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Autore: cassiana    22/11/2007    4 recensioni
In un epoca antica quanto il mito, può una donna cantare le gesta degli eroi?
Dopo un lungo viaggio Creusa sta per scoprirlo.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.

Due giorni dopo che la tempesta l’aveva colpita, finalmente la Delfos giunse in vista della costa. Ero sul ponte della nave e guardavo il mare che s’increspava in onde luccicanti, mentre il vento scompigliava i miei lunghi capelli scuri. La tempesta era stata dura tanto che la Delfos navigava a fatica poiché le vele dovevano essere rammendate e due marinai erano morti, inghiottiti dal mare. Alcuni delfini precedevano la nave facendoci compagnia con i loro salti ed i gabbiani planavano con le grandi ali e lanciavano il loro verso stridulo.
Finalmente la Delfos attraccò ad Amnisos e Nauplio, il capitano, mi avvertì che dovevo scendere. Quel giorno il sole splendeva ed il cielo era di un bel colore azzurro intenso. Sebbene fossero passate solo poche ore dal sorgere del sole, il caldo già si faceva sentire. Mi asciugai la fronte dal sudore e mi avviai per le strade dell'angiporto, già trafficate da mercanti e marinai. Anche il mercato ferveva di attività: venditori che urlavano, donne che contrattavano sui prezzi, versi di galline e di vacche; non mi sembrava di essermi allontanata poi di molto da Eleusi.
Vagabondai per qualche tempo finché non riuscii a trovare ciò che cercavo. Era un recinto all’interno del quale pascolavano pigramente pochi asini. Due uomini, appoggiati al recinto, chiacchieravano animatamente.
“A chi devo rivolgermi per comprare uno di quelli?” chiesi indicando gli animali. L’uomo più grasso fece un largo sorriso “ Epeo, per servirti!” esclamò. Potei permettermi solo un asino vecchiotto e dalla non florida salute, tuttavia dovevo pur servirmi di un mezzo di trasporto! E poi Klopis, questo il nome dell’asino, aveva il vantaggio di essere molto docile.
La strada che portava da Amnisos a Cnosso era larga e lastricata, lunga solo pochi stadi cosicché potei arrivare in città in breve tempo. Poiché non c’erano mura che la proteggessero alcuni soldati sorvegliavano le strade principali. Fui fermata anche io, ma mi accorsi che i controlli non erano molto severi.
Kriti, è un’isola di commerci e, quindi, secondo la mentalità dei cretesi, più gente c’era e meglio era. Anche se negli ultimi anni questo non sempre era stato vero, soprattutto da quando erano cominciate ad infiltrarsi alcune genti straniere, come nella mia Attica, dando inizio a parecchi disordini.
Non sapevo dove andare di preciso, i miei piani non lo prevedevano. Ero partita con l’intenzione di recarmi a Cnosso ed una volta giunta non avevo la minima idea di cosa fare.Tenendo Klopis per le briglie camminai per la città in cerca di una locanda dove poter mangiare e scrollarmi di dosso polvere e stanchezza . Finalmente scorsi un’insegna promettente: “Il delfino d’oro”.
Entrai e con sollievo mi resi conto che potevo lasciarmi il viaggio alle spalle. La stanza era piuttosto piccola ma pulita. Mi stesi sul comodo giaciglio e cominciai a riflettere. Ero venuta a Kriti per cercare un’atmosfera, non so precisamente cosa mi aspettassi di trovare. Avevo sentito dire che i cretesi erano pieni gi vitalità, i loro costumi molto più liberi dei nostri e la loro vita più gioiosa di quella degli achei.
Ero rimasta delusa, mi sembrava di non essermi quasi mossa da Eleusi. Certo, mi consolavo dicendomi che in fondo ero appena arrivata e non potevo pretendere che tutte le voci udite fossero vere. Tuttavia il mio umore non si sollevò poi di molto. Così mi misi a lavorare su una delle mie canzoni, non era facile, per una donna essere un aedo. Questo era un altro dei motivi che mi avevano spinto ad andarmene dalla mia città. Senza accorgermene scivolai nel sonno.
Poche ore dopo mi recai nella stanza comune per mangiare. Pane, olive, pasticcio di carne e dolcetti al miele, il tutto innaffiato da vino resinato.
Mangiai di gusto e spesi le ultime monete che mi erano rimaste. Mi rendevo conto che per sopravvivere avevo due scelte: trovarmi un lavoro normale o entrare nelle grazie di qualche nobile e potere così realizzare i mio sogno.
Chiesi a Tideo, il locandiere, come avrei potuto mettere in atto la seconda idea. Quello mi squadrò per qualche minuto, evidentemente non aveva ben capito la mia posizione, ma rispose “I nobili stanno tutti a palazzo. Ora il re è Melisso, è lui che sceglie i cantori”.
La cosa stava diventando complicata. Come avvicinare il re e convincerlo che una donna, forestiera per giunta, era capace di cantare gesta eroiche altrettanto bene di un uomo?
Nella locanda faceva caldo perché le torce erano accese e le finestre coperte con pezze di lino per non far passare gli insetti.
Uscii in strada a pensare. Lì l’aria era più fresca e umida anche se le zanzare cominciarono a tormentarmi. Le vie attorno erano ancora frequentate da gente vociante. Assorta nei miei pensieri, imboccai uno stretto vicolo buio e deserto. Sospirai, forse potevo pensare in pace ora. Un pizzicore alle spalle mi avvertì di qualcosa che non andava. Come un senso di pericolo. Fu questo a far si che mi voltassi appena in tempo. Un losco individuo era dietro di me, cercai fuggire, ma quello mi si parò davanti,con un sorriso bieco bloccandomi. Il cuore mi martellava in petto: dalla sua espressone avevo capito che non erano le monete quelle che gli interessavano. Una lama balenò improvvisa nella sua mano. Cercai di divincolarmi,ma quello aumentò la stretta e mi passò la lama del pugnale sul chitone.
