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Autore: Stray    24/11/2007    8 recensioni
Piccole gocce di pioggia su un vetro: brevi attimi dello stesso acquazzone chiamato amore...
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Riza Hawkeye, Roy Mustang
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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“Respirerò l’odore dei granai.
Più grande ti sembrerò e tu più grande sarai.
Passare insieme soldati e spose,
ballare piano in controluce.
Impareremo a camminare
Per mano insieme, a camminare:
Domenica…”

Zucchero, “Diamante”

“I knew I loved you
Before I knew you
The hands of time
Would lead me to you.
I knew I loved you
Before I found you
I knew I'd built my world around you
Now all my days
And all my nights
And my tomorrows
Will all begin and end
With you...”

Celine Dion & Ennio Morricone, “I knew I loved you”

(Sapevo di amarti prima di conoscerti
Le mani del tempo mi avrebbero portato da te
Sapevo di amarti prima di trovarti
Sapevo che avrei costruito il mio mondo intorno a te
Ora tutti i miei giorni
E tutte le mie notti
E il mio domani
Avranno inizio e fine
Con te…)

07. Remember

La luce che filtra tra la polvere dei vetri rende perfettamente giustizia agli anni del luogo.
Non è stato facile entrare: non aveva più la chiave, perduta chissà dove, forse volontariamente.
Roy ha dovuto sfondare la porta a spallate e chiamare il fabbro per una nuova serratura.
Non ha voluto entrare per primo. Ha aspettato che lei prendesse un respiro profondo è appoggiasse il piede ai gradini del porticato.
“Sei sicura?”
“E tu?”
Le ha tenuto aperta la porta, per lasciarla passare.
Quindici anni.
Ha scritto il numero con il dito, sullo strato di polvere grigia del comò all’ingresso.
Quindici anni e nulla sembrava essere cambiato. La casa ha aspettato, paziente, immutata, lentamente ricoperta dagli strati di mesi, giorni, minuti e secondi, che hanno creato la sua corazza contro il tempo.
Nulla sembra essere cambiato: è come la ricordava.
Grande, silenziosa e severa.
Le assi del pavimento hanno scricchiolato al suo passaggio. Ha toccato con la mano la maniglia di ottone della prima porta a destra. Il soggiorno le è sembrato cupo, come i saloni dei castelli medievali: il camino spento, le pesanti tendo di velluto che hanno ostacolato il sole per tutti quegli anni, i teli bianchi stesi sul mobilio.
Quando li ha tirati via, la polvere sollevata l’ha fatta starnutire.
Roy l’ha aiutata a piegarli con cura, ad aprire una dopo l’altra tutte le stanze, tutti i santuari del passato che hanno lasciato sigillato là dentro per tanto tempo.
L’ha aiutata ad accendere il fuoco del camino e a cambiare le lenzuola del letto nella sua vecchia stanza – “Dormiamo qui.” Ha chiesto lei. “Solo stanotte. Dormiamo qui come quando pioveva e avevo paura dei fulmini.” – ha spento la luce quando ha sentito i suoi primi singhiozzi e l’ha stretta forte nel sonno, le lacrime come le gocce di un temporale annunciato sulla sua pelle.
Hayate si è raggomitolato sul tappeto, lo stesso dove secoli prima sedevano a gambe incrociate, lui con i suoi libri di alchimia sulle ginocchia, lei con la terrina di patate da sbucciare per portarsi avanti con i lavori domestici.

Due giorni dopo il sole invade la casa con violenza: lei vaga per ogni stanza, incredula di tanta luminosità, tutta in una volta, cercando di ricordare se la casa le è mai sembrata tanto accogliente.
Gli scatoloni affollano il soggiorno e gran parte del corridoio.
Ha aperto la camera da letto dei suoi genitori, ha deciso da che parte stare, dopo una lunga riflessione: in quella di suo padre, come se invertendo le posizioni, avesse la possibilità di invertire anche la storia di quella famiglia, di quella coppia, di quell’uomo, sostituendovi la storia di un altro uomo, un'altra coppia, un'altra famiglia.

