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Autore: _blueebird    05/05/2013    8 recensioni
Ci vogliono pochi minuti per leggerla e altrettanti per innamorarti di loro.
Camille, una sedicenne che lotta tutti i giorni per rimanere a galla in una società di pregiudizi, ingiustizie e in continua lotta con la sua timidezza e con i suoi problemi, si innamora. Tra i banchi di scuola, tra gli amici veri e le cattiverie, troverà l'amore che la porterà a crescere, a soffrire e a combattere i suoi demoni.
Una storia che vi prenderà e che vi scalderà il cuore.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Le strisce bianche disegnate sull’asfalto scorrevano veloci sotto le ruote della bicicletta, che spingevo con forza lungo la strada.
Forzavo sui pedali, alzandomi talvolta dalla sella per viaggiare più veloce tra il traffico.
Il manico della borsona blu accovacciata senza ritegno dentro il cestino anteriore, tintinnava, sbattendo contro il metallo intrecciato del canestro.
Il vento freddo mi graffiava la faccia e scivolava lungo il torace e le braccia facendovi talvolta rabbrividire, ma non avevo tempo per fermarmi ed allacciarmi la leggera giacchettina in pelle che mi cingeva le spalle.
Fissavo gli alti appartamenti impilati l’uno sull’altro e cercavo i cartelli per capire che via dovessi prendere.
Alla fine trovai quella che stavo cercando e mi ci infilai a tutta velocità, riuscendo anche a schivare un automobilista distratto che stava uscendo dal vialetto della propria casa.
Mi girai indietro per scorgere la berlina grigia metallizzata che si era bloccata nel mezzo della carreggiata, per poi riprendere a cercare un'altra via.
La seconda a destra. Piegai la bicicletta ed entrai con la stessa velocità di prima nel vicolo. La bici tramava sotto l’asfalto sconnesso della strada.
Dopo qualche metro mi fermai.
Appoggiai la gamba destra sul marciapiede e mi misi a frugare nella tasca del giubbino fino a che trovai un foglietto di carta piegato.
 
 VIA DELLE QUERCE 4/B – TERZO PIANO
 
Lo tenni tra le dita e rimisi il piede sul pedale, per spingere la bici poco più avanti. Due edifici più il là trovai ciò che stavo cercando.
 
Avevo il fiatone. Dopo essermi fatta tre rampe di scale infinite che parevano quelle di un ospedale, tutte impolverate e incorniciate da pareti tinteggiate di verde-acqua, mi trovai davanti a una porta possente in legno scuro.Suonai il campanello prima di aver ripreso fiato del tutto.
Sentii dei passi provenire dall’interno e poi la serratura scattò. Dietro a quella enorme porta Francesco sembrava ancora più minuto.
“Camille…” Sussurrò incredulo, stringendo ancora la miniglia dorata della porta.
Portava un paio di pantaloni della tuta grigio topo che gli stavano un po’ larghi ma stretti sulle caviglie, una maglietta nera sbracciata e si era tagliato i capelli: erano corti, ad eccezione della cresta nera che stava dritta, indurita al punto giusto dal gel. Gli donava davvero tanto.
La guancia era ancora violacea e il labbro inferiore, che adesso era spalancato, era un po’ tumefatto, ma aveva conservato ancora la sua bella forma e il suo rossore.
“Cosa ci fai qui?” Mi chiese sconvolto.
Finii di riprendere fiato e dopo aver deglutito rumorosamente risposi “Non eri venuto a scuola oggi. E non eri nemmeno allo studio. Mi hai fatto preoccupare! Come mai non hai risposto ai miei messaggi?” Urlai sporgendomi verso di lui.
Rimanemmo entrambi sconvolti dalla mia reazione. “Sc-scusa… Ma non ho proprio guardato il telefono oggi.” Si scusò lui grattandosi imbarazzato il capo. “Inoltre – aggiunse – mia madre mi ha consigliato di prendermi un giorno di pausa per digerire ciò che è successo ieri e così sono rimasto a casa… beh non tutto il tempo come vedi.” Disse indicando i capelli.
“Ti piacciono?” Disse infine.
Annuii sorridendo. “Ti stanno benissimo. Posso entrare?”
“Hem… s-si! Ovvio che si! Vuoi un bicchiere d’acqua?” Disse chiudendosi poi alla porta alle spalle dopo avermi fatta passare.
 
L’appartamento era piccolo ma accogliente. Le pareti color crema entravano in contrasto con il pavimento in linoleum bianco che ti davano la sensazione di essere arrivato a casa; sulla parete di fronte un divano in microfibra a sottili righe bianche, beige e marroni posava impacciato vicino a un tavolino da caffè in legno scuro che lo divideva dalla tv.
Sulla parete a sinistra c’era una grandissima vetrata luminosa nascosta dalle veneziane marroni che mi ricordò lo studio di Francesco e la sua necessità di avere quanta più possibile luce naturale e bianca. Evidentemente era una cosa di famiglia.
Poi vicino alla tv e al piccolo corridoio dal quale ero sbucata c’era un altro corridoio che probabilmente portava alle camere da letto, mentre sulla parete destra del salotto c’era una porta che portava alla cucina.
“Vuoi dell’acqua?” Mi chiese lui mentre indicava la stanza e mi osservava mentre mi guardavo intorno. “Si grazie.”
 
