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Autore: ChaosMyth    04/05/2013    1 recensioni
Ok, sono tornata con una nuova JRen, chi mi conosce sa che amo follemente questa coppia; inoltre volevo accontentare tutte le persone che mi hanno chiesto di scriverne un'altra dopo Fiori di Loto. Questa è a capitoli e spero di riuscire a finirla. Nella vita alquanto monotona di Kim Jonghyun arriva all'improvviso un ragazzo alquanto particolare, Choi Minki, il quale può sembrare strano all'apparenza perchè tutti i giorni deve confrontarsi con la sua più grande paura, che Kim Jonghyun cercherà di far sparire.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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─ Φοβία ─ 


{PHOBIA}




 JR x Ren 

 


 

« L’obiettivo principale della politica inglese, durante i primi decenni del lungo regno della regina Vittoria (1837-1901), fu quello di consolidare la supremazia economica, mantenendo… »
 
E sbadigliò.
Per l’ennesima volta durante quell’ora di storia, Kim Jonghyun sbadigliò, senza minimamente preoccuparsi di nascondere quel gesto agli occhi del professore che imperterrito, quasi per inerzia, continuava a parlare con lo stesso identico tono di voce pacato e tranquillo dall’inizio dell’ora; così ad ogni lezione. Ogni giorno. Ogni settimana. Ogni mese.
Inutile dire quanto quel suo modo di spiegare la lezione conciliasse irrimediabilmente il sonno, non solo quello di Kim Jonghyun, ma di quasi tutti i ventisette alunni presenti nell’aula, escluse poche eccezioni che il ragazzo, con la testa sorretta da una mano e il gomito dello stesso braccio appoggiato sul banco, si era messo ad osservare, chiedendosi per quale legge fisica i loro occhi non fossero appesantiti dal sonno come i suoi e quale forza li spingesse a continuare a scrivere freneticamente per non perdere nemmeno una parola che usciva lenta e pesante dalla bocca del professore che vagava come un’anima fluttuante tra i loro banchi.
Senza riuscire a trovare una risposta soddisfacente ─che in verità non si era nemmeno sforzato di trovare, era troppo stanco e svogliato anche per pensare ─Kim Jonghyun voltò lentamente la testa di quasi 180 gradi per poter osservare fuori dalla finestra posta a un banco di distanza da lui: le foglie degli alberi si muovevano tra i rami a causa del leggero vento di quel giorno; sicuramente proiettavano particolari giochi di ombre sull’erba sottostante gli alberi, ma il ragazzo, dal primo piano dell’edificio scolastico in cui era situata la sua aula, non poteva vederli.
Aveva una gran voglia di andarsene da lì per poter tornare a casa e mettersi a dormire, oppure per uscire a fare un giro per la città e godersi il sole di quella giornata di Aprile.
Per questo voltò nuovamente gli occhi all’interno dell’aula per posarli sull’orologio appeso al muro, poco sopra la lavagna; scoprì così, con immensa gioia che un poco lo ravvivò, che le lezioni sarebbero finite meno di un’ora dopo. Poteva resistere, e per riuscirci si convinse che al mondo c’erano cose peggiore da affrontare di una semplice lezione di storia; un pensiero forse un po’ drastico, ma storia era difficile da sopportare, almeno per lui.
E così passarono i restanti, interminabili minuti di quell’ora di lezione, l’ultima della giornata, e quando finalmente si udì il suono della campanella della scuola, suono più dolce del solito quel giorno, Kim Jonghyun si alzò stiracchiandosi dalla sedia che aveva sorretto il suo peso morto fino a quel momento e dopo aver infilato nello zaino quelle poche cose che aveva appoggiato sul banco per seguire le lezioni, si mosse sulle sue gambe appena addormentate per poter uscire dall’aula; fu uscendo in corridoio che si unì a due ragazzi della sua classe, reduci come lui da quella lezione che aveva fatto sentire i suoi effetti anche su uno dei due ragazzi, quello con i capelli più corti, di un biondo quasi cenere, Kang Dongho, al quale sembrava quasi che fossero state risucchiate le energie vitali a giudicare dallo sguardo sostanzialmente spento che rivolgeva al mondo esterno.