“E’ meglio che non tenti scherzi, bellezza” disse guardandomi avido. Ero terrorizzata, dentro di me non facevo che ripetermi stupida, stupida! Pregavo Demetra perché mi proteggesse.
All’improvviso intravidi un’ombra più scura delle altre che avanzava e il mio assalitore stramazzò a terra. L’ombra lo disarmò e gli puntò la lama alla gola “Fa che ti rincontri sulla mia strada e giuro che ti ammazzo come un cane – sibilò – e adesso vattene prima che cambi idea” il brigante si alzò e corse via scomparendo nel buio. Allora mi accorsi che avevo ripreso a respirare. L’uomo che mi aveva salvato mi prese per un braccio “Leviamoci di qua” ero troppo scossa e dimenticai di divincolarmi come avrei fatto di solito. Mi portò di nuovo sulla strada maestra. Alla luce potei notare che era molto diverso da tutti gli altri cretesi, piccoli di statura e aggraziati.
Era invece molto alto e prestante e, anche se era vestito alla foggia dell’ isola, si vedeva che era straniero perché i suoi lunghi capelli erano biondi come la barba. “Allora, mi trovi di tuo gusto?” l’uomo si era accorto che lo stavo squadrando, ringraziai la notte che nascose il mio rossore. “Direi appena passabile” risposi cercando di ritrovare il mio sangue freddo. Sorrise, divertito dalla situazione. Questo fece scattare la parte più dura di me “Bene, adesso puoi lasciarmi andare. Ti sono grata per l’aiuto, ma adesso sono stanca e voglio andare a dormire”
“Quanta fretta, hai forse paura di me?”
“Niente affatto! Te l’ho detto sono solo stanca” Mi stavo arrabbiando e quell’uomo non smetteva di sorridere.
“Ti accompagno, non è prudente che una ragazza sola giri di notte” e fece per prendermi la mano.
“Non ho bisogno di te, me la so cavare benissimo da sola! Lasciami in pace per favore” Feci per andarmene. Dopo qualche passo mi accorsi che l’uomo era ancora dietro di me. Mi girai infuriata “Smettila di seguirmi!”
Alzò le mani con le palme all’infuori “Sto solo andando dalla tua parte! Che ti succede, tanto non hai paura!”
Lo guardai socchiudendo gli occhi, poi mi voltai e ripresi il mio cammino. Bene, pensai, che mi segua pure, basta che non mi dia fastidio. Dopo l’ennesimo angolo cominciai a preoccuparmi, forse mi ero persa. Era colpa di quell’ uomo fastidioso che mi seguiva, mi aveva innervosito. Mi voltai per vedere se fosse ancora dietro di me: c’era e sorrideva.
Strinsi le labbra e ricominciai a camminare. Continuai così ancora per qualche tempo ma ero davvero stanca e i miei piedi si rifiutavano di camminare ancora, li sentivo gonfi e mi pizzicavano. Senza neanche guardare dove, mi lasciai scivolare sulla strada senza curarmi se quell’uomo mi seguisse ancora. Che mi prenda pure in giro, sono talmente stanca! Quando alzai lo sguardo lui era lì ma non sorrideva. Mi guardava in modo strano “Hai un posto dove dormire?” chiese aiutandomi ad alzarmi. Annuii e poi scossi la testa “Non ricordo dov’è la locanda, però. Che sia dannata!”
Si offrì di accompagnarmi e questa volta accettai riconoscente. Durante la strada mi disse di chiamarsi Rauros e che non era di Kriti, anche se abitava sull’isola da quando era bambino.
Proveniva da un luogo di selve e fiumi molto lontano, al nord perfino dell’Epidauro. Quando mi chiese di me gli raccontai che volevo diventare una dei cantastorie del re. Per la prima volta in vita mia non mi lanciò né uno sguardo divertito, né scandalizzato, né perplesso.
“Posso darti una mano, se vuoi”
Mi si allargò il cuore e ringraziai gli dei “Come farai?” chiesi diffidente
“Sto a palazzo, se vieni e chiedi di me, domani, forse potrai avere una possibilità” Ero così contenta che avrei potuto abbracciarlo, ero arrivata da appena un giorno e già avevo trovato qualcuno che mi avrebbe aiutato; che Demetra si stesse addolcendo? Dovevo trovare un tempio dove poterLa ringraziare come si deve.
Quando giungemmo alla locanda, vidi la pesante porta di legno sprangata e mi lasciai prendere dallo sconforto. Tutta quella fatica…! Ma Rauros aveva la soluzione. La mia camera era al piano terra sarei potuta entrare dalla finestra, così feci. Ero già entrata quando Rauros mi chiamò “Ricordati: domani a palazzo. Buonanotte”

La mattina dopo, di buon’ora, mi recai al palazzo. Fui impressionata dalla grandezza e dalla vastità dell’edificio; sembrava non finire mai. A sentire le voci che correvano da noi si sarebbe detto un vero e proprio labirinto! I muri erano di un bianco abbacinante reso ancora più splendente dalla luce del sole.
Due soldati armati di spade avanzarono verso di me, ma si fermarono quando udirono la voce di Rauros che mi scortò nel grande cortile.
“Hai un potere notevole!” esclamai
“Sarebbe contro ogni logica che i miei soldati non obbedissero!”
