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Autore: Mini GD    02/05/2013    3 recensioni
“Chi è?”
“Il suo nome è Raul Cooper. Inglese, 32 anni.”
“Chi l’ha trovato?”
“La sua vicina. Era preoccupata perché non l’aveva visto per giorni”
“Causa della morte?”
“E’ ancora sconosciuta. Forse è morto dissanguato”
“Bene. Mettiamoci al lavoro”
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: G-Dragon, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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“Apri gli occhi, sono ore ormai che dormi!” gridò, una voce aggressiva e prepotente, che tirò la chioma nera del detective. Di scatto si risvegliò dal sonno profondo nella quale era caduto a causa di qualche sonnifero, e cercò di afferrare qualche particolare di quella stanza tetra e nera, illuminata dalla poca luce che filtrava da una finestrella in alto.
“Dove mi hai portato?” si sforzò di parlare, trattenendo le grida di dolore dovute alla pesante presa sui suoi capelli. Aveva le mani e i piedi legati, seduto su una sedia di legno dai motivi particolari.
“Non ti interessa, signor detective. Ti stai avvicinando troppo alla verità e la verità è pericolosa, lo sai?” continuò a fissarlo, lasciando avvicinare la lama affilata, del coltellaccio da cucina, pericolosamente vicino al viso molto curato del giovane, privo della caratteristica barba o da qualche particolare tipo di baffi.
“La vita è basata sulla verità. Non è forse per le troppe bugie che hai ucciso Raul?” lasciò andare un piccolo sospiro, non appena la figura nera, oscurata dall’ombra presente in quelle mura, lasciò andare la sua capigliatura.
“Lui. Tutta la sua vita era una bugia, mi ha rubato tante e tante cose che mi appartenevano di diritto” avvertì la voce cambiare, passare da un tono aggressivo a uno disperato, lasciando tremare la mano che, fino a poco prima, stringeva sicura la grande lama.
“Potevi anche separarti da lui. Potevi vivere lontano dalla presenza di quell’uomo” si lasciò scappare un commento freddo, pieno di una lucidità riacquistata, tipica sua; non accettava che le persone si accontentassero delle maschere, di una stupida vita fatta di battute e copioni scritti dalle abili dita di altri, coloro che manipolavano a loro piacere, la vita dei burattini incapaci di vivere senza dipendenze.
“Tu non puoi capire. Tu, non puoi…” lasciò cadere il coltello, abbandonando l’aspetto cattivo e omicida, che aveva fino a qualche minuto prima. Si buttò a terra, rannicchiandosi in una posizione fetale, piangendo lacrime silenziose “Tu non capisci, lui era tutto. Non solo per me, per tantissime altre persone, a partire dalla sua famiglia. Io ero una aggiunta, per lui non ero mai abbastanza. Per lui ero quella rosa rovinata che distruggeva il quadro perfetto del giardino” aggiunse poco dopo, rialzandosi e pulendosi il viso con un lembo della maglia.
“Potevi anche cambiare vaso, cercare un’altra strada verso la felicità” cercava di sistemarsi sulla sedia, allargando silenziosamente, la stretta dei nodi sui polsi, con movimenti ripetuti.
“Zitto saputello!” e nel suo sguardo nuovamente la rabbia, il senso di inferiorità che trovava sfogo nella furia omicida; si poteva dire che i suoi occhi avessero preso una tinta rossa, incandescente come la lava.
Prese nuovamente il coltello, accigliando le sopracciglia, invecchiando di un paio d’anni il suo viso.
 


“Qualcuno sa che fine ha fatto Kwon?” domandò Baker, indicando con la mano destra la scrivania vuota e in ordine del suo capo.
“E’ uscito. Gli stavano frullando delle idee in testa e come suo solito va in giro” rispose Muller, stiracchiando le spalle, cercando un modo per scollare da dosso le brutte sensazioni che lo perseguitavano; era un tipo molto timoroso per la salute degli altri e sentiva aria di pericolo.
“Avrà trovato la soluzione del caso?” John si passò le mani nei capelli ricoperti di un sottile strato di gelatina, in modo da mantenerli all’indietro in modo quasi perfetto.
“Sicuramente. Non dimentichiamo che è il migliore in questo campo” Muller sorrise al suo amico, smorzando momentaneamente i mille pensieri che aveva. Per istinto guardò la foto che li raffigurava tutti insieme, a una festa di compleanno di qualche anno prima. La signorina Parker indossava un cappellino a cono e stava suonando allegramente un fischietto, lui e John  erano vicini, l’uno con il braccio sull’altro, stringendo nelle mani libere dei bicchieri di champagne. Il detective sorrideva, guardando nell’obbiettivo, come a immortalare quel momento di felicità che l’aveva investito.
“Solo io ho una strana sensazione?” disse la donna, che fino a quel momento era persa nel riguardare la rosa rossa, cercando un particolare che l’aiutasse ad arrivare alla chiave del mistero.
In realtà una mezza idea l’aveva già, solo che da quando il detective le aveva parlato del killer del suo amico e della sua morte inaspettata, non riusciva a concentrarsi come prima.
“No Kim, anche io ho questa sentore” sospirò Muller,  tenendo lo sguardo basso, sulle sue mani screpolate dal troppo lavorare sul pc. Sapeva che a Kimberly piaceva molto essere chiamata Kim, dopo tutti quegli anni insieme, ricordava alla perfezione ciò che dava fastidio agli altri; voleva essere il più amichevole e socievole possibile, e ,pertanto, si affidava alle sue abilità di assecondare chi ascoltava.
 