Il quarto giorno, la polvere non infesta più ogni angolo buio, la porta di ingresso può di nuovo chiudersi, Hayate scodinzola tranquillo per tutta la casa, senza più topi in giro.
La sera, Roy torna a casa con due secchi di pittura.
“Per il portico.” Si giustifica. “L’intonaco è scrostato e vecchio. Pesavo di toglierlo e passarne una mano nuova…”
Lei annuisce e non dice nulla. Ma rimane a guardarlo tutto il tempo mentre lavora.
Lo vede fermarsi solo un momento, con il pennello a mezz’aria, appena sopra l’architrave della porta d’ingresso.
“Per quanto io vada indietro, i miei ricordi si fermano sempre qui, sulla soglia. Prima è come se…”
“…come se non ci sia nulla che valga la pena ricordare?”
Le sorride, riprendendo ad accarezzare il legno con le setole intrise di vernice bianca.
“Già. Come se fossi nato qui, a diciotto anni…”

Il quinto giorno la sorprende in bilico su una sedia, mentre pulisce i vetri della veranda.
“Scendi subito!” le urla, tanto da farle quasi perdere l’equilibrio per lo spavento.
“Stavo solo…”
“Sei impazzita? E se fossi caduta? Hai idea cosa avrei fatto se…”
“Scusa.”
Non riesce a tenerle il broncio a lungo. L’espressione agitata scivola via con un sospiro lungo e profondo.
“Devi stare attenta. Ora devi stare più attenta…”
Le accarezza la pancia, lasciando che un sorriso ponga definitivamente fine all’arrabbiatura., prima di toglierle dalle mani lo strofinaccio e riprendere il lavoro interrotto.

Il sesto giorno è lei ad aprire il vecchio studio di suo padre. Roy la osserva dal corridoio, mentre fissa meglio le assi scricchiolanti dei gradini della scalinata antica.
Non vedendola uscire dopo un quarto d’ora si affaccia titubante.
La trova seduta sulla sedia intarsiata, la stessa su cui il maestro non lasciava sedere nemmeno il suo allievo, la sua sedia.
Lei si appoggia allo schienale, facendo aderire ogni vertebra ai motivi e alle volute rigide e lucide.
Una mano sulla pancia e un’altra sulla superficie della scrivania.
Una sul passato e una sul futuro.
Non ci sono più tracce di sangue, i libri polverosi e sbiaditi sono perfettamente allineati sugli scaffali. Roy torna al suo lavoro, senza disturbarla.
Quando lei esce dalla stanza, il borbottio della pentola sul fuoco la avverte che la cena è pronta.

Il settimo giorno l’ultimo scatolone rimasto è quello delle cose da buttare via, delle cianfrusaglie inutili, dei ricordi più spiacevoli.
Roy la prende per mano, la guida fin sulla soglia, fino al punto di partenza che ora è il traguardo da cui ricominciare una nuova corsa.
Prima di appoggiare l’occhio all’obiettivo, la guarda sorridere senza che abbia dovuto chiederglielo.
“Sei davvero sicura?”
E’ la stessa domanda del primo giorno. E sa già che avrà la stessa risposta.
“E tu?”
Mentre le scatta una foto – una mano sempre sulla pancia un po’ più rotonda, la spalla appoggiata allo stipite, i capelli sciolti e lo sguardo placido che da un po’ a questa parte le deforma i lineamenti severi nei momento più impensabili – pensa che se ha deciso ti ritornare in quel luogo, di ripartire proprio da lì, di allevare il loro futuro dove il loro passato ha avuto inizio, non può che aver accettato ciò che la vita ha offerto loro proprio lì, sulla stessa porta, quando un ragazzo dagli occhi scuri ha incespicato nelle parole, quando un ragazzina timida gli ha chiesto cosa desiderasse affacciandosi da dietro lo stipite.
“Scusi, è questa casa Hawkeye?” Ripete come tanti anni fa, prima di varcare la soglia e seguirla in casa. Invece che nascondersi dietro la porta aperta, lei sorride ancora e lo abbraccia, nonostante il pancione ingombri più spazio del previsto.
“No. Questa è casa Mustang.”

Scusate il ritardo: altro parziale di storia in mezzo ai piedi che ha risucchiato le mie energie vitali nell’ultima settimana… Sigh, ho bisogno di coccole e taaaanto Royai per tirarmi su!
Scusatemi se non rispondo una per una, ma davvero non ho tempo (è incredibile come 24 ore possano sembrare ridursi drasticamente alla metà ,quando si va dia fretta! O_O)
Ringrazio comunque per le recensioni e le belle parole che mi riservate sempre: grazie davvero di cuore (ogni tanto mi commuovo, i fazzolettini sono sempre vicino al pc…).
Questo capitolo è stato uno degli ultimi che ho scritto: un’altra ispirazione fulminenante di cui vado abbastanza fiera… Mi saprete poi dire.
Un bacione a tutte, alla prossima! ^^

  
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