Fu così che appresi che Rauros era il capitano delle guardie. Chissà come aveva fatto uno straniero come lui ad ottenere tanta fiducia dal re; forse perché assomiglia ad un dio pensai guardandolo di sottecchi. Intorno al cortile sorgevano numerosi edifici, Rauros me li indicava mentre ci passavamo davanti: il Megaron, la sala del trono, gli appartamenti del re e della regina, quelli dei nobili, quelli dei servi, i magazzini ed infine le officine. Eravamo arrivati di nuovo al punto di partenza.
“E’ veramente enorme!”
“Si e dentro è bellissimo e più intricato di un alveare!”
Guardai il cortile brulicante di soldati, operai, servi che sciamavano come api da un edificio all'altro. L'immagine era proprio quella di un immenso alveare. Mi chiedevo cosa avesse in mente il mio nuovo amico. Mi portò, attraverso un corridoio ed un altro cortile, in un piccolo edificio, dove alloggiavano gli artisti di corte. Le pareti erano decorate in maniera stupenda, non avevo mai visto pitture più belle di quelle: come se fossimo in fondo al mare le pareti erano di un vivido blu e creature marine vi erano dipinte sopra.Rauros era divertito dalla mia meraviglia “Aspetta di vedere il Megaron!”
Mentre attraversavamo di nuovo l'ampio cortile della guardia, serrato da poderosi contrafforti di lucido basalto, Rauros mi spiegò che chiunque volesse lavorare a corte doveva cercarsi un protettore che l’avrebbe presentato al re il quale, dopo un periodo di prova, avrebbe deciso se tenerlo o meno al suo servizio Ma non era tutto: per meritare l’approvazione del re si doveva anche affrontare, durante i vari giochi, una prova molto difficile.
sentii un groppo in gola: “Dimmi che non devo saltare con il toro!” implorai. Rauros sorrise “Non devi preoccuparti, bisogna affrontare tutto un altro rituale per fare una cosa del genere”
Tirai un sospiro di sollievo anche se non ero del tutto tranquilla. Dopo avermi spiegato i vari rituali ed usi del palazzo, Rauros m’invitò a cantare. Dalla sacca presi la mia lira e pizzicai lentamente le corde; fortunatamente non si erano rovinate. La lira, infatti, era un oggetto molto prezioso non solo per la bellezza degli intagli, ma soprattutto per la qualità dei materiali: era di legno di ciliegio e le corde erano budella di antilope, il che faceva si che lo strumento avesse una sonorità tutta particolare. Senza contare che lo avevo immerso nella fonte Eudamia, dedicata alla musa del canto, Euterpe.
Mi schiarii la voce sperando che non mi avesse abbandonato, negli ultimi tempi non avevo avuto molte occasioni di cantare. Nella stanza i suoni rimbombavano e sperai che questo fosse un vantaggio. Rauros mi guardava incuriosito ed attento. Trassi dalle corde i primi accordi. Non sapevo quasi nulla dei miti dell’isola perciò cantai la storia di Europa, di come Zeus, trasformatosi in meraviglioso toro bianco, avesse attirato la ragazza e di come la portò via attraverso i flutti del mare fino ad una nuova e sconosciuta terra.
Finito il canto intorno a noi si era radunato un gruppetto di persone che sorridevano ammirate. Fu così che entrai a fare parte anche io della corte di Melisso.
Fu il sovrintendente ai divertimenti, Flegias, ad accogliermi e non vidi il re ancora per molto tempo. Sapevo che fra poche settimane ci sarebbero stati i giochi e, finalmente, il re mi avrebbe sentito cantare. Dovevo trovare qualcosa da narrare originale e speciale.
Mi diedi da fare per imparare gli usi dei cretesi, la loro religione, i loro eroi. Non c'era molto su cui lavorare. I cretesi adoravano Dictinna, dea dei pescatori e dei cacciatori, l’albero della vita, il toro e la Dea Madre. Il loro eroi più famosi erano Minosse, naturalmente, e Sarpedonte. Bè dovevo pur cominciare da qualche parte! La prima cosa che feci fu quella di partecipare ad una loro cerimonia religiosa. C’era un boschetto, non lontano dal palazzo, qui v’era un altare decorato di fiori e tralci di vite. Notai che ai suoi piedi vi erano moltissime piccole statuette dai fianchi, il ventre ed i seni sproporzionati che rappresentavano la Dea Madre. Sopra l’ara si ergeva una statua della dea che reggeva nelle mani due serpenti.
Avevo deciso di partecipare proprio a quella cerimonia perché credevo che il culto non si discostasse molto da quello di Demetra. Era così. Si versarono libagioni di acqua pura e vino, si sacrificò un capretto e si consacrarono cesti di uva e fichi. Della loro Dea Madre i cretesi sapevano loro stessi molto poco: era la terra, dava nutrimento attraverso l’albero della vita e forza attraverso il toro.
Trovai la cerimonia molto suggestiva e sentii, stranamente, la mancanza della mia terra, lì almeno potevo pregare la mia dea. Avevo un piccolo altare nella mia camera dove adoravo Demetra, ma sentivo il bisogno di partecipare ad una cerimonia vera. Provai a comporre, allora, un canto su Sarpedonte. Questi era il fratello minore di Minosse, che stanco di abitare a Cnosso, chiese il permesso al fratello di costruire un’altra città. Con pochi uomini si mise in cammino e dopo aver sacrificato alla Dea s’imbatté in un toro enorme dal vello nero come la notte e dalle grandi corna più bianche del latte. Sarpedonte capì che era stato inviato dalla Dea per indicargli il posto dove far sorgere la città. Così era infatti e la nuova città si chiamò Festo.
