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Autore: Clockwise    04/05/2013    4 recensioni
Dopo tanti anni, June torna nel luogo della sua infanzia, lo vede cambiato, si vede cambiata.
Prima classificata al Description Contest - Quanto sei bravo a descrivere? di ELLEcrz.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eyre of Memories


Eccoti lì, June, ora ti vedo, in piedi davanti al cancello che dà sul retro del giardino della vecchia casa di tua nonna. Il cancello cigola, rosso di ruggine sopra la vernice verde scuro di un tempo. Fai pochi passi, esitante, lungo il vialetto di ghiaia sommerso dall’erba alta, dalle margherite, dalle viole e i denti di leone. Ti guardi intorno, i ricordi si sovrappongono a quello che vedi. Quante volte, da bambini, siamo corsi fin lì dove sei tu ora, attraverso gli alberi fitti, abbiamo saltellato sulle lastre di ghiaia e siamo arrivati lì, alla fine del vialetto, dove sei ferma. Davanti a te una piccola costruzione quadrata in pietra a un piano, con il tetto piatto e una piccola stanza anche sul tetto. Sei in piedi davanti alla porta arrugginita, incastonata fra le pietre grigie del muro, coperto d’edera e rampicanti bruni. Non entri, sorridi. Nemmeno da piccoli ci entravamo, perché era buio e tua nonna diceva che c’erano i topi e gli scarafaggi. Ci siamo entrati solo un paio di volte, come prove di coraggio. E, non per vantarmi, ma sono entrato io per primo.
Ti volti verso sinistra e sali la scricchiolante scala di legno, che poi gira a destra, seguendo il muro. È scivolosa per colpa del muschio e delle erbacce, ti tieni con una mano sulla parete per non scivolare. Da bambini salivamo correndo a gara a chi arrivava prima; rischiavamo di romperci il collo ogni volta, su per quella scala instabile. Tu arrivi cauta in cima, sul tetto della piccola costruzione, dove volevi davvero arrivare. Eccolo, il nostro rifugio, il nostro luogo segreto. Il castello. Il tetto della piccola costruzione era la corte, la stanza che vi si affaccia, gli alloggi reali. Adoravamo andarci da bambini, soprattutto perché tua nonna ce lo proibiva, dicendo che era pericoloso. Giocavamo a Merlino e Morgana, senza i coinvolgimenti amorosi, oppure a nascondino, al re e alla maga, al drago e al cavaliere. Il drago lo facevi sempre tu perché dicevi che le ragazze non potevano essere cavalieri. Già, è durante l’adolescenza che sei diventata più femminista.
Cauta, fai qualche passo avanti fra le foglie secche e i rametti spezzati, entrando nella nostra reggia. Nulla è cambiato, tutto è solo invecchiato, come te e me.
Su un lato c’è la piccola stanza, mentre gli altri tre lati del tetto sono circondati da un basso muretto di legno, inframmezzato da alte e sottili colonne lisce e bianche con capitelli elaborati che sorreggono un porticato di travi di legno. Una volta sulle travi poggiava una pianta di glicine, che faceva da tetto; era meraviglioso stare lì d’estate, con il sole che filtrava fra i fiori violacei. Poi però hanno tagliato la pianta, e ora non ne è rimasto niente. Il cielo nuvoloso fa da tetto, oggi.
La prima cosa che vedi è la poltroncina di vimini nell’angolo opposto a te. Quella poltroncina! Non è nient’altro che una poltrona di vimini a misura di bambino, piccola, ma per noi era “il trono”. Ci sedevamo a turno, secondo giorni prestabiliti, e chi sedeva sul trono poteva scegliere a che gioco giocare. Ricordo che sensazione provavo, seduto lì, con te che mi guardavi aspettando la mia decisione: mi sentivo potente, libero come un’aquila. Sorridi, avvicinandoti al trono. Anche tu ti sentivi così, e ti divertivi a vedermi attendere trepidante. Vorresti sedertici, ma temi di poterla rompere. Già una volta la seduta si era bucata.
Accanto al trono, proprio alla sua destra, c’è una lanterna enorme, grande quasi quanto la poltroncina; una volta doveva essere stata di rame, forse, ora è verdognola. Per cosa la usavamo? Ah, sì: quando avevamo bisogno di un ostaggio da liberare, per uno dei nostri giochi, prendevamo Copperfield, il gatto di tua nonna, e lo rinchiudevamo dentro. Ricordo che miagolava come un dannato, sbattendo il muso sul vetro, così io, che facevo la guardia, lo liberavo per non doverlo più sentire, e tu ti arrabbiavi e iniziavi a strepitare peggio del gatto. Avrei voluto chiudere te nella lanterna, in quei momenti.