L’altro ragazzo invece, Hwang Minhyun, era una di quelle poche eccezioni che per non molto tempo avevano catturato l’interesse di Kim Jonghyun in classe. Per questo motivo sarebbe stato la fonte da cui attingere appunti importanti il giorno prima del futuro test di storia, e Hwang Minhyun lo sapeva, ogni volta era così; ma non ne faceva un dramma, né si lamentava, perché in fin dei conti lui e Kim Jonghyun erano amici. E poi il fatto di essere una sorta di punto di riferimento, non solo per lui ma anche per altri ragazzi e ragazze della classe, non gli dispiaceva poi così tanto; molti stentavano a credere all’ordine e alla bella calligrafia che caratterizzavano tutti i suoi quaderni, curati quasi in modo maniacale. Ed era ancora più difficile da credere che per quanto riguardava tutto il resto, Hwang Minhyun poteva considerarsi l’entropia fatta persona. Insomma, il disordine e la sbadataggine quasi totali, un po’ come il ragazzo accanto a lui, Kang Dongho, i cui unici interessi erano gli sport, la musica, la musica e gli sport: questo era tutto ciò per il quale poteva permettersi di spendere energie. 
Così i tre ragazzi si unirono alla fiumana di studenti che, come loro, non aveva fatto altro che desiderare di uscire da quell’edificio per potersi dedicare ad altro e non pensare più alla scuola, almeno fino al mattino successivo.
Come animali rimessi da poco in libertà varcarono i grandi cancelli aperti della scuola e voltarono l’angolo per addentrarsi nel centro della città, come spesso succedeva una volta finita la giornata scolastica: spendevano quel che rimaneva del pomeriggio vagando per le vie affollate di Seoul, girando per negozi, fermandosi a mangiare qualcosa o a provare videogames, come quasi tutti gli adolescenti della loro età. Aveva quindi prevalso la seconda idea di Kim Jonghyun, quella di godersi il bel tempo in giro per la città, scherzando con i propri amici, che tuttavia non erano al completo perché all’appello ne mancava uno.
«Dov’è Aron hyung?» chiese Kim Jonghyun appoggiandosi comodamente sullo schienale della sedia sulla quale era seduto, in uno dei tanti bar della città; infilò le mani nelle tasche dei jeans mentre accavallava le gambe e alzò lo sguardo verso Hwang Minhyun, a cui aveva posto quella domanda, il quale finì tranquillamente di bere il proprio thè al limone ghiacciato prima di rispondergli con un semplice «Indovina..» mentre con la cannuccia spostava i piccoli cubetti di ghiaccio rimasti sul fondo del bicchiere.
Kim Jonghyun si disse che in effetti la sua era stata una domanda inutile: Aron Kwak era di due anni più grande dei tre ragazzi seduti a quel tavolo e aveva quindi finito il liceo prima di loro, ma non aveva comunque smesso di essere loro amico o di uscire in loro compagnia. Tuttavia era spesso assente poiché era impegnato a uscire con molte ragazze, le quali erano principalmente interessate a lui per il fatto che avesse vissuto per la maggior parte della sua vita in America, a Los Angeles dov’era nato, e questo lo rendeva interessante a prescindere.
E poi, a dirla tutta, era anche un ragazzo molto carino e aveva quel leggero atteggiamento che banalmente si sarebbe potuto definire da “stronzo”, motivo per cui le ragazze avevano ben 3 ragioni per essere particolarmente interessate a lui e non so dire quale di queste tre fosse la prevalente.
Così Kim Jonghyun non fece altre domande a riguardo, ma si limitò a bere qualche altro sorso della propria Coca-Cola prima di intavolare una nuova conversazione che aveva come oggetto l’ultima partita di basket che aveva visto in tv, conversazione alla quale Kang Dongho si unì entusiasta, quasi strozzandosi con la Coca-Cola che anch’egli stava bevendo per la fretta di rispondere.
Passò in questo modo un’ora, poi un’altra, e i tre ragazzi si dissero finalmente che forse era tempo di tornare a casa, e così si alzarono dal tavolo e andarono a pagare ognuno quello che aveva preso da bere, fino a quando non si salutarono fuori da quel bar dandosi appuntamento per il giorno dopo a scuola, poi si divisero e ognuno andò per la sua strada diretto a casa.