Chissà quante volte avevano sentito questa storia. Ero disperata, non potevo cantare una delle canzoni achee rischiando di annoiarli: dovevo trovare qualcosa. Provai di tutto, perfino una canzone sulla capra Amaltea! Mi rinchiusi in camera mia sconsolata, ormai avevo esaurito ogni mia risorsa. Ma come fanno i cretesi a comporre canzoni se non hanno niente su cui comporle!
“Oh, diva Demetra, Tu alla quale ho consacrato la mia voce, Ti prego dammi l’ispirazione per una canzone! Come posso adempiere al tuo volere se non ho i mezzi per farlo?!” Alzai la testa e vidi dalla finestra alcuni soldati. Un’idea mi balenò nella mente “Grazie Dea!” e corsi fuori.

“Sei sicura di quello che dici?” Rauros mi guardava divertito. L’avevo trovato che si stava allenando per il salto con il toro. Sul suo corpo luccicava un leggero strato di sudore e il respiro era ancora pesante. Ero talmente entusiasta che quasi non mi accorgevo delle occhiate scandalizzate degli uomini. Rauros mi fece spostare di qualche passo imbarazzato.
“Cosa ti prende?”
“Non è il posto adatto per le donne”
Mi guardai intorno e mi accorsi che c’erano solo soldati che si allenavano, quando vidi passare una splendida donna con il tipico vestito aperto sul seno ed un intricata acconciatura
“E quella, allora?” chiesi indicandola.
Rauros scoppiò in una risata fragorosa. “Bè, Polissena è sempre ben accetta da queste parti!”
Allora capii che era una prostituta ed arrossii. Quando ci fummo spostati in un luogo meno compromettente, ripresi il mio discorso.
Rauros aveva un espressione perplessa “Non credo di essere adatto a quello che hai in mente” esclamò alla fine.
“Ma non capisci? Ho bisogno di un soggetto, che cosa canterò ai giochi se no?”
Mi chiese se avevo composto già qualcosa e, dopo aver ascoltato i frutti del mio lavoro, la sua espressione mi convinse che la pensava come me: non andavano proprio. L’idea che avevo avuto cominciava a solleticare anche lui ma era ancora insicuro “Ma perché proprio me? Io non sono un eroe!”
“Bè, è tempo che quest’isola si cerchi nuovi eroi. Insomma hai sentito anche tu che tutte le leggende sono ormai vecchie! Demetra sa quanto detesti gli achei, ma almeno hanno storie!”
Sembrò pensarci su per qualche momento “Perché non cantare le gesta di re Melisso, allora!”
Questo mi prese in contropiede, effettivamente aveva ragione. Sospirai, avevo già qualche verso in mente! Ma poi mi decisi “Vedi, è Demetra che mi ha consigliato ed io devo seguire il Suo volere, Zeus sa che cosa mi è successo quando non l’ho fatto!” Rauros aveva un espressione incuriosita, ma non volli dire nulla di più, quella era una pagina così dolorosa della mia vita! Finalmente Rauros si lasciò convincere. Decidemmo un posto dove vederci per parlare tranquillamente e ci demmo appuntamento per il giorno successivo.
Era una piccola radura nel boschetto dove ero già stata. Ero arrivata in anticipo perché volevo sentire l’effetto dei versi che avevo già composti. Mi piace cantare all’aria aperta, sentire la mia voce che si fonde nell’aria, ma che resta in primo piano rispetto agli altri suoni. E’ come se componessi una melodia con tutta la natura. Prima preparai la mia voce al canto, cominciai dai toni più bassi e man mano arrivai a quelli più alti. Poi mi allenai al cambio rapido dei toni. Quando sentii che la mia gola era calda e pronta cominciai a cantare:

Cantami, o Musa, il riso
Del barbaro eroe
Quando con occhi lucenti
Toccò la bianca sabbia
Della splendente isola,
e come un leone
quando avvista la preda
balza in avanti,
o una superba aquila
si tuffa in picchiata,
così egli…

Mi fermai quando vidi Rauros al margini della radura che mi ascoltava.
“E’ davvero un ottimo lavoro! Giuro che non ho mai sentito una voce tanto bella” sorrise. Era così bello che qualcuno guardasse al mio lavoro senza pregiudizi, forse, finalmente, Demetra aveva deciso di perdonarmi.
“Per comporre il canto, però, mi serve che mi racconti la tua vita” dissi.
L’uomo sospirò e compresi che gli avevo chiesto una cosa non facile. Si chiedeva se era pronto a far sapere all’intera Kriti le vicende della sua vita. Alla fine si decise. Quando cominciò a raccontare la sua voce era bassa e cercava di dare un tono scherzoso alle parole. Ma ben presto il racconto sembrò assorbirlo a tal punto che non faceva più nessuno sforzo per nascondere il dolore. Ascoltavo in silenzio cercando di capire quali vicende sarebbero state più adatte per essere narrate.
Quando Rauros finì ci fu un momento di silenzio riempito solo dal cinguettio degli uccelli e dallo stormire delle foglie.
“E’ davvero una storia degna di essere raccontata, Rauros” dissi, infine, dolcemente “Ma se non vuoi non la canterò. La scelta è tua, Demetra mi darà qualche altra idea”
“No, no. Se Demetra mi ha indicato vuol dire che ci sarà una ragione. Lo so che il volere degli Dei è imperscrutabile, quindi sono contento di donarti la mia storia; e poi Demetra è simile a Urien”
Sorrisi, era quanto di meglio potessi avere, ora il problema era come poter trasformare il tutto in una canzone. Cercavo di trovare dei versi adatti, quando mi sentii toccare il braccio.
“Non sono un aedo ma vorrei sapere ugualmente la tua storia: com’è che hai deciso di guadagnarti la vita proprio così?”
Alzai le spalle, cosa avrei potuto raccontargli? Che ero la figlia illegittima di una sacerdotessa di Demetra violentata da un soldato e morta di parto?