“Hai lasciato una rosa nella sua camera. Era un tuo modo di firmarti?” domandò Kwon, cercando di distrarla mentre sfilava, lentamente, una mano dai nodi quasi del tutto sciolti. Non aveva intenzione di irritare ulteriormente la donna, era comunque lei a tenere il coltello dalla parte del manico e aveva steso un uomo dalla stazza che era il doppio della sua.
“Amava le rose, come amava illudermi e far credere agli altri che lui ci tenesse a me” gridò leggermente, cominciando a girare in tondo, muovendo freneticamente le braccia, rendendo impossibile capire ciò che potesse succedere.
“Non c’erano altre soluzioni? Può davvero essere la morte il finale più giusto?” nel silenzio che si era formato, anche lui aveva smesso di muovere le mani per liberarsi. Aveva la necessità di sapere cosa provava, per mettere pace alle mille domande che si poneva da quando aveva visto il corpo del suo amico, sfigurato dai proiettili.
“Era lì, inerme, mentre mi supplicava di risparmiare la sua vita. La sensazione provata in quel momento mi elettrizzava, riuscivo a dominare su di lui, ero diventata la sua regina. Doveva obbedirmi per essere salvo, ma non mi bastava, volevo che lui patisse ciò che avevo patito io negli anni, per questo l’ho ucciso, ho lasciato che il suo sangue macchiasse i miei vestiti, mentre lasciava il suo corpo” lo sguardo di lei si perse, in un infinito che ripercorreva il tempo, che riscriveva le sensazioni, provocandole piccoli brividi. Ora era ferma, sospirava mentre un sorrisetto felice compariva sul suo volto, dai lineamenti dolci e docili, che nascondevano un anima in subbuglio, capace di uccidere.
“Non credi di essere peggio di lui?” con un rumore sordo, le corde che lo legavano caddero lasciando liberi i polsi; ormai era convinto che lei sarebbe rimasta in trance, abbastanza da permettergli di liberarsi anche i piedi. Massaggiò velocemente la zona arrossata dallo sfregare delle corde e sciolse anche gli ultimi nodi che lo legavano alla sedia.
“Si, lo sono. Lui mi ha resa così, mi ha trasformato in un mostro. Diceva sempre che un viso così angelico non poteva serbare rancore” cominciò a piangere nuovamente, voltando le spalle al detective “Ma non credere che io sia debole, io sono forte, più di te. Torna a sederti e non fare passi falsi, altrimenti Raul non sarà l’unica mia vittima” aggiunse, sempre di spalle, con tono solenne e per niente timoroso.
“Cosa hai intenzione di fare?” restò immobile sulla sedia, guardando i capelli di lei cadere mossi sulle spalle, colorando di castano scuro il rosa antico della maglia. Non aveva paura, aveva smesso di provare questo sentimento, il suo lavoro richiedeva calma e sangue freddo, in tutti i casi; l’unica sua intenzione era quella di anticipare le sue mosse, per gestire la situazione e chiudere il caso.
“Potrei anche ucciderti visto che ci siamo. Non potevi archiviare il caso per mancanza di prove? Dovevi per forza farmi sentire i sensi di colpa?” si girò di scatto, indicandolo con la sua arma. La sua mano sinistra sanguinava leggermente, da un piccolo taglio dovuto alla lama troppo affilata. Troppo per lui, ovviamente; per lei magari era un giocattolo.
“Sei davvero convita che la soluzione risiede nell’uccidermi?”
“Sei davvero convinto che non abbia il coraggio di farlo, vero?”
  
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