte.
Aprì l’ultimo.
Mentre scrutavo dentro il baule, ripensai alle tante notti da soldato semplice passate all’addiaccio con il freddo pungente che entrava nelle ossa e non ti abbandonava fino al mattino. Mi ricordavo ancora troppo vivamente come per riscaldarci a vicenda ci stendevamo tutti vicini e a volte si usavano gli stessi compagni come coperte.
Solo i più forti resistevano e si fortificavano maggiormente, tutti gli altri pian piano durante la marcia si accasciavano a terra stremati, infreddoliti, morti.
Niente toccava a questi, neanche la sepoltura, erano abbandonati sul terreno e diventavano macchie sempre più piccole all’orizzonte mentre la lunga colonna davanti a loro si allontanava.
Dentro il baule c’erano coperte di diverso genere.
Sopra tutte c’era una pelliccia marrone che teneva molto caldo, ma quella sera il vento veniva da sud e si poteva combattere il freddo con coperte più leggere.
Frugando fra le varie stoffe arrivai alla decisione di prendere in considerazione solo due coperte una di lino e una di lana.
Normalmente a una prigioniera non si davano coperte o altre cose che potevano renderle confortevole la vita, ma se si dava qualcosa a una schiava normalmente si davano le cose d’infimo valore.
Quella consapevolezza però non scalfì la mia decisione di darle la coperta di lino; così la lanciai dietro di me senza voltarmi.
“Prendi la coperta copriti e va a dormire” gli ordinai perentorio.
Lei seguì gli ordini senza ribattere.
Quando mi accorsi che lei stava dormendo mi spogliai e con la coperta di lana ancora stretta in pugno, mi coricai sul giaciglio di cuscini.
La coperta era di lana grezza e il suo colore era un giallastro sporco. Su uno degli angoli era ricamata una lettere C e di fianco a questa ne era ricamata una lettera di dimensioni minori una M. Claudia e Marco.
Una lacrima bagnò le due lettere e poi un'altra e un'altra ancora fino che la coperta non fu del tutto bagnata.
Niente singulti, ne singhiozzi, nessun rumore o movimento poteva fare capire alla donna sdraiata lì accanto che stavo piangendo copiosamente; o almeno così speravo.
Claudia era la mia donna, mia moglie. Era una donna giovane e bella con i suoi capelli marroni, che avevano dei riflessi ramati quando erano colpiti dal sole, lunghi fino alla vita, ma sempre raccolti in una treccia che arricciava sul capo e con i suoi occhi ambrati.
Quegli occhi grandi e sempre pervasi da un’espressione tranquilla, simili a quelli di un cervo.
Grande e rosea era la sua bocca, con labbra carnose e disegnante da un dio per invogliare gli uomini a baciarle, era sempre aperta in un sorriso cordiale e se guardava me indulgente.
Avvicinai la coperta al naso e annusai avidamente con le narici il suo profumo, fiori di peso e limone, lo stesso che sentivo sulla sua pelle nuda o fra i suoi capelli quando la baciavo.
Quello stesso profumo che mio figlio non aveva mai sentito perché morto prima di nascere, quello stesso profumo che io non avrei mai più sentito perché …
Con il volto coperto di lacrime, la coperta stretta in mano e il suo profumo addosso mi addormentai. 

  
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