Avrei potuto raccontargli, forse, che la voce che ho adesso è solo una pallida ombra di quella che Demetra mi aveva donato? Oppure avrei potuto dirgli dell’ira della Dea quando ho cercato di cantare cosa erano i misteri di Eleusi e la canzone mi aveva bruciato la gola ed ero rimasta muta per oltre dodici lune.
O che giurai a Demetra che avrei consacrato a Lei la mia voce e l’avrei utilizzata per cantare le gesta eroiche degli eroi?
Raccontai a Rauros tutto questo ed anche che nessuno voleva sentirmi cantare, non mi davano fiducia e che ero passata da una città all’altra della Grecia ottenendo ovunque lo stesso trattamento. Sapevo che a Kriti le donne erano più considerate che in Attica ed era per questo che avevo deciso di provare la mia ultima carta lì.
Quando finii di raccontare la sera era calata. Tornammo al palazzo senza parlare. ognuno pensando alla storia dell’altro. Giunta in camera pizzicai la lira per darmi ispirazione e ripensai alla vita di Rauros.
Mi aveva detto che era a Kriti da quando era bambino, ma non era vero, in realtà Rauros era giunto nell’isola solo pochi anni prima. Era nato in una terra chiamata Kenmare. Molto bella, coperta di foreste e solcata da fiumi impetuosi. La sua gente viveva in tribù, chiamate clan.
Da bambino, Rauros pensava che il suo destino fosse divenire il capo della sua tribù, i Firbolg. Ma quando aveva circa 12 primavere Kenmare fu funestata dal più duro inverno che si fosse mai visto.
La neve ricopriva ogni cosa e i cavalli facevano fatica a camminare. I Firbolg erano nomadi e non potevano fermarsi in un posto troppo a lungo o questo avrebbe significato la loro morte. Passarono un periodo di grande povertà e il freddo e la malattia decimarono la tribù. I druidi pregavano incessantemente le loro divinità di far tornare il sole agitando rami di vischio ormai secchi. Ma non ci fu nulla da fare. Una notte un branco di lupi assalì il campo e decimò ancora di più i Firbolg.
Lo scoramento s’impadronì degli uomini della tribù sapevano di non avere più alcun futuro e le loro forze non bastarono a difenderli dall’attacco di un clan più forte, quello dei Seara.
Furono sterminati. Rimasero in vita solo Rauros e qualche vecchia, catturati e ridotti in schiavitù. Rauros non poteva darsi pace e cercava ogni pretesto per ribellarsi ai suoi padroni e fuggire.
Un giorno, finalmente, giunsero in una terra più calda, un’immensa pianura spazzata dal vento, e si lasciarono alle spalle l’inverno. L’erba, fresca e verde, ondeggiava come un mare di smeraldo.
I Seara decisero di stabilirsi lì. Ma non erano destinati ad una vita di pace. Altre tribù abitavano quella pianura che i Seara avevano chiamato Conchobor. Magog, uno dei più forti guerrieri della tribù, prese Rauros in simpatia vedendo la sua fierezza e volle adottarlo. Col passare degli anni Rauros imparò ad apprezzare i Seara e le vicende dell’ antico clan quasi scomparvero dalla sua memoria. Con gli insegnamenti di Magog divenne sempre più forte, anche perché non c’era mai un periodo di pace: se non erano i Seara che razziavano i clan di Conchobor erano le altre tribù a far loro la guerra.
L’ impeto di Rauros in battaglia era così feroce che lo soprannominarono Slieve Gam, lupo selvaggio. Ma nel profondo del suo cuore Rauros sapeva che non era un lupo, ma solo un ragazzo infuriato con gli dei che avevano abbandonato i Firbolg. Non riusciva a darsi pace e così divenne sempre più feroce, le sue giornate erano un continuo allenamento e dal campo di battaglia usciva invariabilmente coperto di sangue nemico. I Seara adoravano solo due Dei: Samhain, dio dei cavalli, ed Eriu dio della guerra. Rauros cercò di scordarsi le sue antiche credenze, ma in fondo al cuore rimaneva sempre un piccolo posto per Urien, la Dea della Terra. Ancora una volta Rauros pensava di avere trovato il suo posto, ma si sbagliava di nuovo.
Quando i Seara non razziavano, cacciavano, ed anche in questa attività Rauros eccelleva. Una mattina si preparò con un gruppo di Seara alla caccia. Vicino a Conchobor c’erano numerose macchie di boscaglia e fu verso una di quelle che si diressero quel giorno. Ben presto avvistarono un cervo, uno dei più grandi e belli che esistessero al mondo. I suoi palchi imponenti erano così forti che spaccavano i rami degli alberi. Rauros decise che avrebbe catturato quel cervo a qualunque costo. Ben presto perse di vista i suoi compagni, ma non gliene importava perché era preso da una brama folle.
Il cervo continuava a correre senza stancarsi ed lui dietro altrettanto inesausto. Tuttavia gli sembrava di ricordare che quel bosco era molto più piccolo. Giunto ad una radura, il cervo si fermò fissando il suo inseguitore con occhi neri e profondi. Rauros avrebbe potuto ucciderlo ma quegli occhi l’ipnotizzarono. Chiuse gli occhi un istante, per distogliere il suo sguardo da quello dell'animale. Quando li riaprì al suo posto vide una vecchia, gobba e rugosa. La bocca atteggiata ad un ghigno, mentre silenziosamente i suoi occhi ammiccavano verso di lui. Rimase impietrito dallo stupore: quella era la Morrigan.
“Non mi riconosci, Rauros?” gracchiò. Rimase sorpreso di udire il suo vero nome che aveva quasi obliato dalla memoria.