Nell’altro angolo c’è un grande piedistallo con sopra una statua greca senza braccia. Era una donna, ma noi lo chiamavamo Apollo. Non so perché, e in effetti era una cosa alquanto strana. Sarà stato che Apollo era il tuo dio greco preferito, perché era il protettore dei musicisti e dei poeti. Ai piedi della statua… Non posso crederci! Sorridi emozionata mentre ti chini a raccogliere la vecchia chitarra. La chitarra. Ancora qui dopo tutto questo tempo. Quante volte abbiamo suonato e cantato con quella chitarra? La prendi con delicatezza, come se fosse un cucciolo, e pizzichi le corde. Ah, no, sono da cambiare. Non te ne curi, e prendi a suonare quella canzone, la nostra canzone, la prima che abbiamo imparato insieme su quella chitarra. Yesterday. Ricordi solo le prime battute, però, così la posi di nuovo a terra, con le lacrime agli occhi.
Non c’è molto altro, sul terrazzo: una panca di legno, un tavolino in ferro battuto, un armadietto vuoto, un paio di cuscini bucherellati in un angolo. Addossato al muro c’è un grande baule, dove riponevamo i nostri giochi, trofei e tesori. Lo apri, attenta ad eventuali topi e altri ospiti indesiderati. Un paio di farfalline svolazzano via. Ci mettevamo libri, corone di cartone, sassi colorati, chiavi dimenticate, ferri di cavallo, conchiglie e tutte le cianfrusaglie che trovavamo in giro e sono ancora tutte lì, ad eccezione dei libri. Chissà chi li avrà presi.
Ti rialzi e ti ritrovi di fronte la porta della piccola stanzetta. La spingi, trepidante. Ecco la tana dei pomeriggi di pioggia, l’interno della nostra reggia: una stanza polverosa, con una sola finestra che si affaccia sul terrazzo, un paio di sedie e un tavolo, e un caminetto che ogni tanto accendevamo, sebbene temessimo che sarebbe scoppiato un incendio da un momento all’altro. In un angolo ci sono gli scacchi e il gioco dell’oca; sul tavolino un vasetto di marmellata con dei fiori appassiti all’interno. Sfiori con la mano le pareti, mentre fai il giro della stanza. Le tue dita toccano gli affreschi che avevi dipinto tu, tutta da sola, con me che pulivo i pennelli e ti passavo i colori. C’è un grande albero sulla parete del camino, con uccelli che partono dai rami e volano per tutta la stanza; su una parete un castello solitario sorvegliato da un drago – che mi spaventava - e sull’altra versi di canzoni, e passi di libri che amavamo dipinti nella tua calligrafia ordinata. Infine, sulla parete di fronte al camino, un cucciolo di leone con un tordo sulla testa. Il leone ero io, il tordo tu. Io ero il leone perché ero più grande, più alto e tu dicevi che ero anche coraggioso; aveva gli occhi verdi per assomigliare ai miei. Invece tu eri un tordo perché io ti dicevo sempre che eri un uccellino, piccola ed esile, ma vivace e allegra. E chiacchierona. Dio santo, quanto parlavi. Non stavi zitta un minuto. Alle volte, avrei voluto tapparti la bocca con del nastro adesivo. Altre, sarei stato a sentirti per ore.
Ora accarezzi il muso del leone. So che vorresti che ci fossi io in carne ed ossa, e non un dipinto. Lo so, credimi.
Esci di nuovo fuori, sotto la volta degli alberi e delle nuvole. Una lacrima ti scende giù per la guancia, accanto al sorriso. È una lacrima di gioia però, vero? Sì. Abbiamo passato momenti meravigliosi qui. Abbiamo giocato, parlato. Ci siamo baciati qui per la prima volta, ricordi? Siamo cresciuti qui. Allora è malinconia quella che ti scende giù per la guancia, June? Malinconia perché l’infanzia è passata, è finita, e noi siamo qui, siamo cresciuti, cambiati, siamo distanti, eppure così vicini. Sono proprio qui, June, davanti a te, vedo ogni tua lentiggine. Ma tu non puoi vedermi, né sentirmi.
Vorrei piangere anch’io per quei giorni passati, piangere per noi, per quella vita che non abbiamo avuto, ma gli spiriti non piangono. Guardaci; avresti mai immaginato che quei due bambini ridenti e spensierati sarebbero un giorno diventati una donna sola e disillusa e un fantasma?
Coraggio June, asciugati le lacrime. Così. Non piangere. Sono qui, dentro di te, non sei sola. Lanci un ultima occhiata al nostro castello, tirando un grande respiro. Sorridi un’ultima volta. Ora mi senti, non è così? Ti porti una mano al cuore. Poi ti volti e scendi giù per le scalette di legno.
 
 
 

***

Primo contest a cui partecipo. Sono emozionata, e mi vergogno per la schifezza che è venuta fuori, che non ho neanche il coraggio di rileggere. 
Tentiamo.
E.



***
Prima. Io. Ancora non ci credo, è così assurdo. Grazie, davvero. =)
  
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