Kim Jonghyun non impiegò molto tempo per tornare a casa, e una volta arrivato nella via in cui era situato il palazzo dov’era l’appartamento nel quale viveva con la propria famiglia, notò che esattamente di fronte al grande portone di vetro posto all’ingresso era parcheggiato il camion di una ditta di traslochi e alcuni uomini erano intenti a portare dentro al palazzo grossi scatoloni e oggetti per la casa, trasportandoli su per le scale o utilizzando l’ascensore.
Mentre saliva le scale per raggiungere il terzo piano, il ragazzo si mise a sperare in cuor suo che a trasferirsi lì non fosse una famiglia con bambini piccoli, per il fatto che non poteva semplicemente sopportarli.
Lo scoprì una volta arrivato davanti alla porta d’ingresso di casa sua, sulla sinistra di un largo e lungo corridoio dov’erano situati anche altri appartamenti: la porta era aperta e sulla soglia stava in piedi sua madre, la quale osservava con curiosità e attenzione il viavai degli uomini di quella ditta, che a quanto pare erano diretti due piani più su, al quinto.
«Ciao Jonghyun!» lo accolse la donna, stampandogli un bacio su una guancia. «Come è andata oggi a scuola, tutto bene? Hai visto, finalmente hanno venduto quell’appartamento al quinto piano che era vuoto da mesi! E ho già conosciuto chi ci vivrà, non indovinerai mai da dove vengono.»
«Non che m’interessi…» confessò suo figlio, sbirciando in casa propria, desideroso solamente di trascinarsi in camera sua ed entrare in completa simbiosi col suo letto.
«Oh, a te non interessa mai nulla, vero?» gli rispose sua madre, con un leggero tono di rimprovero. «Comunque vengono dalla Germania, pensa.»
Kim Jonghyun si voltò verso sua madre, con un’espressione di leggera sorpresa, e le porse una domanda che gli era subito sorta spontanea.
«E cosa sono venuti a fare qui?» .
«Perché sono di qui. Lui è di qui, lei no, lei è la classica donna tedesca, alta, bionda e con gli occhi azzurri. Sua figlia è identica a lei, l’ho vista di sfuggita. Ho parlato un po’ col padre per fare conoscenza e mi ha detto di avere anche un figlio più grande, della tua stessa età, ma non l’ho visto» .
Il ragazzo stette per qualche attimo a guardare la madre, poi si limitò ad alzare le spalle e ad entrare in casa, soddisfacendo finalmente il suo desidero di buttarsi di peso sul letto, in camera sua.
Non passò molto tempo che fu pronta la cena e Kim Jonghyun dovette alzarsi dal letto per raggiungere i propri genitori in cucina, dove la tavola era già stata apparecchiata da sua madre, la quale per quasi tutta la cena non fece altro che parlare della novità del loro palazzo, ovvero di quella nuova famiglia venuta dall’altra parte del mondo. Sua madre era una donna particolarmente curiosa e ─il ragazzo si chiedeva spesso come fosse possibile ─conosceva gli affari privati di quasi tutti i loro vicini. Sapeva sempre nel dettaglio tutto ciò che succedeva, i motivi e i retroscena, e Kim Jonghyun già sapeva che il giorno dopo sarebbe andata a bussare a quella porta al quinto piano per conoscere tutta la storia di quella famiglia. Non che lo facesse con chissà quali intenzioni, no, la sua era pura e ingenua curiosità, unita all’intenzione di mostrarsi disponibile e gentile per i nuovi arrivati, che avrebbero certamente potuto chiedere a lei se avessero avuto bisogno di qualcosa.
E con questa convinzione il ragazzo lasciò la tavola dopo aver finito di mangiare, per dirigersi nuovamente in camera sua a passare circa tre ore semi-sdraiato sul letto, con il suo computer portatile appoggiato sulle gambe, a chattare e navigare su Internet, come faceva in pratica tutte le sere, mentre la tv accesa faceva da sottofondo senza che le fosse prestata particolare attenzione, se non quando Kim Jonghyun la spense assieme al computer per andare a farsi una lunga doccia calda e poi, stanco e assonnato, andarsene a letto.
 