“Sei la Morrigan, la strega dei boschi. Pensavo fossi solo una leggenda”
La strega rise più forte “Vieni Rauros, imparerai a distinguere la falsità dalla verità” Lo portò in una grotta buia e puzzolente, in un paiolo sopra al fuoco bolliva un liquido rossastro.
“Questo è il sangue della Morrigan: bevi!” e lo costrinse a bere quell’intruglio schifoso. Aveva il sapore delle grida dei nemici che aveva ammazzato, e degli occhi della sua gente che moriva. Rauros fu riportato indietro nel tempo e rivisse quell’orribile notte i cui i Firbolg erano stati massacrati.
Pensava che Urien li avesse abbandonati, ma non era così. Con suo sommo stupore Rauros vide che la Dea era lì e chiudeva gli occhi dei feriti e rendeva dolce la loro morte e aiutava i loro spiriti a fondersi con gli alberi.
Poi la Dea gli sorrise e fu una visione così sfolgorante che Rauros non poté continuare a guardarla e chiuse gli occhi.
La Morrigan era davanti a lui “Chi ha abbandonato chi, allora?”
Rauros non riusciva a capire, perché la Dea non li aveva aiutati a combattere? “Perché Urien è la Dea della vita, non della morte; ed anche i Firbolg adoravano la vita” gli rispose la Morrigan.
“Ma ora sono un Seara” esclamò Rauros.
La strega sputò e rispose “Seara dici. Sono solo un mucchio di selvaggi non molto diversi dagli animali che razziano. Ma tu sei un Firbolg e non è questo il tuo destino.” La Morrigan disse che la Dea lo aveva risparmiato non per diventare un animale assetato di sangue, ma per trattenere l’ultimo seme dei suoi eletti Firbolg e che Rauros avrebbe dovuto trovare un paese dove regnava la pace e lì riportare in vita gli spiriti del suo clan.
Fu così che i Seara non lo videro mai più. Rauros intraprese un lungo viaggio. Ogni paese che raggiungeva gli dava la speranza che avrebbe trovato la pace, ma sembrava che tranne i Firbolg, ogni altro popolo non conoscesse che la guerra. Passò per montagne e fiumi, ma non riusciva a trovare ciò che cercava. Allora attraversò il grande mare e giunse in un paese chiamato Kemet.
Credette di aver concluso lì il suo viaggio: da molti anni regnava la pace e Rauros aveva anche trovato una donna con la quale sperava di potere riportare in vita il suo clan, il paese era ricco ed il sovrano, che lì chiamano faraone, era giusto e molto potente.
Ma ancora una volta non ebbe fortuna perché la città di Tiro dichiarò guerra a Kemet e, nuovamente, Rauros fu costretto a partire. La nave sulla quale stava navigando fu colpita da una tempesta e Rauros naufragò su quest’isola. Forse era un segno della Dea, sperò. Fu così che giunse a Cnosso. L’unica cosa che Rauros era capace di fare era combattere e pensò che il re potesse avere bisogno dei suoi servigi. Ma Melisso non si fidava degli stranieri, anche se si rendeva conto che una forza come quella di Rauros gli sarebbe stata molto utile.
Così gli propose una prova: avrebbe dovuto domare Xanto, un cavallo proveniente dalla Tessaglia, un animale gigantesco e bello, grigio come gli occhi di Athena quando è infuriata. Ma, in confronto ai cavalli dei Seara, era poco più di un puledro ed in poco tempo Rauros riuscì a domarlo. Il re era impressionato e la corte lo acclamava, ma Melisso ancora non era contento. Così Rauros dovette affrontare il salto con il toro. Questa prova era molto più ardua della precedente, ma lo straniero riuscì a superare anche questa. Il re allora gli sorrise e gli diede il benvenuto a Cnosso.

Finalmente era giunto il grande giorno: il teatro adiacente al palazzo reale era gremito di persone. Enormi bracieri bruciavano le carni sacrificate per la Dea e per Dictinna, le donne dai vestiti colorati ed aperti sul seno chiacchieravano tra di loro e si sventolavano con ventagli di foglie di papiro, gli uomini scommettevano tra di loro e si davano pacche sulle spalle. Sul palco reale sedevano Melisso e la regina Tecmessa con i figli ed il resto della corte.
Il mio posto era in basso, insieme a tutti gli altri artisti. C’erano gli attori che si dipingevano il viso di colori brillanti e gli acrobati che avevano i corpi luccicanti d’olio. Dalla parte opposta dell’arena sapevo che c’erano le stalle dei tori e fui contenta di sapere che non avevo nulla a che fare con loro. C’ erano anche altri cantori che mi guardavano e si chiedevano cosa ci facessi lì. Come ogni volta l’ignorai. Stranamente non vidi soldati e mi chiesi dove fosse Rauros.
Negli ultimi giorni non ci eravamo visti per nulla e mi dispiaceva perché avrei voluto fargli sentire il mio canto. Ripassai a bassa voce qualche brano di cui non ero molto sicura, anche se sapevo che la canzone era perfetta e che non avrei potuto fare di più:


…e il barbaro guerriero
sentì al fondo del cuore
la dolcezza del suono
del suo vero nome
e guardò l’oscura maga
nella grotta tenebrosa
e come l’orso quando
assapora la dolcezza
del miele, così egli
gustò la soavità
della calda verità…

Un trambusto intorno a me mi fece perdere la concentrazione. Gli attori si diressero al centro dell’arena. Cominciarono a recitare prima uno spettacolo comico ed poi la storia di Sarpedonte. Avevo fatto bene a non comporre canti su di lui!
Dopo gli attori fu il momento degli acrobati. Questi erano davvero bravi, creavano delle figure stupefacenti, ma il momento più emozionante fu quando un torello uscì dalla stalla. Le sue corna erano decorate da fasce colorate. Uno dopo l’altro tutti gli acrobati, che comprendevano anche ragazze, saltarono.
Prendevano il toro per le corna e si davano lo slancio per potere saltare sulla sua schiena e da questa con un altro salto erano a terra. Era davvero un gioco pericoloso ma, proprio per questo, era straordinariamente affascinante. Dopo gli acrobati fu la volta di un aedo, dovetti riconoscere che era davvero molto bravo e ricordai che il suo nome era Tamiri.
Cantava di come Pasifae fosse presa da furia amorosa e di come si fece aiutare da Dedalo per sedurre il toro. Tamiri era così bravo che sembrava di sentire le grida d’amore della regina ed i muggiti altrettanto frementi dell’animale. Ma sapevo che la sua lira non poteva competere con la mia. Quando Tamiri concluse il canto si levò un ovazione dalla folla e Melisso dimostrò il suo favore donando all’aedo una coppa di vino e miele. Quando mi vide Tamiri mi lanciò uno sguardo di superiorità a cui avrei tanto voluto rispondere con una boccaccia, fu solo la dignità della mia posizione ad impedirmi di farlo, ma dentro di me pensai Te la faccio vedere io!
Ci fu un momento di pausa, ancora una volta si levò fumo di carne arrosto ma questa volta per scopi molto più prosaici. Il re e la corte si ritirarono nel palazzo per consumare il banchetto. Ero talmente agitata che mi si era chiuso lo stomaco e potei prendere solo qualche frutto e dell’acqua fresca. Ancora una volta canticchiai un brano della ballata:

…quando la nave
dalla prua alata
solcò il profondo mare
e Rauros dalla bionda chioma
osservò il volo leggero
del bianco gabbiano,
profumi di terre lontane
aleggiavano nell’ aere
e l’aureochiomato guerriero
sperava come
un lupo affamato
quando vede un
un inerme capretto
di concludere il suo viaggio.

Poiché c’era ancora molto tempo prima che i giochi cominciassero di nuovo ne approfittai per rinfrescarmi. Quando arrivai ai bagni mi accorsi che non ero stata l’unica ad avere questa idea. C’era una grande vasca dove sguazzavano alcune fanciulle che m’invitarono ad unirmi a loro.
Lo feci ben volentieri e lasciai scivolare la tunica a terra. Era così piacevole sentire l’acqua fredda sulla pelle! Le ragazze erano simpatiche e molto più giovani di me, cianciavano come uccellini e ridacchiavano tra loro. Vollero coinvolgermi nella loro conversazione ed una di loro mi chiese “Non ti ho visto recitare ne fare acrobazie come partecipi ai giochi, allora?”
“Cantando” le ragazze si guardarono tra loro incuriosite
“Ma suoni i cimbali e balli, vero?”
Sorrisi e scossi la testa “No canto, come Tamiri e tutti gli altri aedos che conoscete” Le ragazze sembravano entusiaste e mi chiesero di cantare qualche cosa. Accettai di buon grado anche se non avevo con me la lira. Cantai dell’amore di Zeus per Leda, la bianca regina di Sparta, che si fece sedurre dal bellissimo cigno, mentre si bagnava in uno stagno, non sapendo che in realtà era il Tonante.
Mentre cantavo osservavo l’espressioni sognanti o estatiche delle ragazze che, quando finii, mi acclamarono e decisero che mi avrebbero abbigliato come una principessa.
“Per me va bene piccoline, basta che, però, non mi facciate confondere con Polissena!”
Le ragazze batterono le mani e corsero da tutte le parti per procurami quello che serviva. Mi fecero indossare un chitone verde muschio chiuso sulla spalla destra con una spilla d’oro a forma d’ape. Poi acconciarono i miei capelli con nastri colorati ma non permisi loro di darmi gioielli “Deve risaltare la mia voce, non il mio corpo. L’unico gioiello che porto è la mia lira” le ragazze sembravano deluse, ma si rallegrarono quando indossai i sandali dorati che mi avevano portato.
In fin dei conti ci tenevo a sembrare carina. In Attica, in effetti, ero considerata molto carina; anche se non sono alta, sono proporzionata, ho grandi occhi neri e la bocca piccola. Forse ho il mento un po' troppo a punta ma è mitigato dalla fossetta. Tuttavia in confronto alle cretesi mi sentivo goffa e sproporzionata.
Un gong ci avvertì che i giochi erano ricominciati. Questa volta erano i soldati ad esibirsi. Al centro dell’arena c’era un drappello di ragazzi che sembravano più acrobati che guardie reali. Si esibirono in numeri di abilità con le spade, dalla lama smussata, e lance. Sapevo che i cretesi odiavano il sangue e i soldati sembravano danzare più che compiere esercizi guerreschi. Poi venne la volta di Rauros accompagnato dalle acclamazioni del pubblico. Aveva i capelli sciolti fermati sulla fronte da un nastro rosso porpora, i muscoli in rilievo erano lucidi per l’olio e il corpo del guerriero era coperto solo da un gonnellino bianco. Anche lui dapprima si esibì in esercizi di abilità con la spada, ma che differenza dai giovani che lo avevano preceduto!
I movimenti erano fluidi e i muscoli guizzavano senza apparente sforzo. Anche lui sembrava eseguire una danza ma, a differenza di prima, la spada ne faceva parte integrante, essa era il fulcro dei movimenti e non un semplice ornamento di questi. Sapevo che quello era solo un riscaldamento in vista del salto.