 
Il giorno dopo la sveglia suonò come al solito troppo presto e Kim Jonghyun stette immobile a letto per almeno cinque minuti per riuscire a trovare l’energia necessaria ad alzarsi per mettersi a sedere sul materasso e spegnere finalmente quella sveglia che insisteva a fargli alzare il fondoschiena dal letto. Lo fece stiracchiandosi e sbadigliando per la quarta volta, poi si mosse lentamente, assonnato, per arrivare fino alla cucina dove sua madre, indaffarata come ogni mattina e già vestita per andare al lavoro, stava appoggiando sul tavolo tutto quello che serviva per fare colazione al ragazzo e a suo padre, già seduto a tavola e semi-sepolto dietro a un grande giornale. Entrambi lo salutarono quando anche il ragazzo si sedette con loro e il tempo della colazione trascorse veloce tra i soliti discorsi tipici della mattina che consistevano sostanzialmente in «Jonghyun, oggi a scuola hai qualche verifica?», «Oggi torno tardi da lavoro», «Alle cinque esco con un’amica », «Com’è la situazione della borsa oggi?».
Così Kim Jonghyun finì un po’ di fretta di fare colazione, poi ritornò in camera per togliersi il pigiama e infilarsi la sua uniforme scolastica di colore scuro, corse in bagno a lavarsi i denti, il viso e a darsi una pettinata veloce prima di afferrare il proprio zaino e uscire di casa dopo aver salutato i propri genitori.
Era appena arrivato al piano terra quando, accanto all’ingresso, notò un ragazzo che non aveva mai visto prima, per lo meno non nel palazzo nel quale abitava: indossava dei jeans chiari e attillati che mettevano in evidenza quanto il suo corpo fosse snello e sopra portava una giacca di pelle nera, leggermente corta. Ma soprattutto aveva dei capelli biondi, quasi bianchi, lunghi fino alle spalle, e quando si voltò incrociando lo sguardo di Kim Jonghyun, quest’ultimo notò che aveva gli occhi più azzurri che avesse mai visto.
Si bloccò per qualche istante a osservarlo e capì che doveva essere il figlio maggiore di quella famiglia che si era trasferita al quinto piano, perché nonostante quelle caratteristiche che potevano dirsi tipiche di una persona proveniente da un qualche paese del Nord-Europa aveva comunque dei tratti orientali, come la forma degli occhi.
Così, essendo comunque un ragazzo educato e pensando che prima o poi avrebbe dovuto farlo, si avvicinò a lui con un leggero sorriso sulle labbra per presentarsi, quindi gli porse gentilmente la mano per stringere la sua.
«Ciao, devi esserti trasferito qui ieri, vero? Piacere di conoscerti, sono Kim Jonghyun, vivo due piani sotto di te».
L’altro ragazzo sembrò irrigidirsi e guardò nervosamente la mano del moro di fronte a lui, quasi ritraendosi, alzando velocemente lo sguardo verso il viso dell’altro e poi di nuovo sulla sua mano tesa vicino, troppo vicino a lui; aprì la bocca come se volesse parlare, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono, nemmeno un accenno, come se si fosse dissolto nella sua gola.
Kim Jonghyun abbassò lentamente la mano senza sapere cosa fare, perché di certo non si aspettava quella reazione; realizzò che forse, essendo nato e vissuto in Germania, non sapeva il coreano e non poteva capirlo, ma poi si disse anche che era impossibile che non lo sapesse dato che suo padre era coreano. Allora forse era solo un ragazzo molto timido e si era semplicemente imbarazzato, così, come conseguenza naturale di questi suoi pensieri, gli venne da chiedergli scusa se per caso l’avesse messo a disagio arrivando così, all’improvviso, a presentarsi.
Al che di nuovo, sempre con evidente difficoltà, l’altro ragazzo cercò di rispondergli.
«N-no, io.. io veramente…»
«Minki!»
Entrambi i ragazzi sussultarono spaventati e si voltarono verso l’ascensore, le cui porte si erano aperte senza che i due se ne accorgessero; una donna alta, con lunghi capelli biondi e occhi azzurri come quelli del ragazzo, uscì in fretta dall’ascensore e lo raggiunse, stringendogli un braccio attorno alle spalle prima di voltarsi verso Kim Jonghyun per dirgli, con tono leggermente freddo, «Scusaci, siamo di fretta.» e aprì con una mano il grande portone di vetro dell’ingresso, uscendo in strada, portando con sé il ragazzo; salirono su una macchina nera parcheggiata proprio lì fuori, la donna al posto di guida e il ragazzo accanto a lei, e pochi secondi dopo sparirono alla vista.
E Kim Jonghyun rimase da solo in quell’ingresso, sentendosi leggermente spaesato per quello che era successo, per l’espressione seriamente preoccupata, spaventata che quel ragazzo aveva sul volto e che lui gli aveva provocato, senza nemmeno sapere perché.

  
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