Infatti, pochi attimi dopo, entrò nell’arena il più colossale toro che avessi mai visto. Era bianco come latte e le sue corna erano state ricoperte da lamine d’oro, scalpitava nervoso alzando nuvolette di polvere. Anche se non potevo vederlo intuivo l’espressione concentrata e determinata sul viso di Rauros. Questi cominciò a saltellare intorno al toro con le gambe piegate. Fece in modo che l’animale abbassasse il capo e fece per afferrare le corna, ma il toro alzò di colpo la testa mandando in fumo la manovra dell’uomo.
Rauros, però, non si lasciò scoraggiare e dopo qualche altro saltello riuscì finalmente ad afferrare le corna che luccicavano al sole. Si tenne pronto, quando il toro alzò di scatto la testa, Rauros ne approfittò per darsi la spinta con le gambe e saltò.
Non sembrava essere più pesante dei cretesi che si erano esibiti prima. Con le mani atterrò sulla groppa dell’animale, rimase a testa in giù per qualche attimo, il tempo di mettersi in equilibrio.
Il pubblico trattenne il respiro quando il toro sgroppò, ma Rauros ne approfittò per darsi la spinta con le braccia, volò oltre il toro con una capriola ed atterrò provocando una nuvola di polvere.
Tutto il teatro si alzò in piedi applaudendo e urlando e mi resi conto che anche io stavo saltando. Melisso regalò al guerriero due corna d’oro in ricordo dell’impresa. Poi Rauros mi raggiunse, era stanco ma sorrideva.
“Sei stato fantastico!” esclamai.
Come se la stessa Euterpe mi avesse ispirato, mi vennero subito in mente i versi di questa impresa e potei inserirla nella canzone, dove Rauros aveva affrontato per la prima volta il salto per Melisso. Prima di me c’erano alcuni danzatori, ma io non li guardai nemmeno. Chiesi a Rauros se volesse sentire un brano della canzone e quando annuì cominciai:

Duro e rigido fu
Il lungo inverno
nella verde terra di Kenmare,
silenti erano le selve
coperte di neve;
non canti di usignoli,
ma ululati di lupi.
Gemiti di donne e di bimbi
si alzavano verso il cielo
e la fredda morte
colpiva senza pietà.
Invano i druidi canuti
imploravano gli dei:
il vischio era appassito
le betulle secche.
Il clan piangeva
come…

M’interruppi quando vidi il viso di Rauros, i suoi occhi erano lucidi di pianto.
“Se ti fa troppo male non canterò” dissi piano ma egli sorrise.
“Questa è la tua occasione, non ti preoccupare per me, questa, ormai, non è più la mia storia, è la storia di un eroe”
Stavo per ribattere quando mi resi conto che il numero di danza era finito. Deglutii a fatica e guardai Rauros che mi rispose con un sorriso incoraggiante. Mi asciugai i palmi delle mani sulla veste e mi avviai lentamente al centro dell’arena dove qualcuno aveva collocato uno sgabellino.
La gente bisbigliava stupefatta, forse credeva che fossi un uomo travestito da donna; non me ne curai. Lanciai uno sguardo di sfida tutto intorno e lentamente mi sedetti. Mi leccai le labbra aride e tirai un grosso sospiro per calmarmi. Indirizzai una muta preghiera a Demetra: quello era il momento decisivo della mia vita, da quell'istante avrei capito se la mia Dea mi aveva perdonato o se mi aveva sottratto per sempre il suo favore. Cominciai a pizzicare la mia lira e, dopo qualche accordo, a cantare.
La mia voce era chiara e squillante. Man mano che la canzone andava avanti trassi dalle corde il sibilo del vento, lo stormire delle foglie, il frangersi delle onde, il pianto dei bambini e le grida degli uomini. Non pensavo a nulla fuorché alla storia del barbaro guerriero aureochiomato.
Quando finii l’ultimo accordo fu come se ritornassi al mondo reale e ciò che mi accolse fu un lungo silenzio. Sentii il cuore scendermi fino ai calcagni, rimasi con la mente vuota completamente annichilita aspettandomi i fischi e gli insulti. Ma, all’improvviso, un enorme boato si levò da teatro, la gente applaudiva, gridava, batteva i piedi, si alzava. Il rumore era tale che non riuscivo a sentire nemmeno i miei pensieri, potevo solamente ringraziare Demetra ed Euterpe, Apollo, la Dea e Uriel. Anche Melisso era in piedi ed urlava con gli altri e compresi di avere ottenuto il suo favore.
Quando più tardi i festeggiamenti si furono conclusi, il sovrano m’invitò nel Megaron. Mi fece assaggiare i fichi più zuccherini, l’uva più dolce e il vino più delizioso che aveva, mi offrii cuscini di morbide piume per sedermi e qualsiasi altra cosa desiderassi.
“Da innumerevoli anni non riuscivo ad entusiasmarmi tanto. Di tanto in tanto il mio capitano, Rauros, ci riesce, ma non avevo mai trovato una come te” mi disse il re seduto sul suo trono d’alabastro.
Io ero ancora sottosopra, scossa e felice. La sala del trono era veramente stupenda con i suoi magnifici dipinti di tralci, delfini e ballerini, semplice ma sontuosa. Ero lusingata dai complimenti del re che, intanto, mi aveva chiesto cosa volessi di ricompensa
“Mio signore, re Melisso, mi dichiarerei del tutto soddisfatta se mi concedessi di essere al tuo servizio come aedo”
Melisso parve sconcertato “Dimmi donna….Creusa? Dimmi perché desideri tanto una cosa del genere?”
“Perché devo seguire il volere della dea alla quale sono consacrata: Demetra” Melisso parve soppesare le mie parole ed, infine, annuì “E’ giusto” disse.
Poi sorrise “Benvenuta a Cnosso”.

   
 
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