“Che appartamento delizioso.” Aggiunsi dopo essere entrata nella cucina. Era color noce, in stile rustico e si intonava benissimo con il tavolo di legno nel centro. Si vedeva che era una casa vissuta e viva.
I barattoli di spezie sul piano di lavoro, lo strofinaccio umido per lavare i piatti appena utilizzato, i fiori freschi nel vaso e il libro e gli appunti di filosofia sul tavolo.
Era la tipica casa piccola e confortevole dove avresti voluto cucinare una torta, dove avresti voluto giocare a carte con la nonna o guardare i cartoni animati alla tv.
Niente a che vedere con la mia casa, così grande e moderna che sapeva di solitudine e freddo. Era eccessivamente grande già per quattro persone, con due poi, sembrava ancora più immensa. Rabbrividii per un istante.
“Grazie. Beh, diciamo che non possiamo permetterci di meglio.” Disse lui frugando tra le ante in cerca di un bicchiere.
“No è davvero bella.” Ribadii io. “Ho sempre amato le case piccole e accoglienti, perché ti fanno sentire a casa.”
Mi porse un bicchiere di acqua fresca e si sedette su una sedia di fronte a me. Bevvi tutto d’un fiato e poi tornai a guardarlo. “Cosa ti ha detto tua madre riguardo… beh lo sai…”
“Era davvero sorpresa e preoccupata. Non avevo mai fatto a botte con qualcuno. A differenza di quanto pensa la gente io non sono il tipo che fuma, beve, spaccia o combina casini in giro per la città. Dopo averle spiegato la situazione si è tranquillizzata e mi ha consigliato di prendermi un giorno di pausa.”
“Capisco.” Aggiunsi io. “Mi dispiace… Io davvero, non volevo che andasse a finire in questo modo.” Lui scoppiò in una lieve risata profonda e disse “Non ti preoccupare. Piuttosto, mi vuoi dire che diavolo era quel tipo che ha tentato di uccidermi e che sembrava un toro imbufalito dopo aver visto il mantello rosso di un matador?” Oddio non glielo avevo detto.
“Si chiama Gian Marco. E’ il migliore amico del gemello della mia amica Tamara. L’ho conosciuto poiché anche lui era un assiduo frequentatore della loro casa.” Risi.
“Tamara ne era perdutamente innamorata, ma lui non la ricambiava, piuttosto… gli interessavo io.”
Il viso di Francesco si era un poco indurito, ma non ne ero del tutto sicura.
“Ho scoperto in lui un temperamento geloso… ma non mi aspettavo che arrivasse a tanto. Io-Io lo avevo rifiutato dopo che aveva tentato di-di baciarmi…” Mi sentii le guance avvampare, ma continuai. “Ma non aveva mai accettato l’idea di…”
“Anche perché a te piace Fabio, non è così?”
 
Mi sentivo mancare il respiro. La testa cominciava a farsi pesante.
Da quando Francesco e Gian Marco si erano picchiati, non avevo più pensato a Fabio e alla sua mano intrecciata con quella di un'altra ragazza nel mezzo del tavolo. E, per mia grande sorpresa, non me ne importava nemmeno.
Non avevo fatto altro che pensare a Francesco in quelle ore, se stesse bene e a cosa stesse pensando che Fabio era passato completamente in secondo piano.
 
“Non ne sono più tanto sicura.” Dissi. E lo dissi più che altro a me stessa più che a Francesco che mi stava ascoltando dall’altra parte del tavolo. Gli occhi neri fissi nei miei. Li strinse impercettibilmente.
“Non lo so.” Aggiunsi.“Sono un po’ confusa.”
“E’ normale che tu lo sia.” Mi scalzò lui.“Dopo tutto quello che è successo ieri, penso che sia normale. Ma vedrai, nel giro di poco tornerà tutto come prima…”
“No!” Urlai.
 Era sorpreso tanto quanto me e per la seconda volta in quella giornata non riuscii a trattenere le parole che mi uscivano dalla bocca. “No. Non tornerà tutto come prima.”
Avvampai. Avvampai tanto e non ne sapevo il motivo. O forse si, ma era diventato tutto troppo confuso per avere tutte le risposte in quel momento. Mi seppellii tra le braccia intrecciate sul tavolo.
Sentivo i suoi occhi neri e dolci su di me e mi sentii arrossire ancora di più. Perché, perché mi sentivo così…  imbarazzata?
Sentii lo stridio di una sedia sfregare contro il pavimento, così tirai su il capo e vidi Francesco uscire dalla stanza. Lo seguii.
 
“Oh.” Riuscii a dire. Ero in una stanza dalle pareti colorate di blu. Il letto da una piazza che era davanti a me era sfatto e su tutte le pareti erano attaccati con il nastro adesivo centinaia  di fogli di carta. Disegni per la precisione. Schizzi a matita, pastelli, cera. Era una moltitudine di colore e forme, ancora più impressionanti di quelle che avrei mai potuto vedere nello studio.
A destra, sotto la finestra c’era una scrivania piena zeppa di colori, di penne e matite che strabordavano dai portapenne, fogli ammassati e delle statuine umane stilizzate in legno con le giunture mobili per poter far assumere loro la posa che desideravi. I libri di scuola erano invece messi su una mensola poco più in là.
Viveva nella propria arte, nella propria passione e nei propri sogni.
Mi ricordai il pianoforte impolverato in salotto, nero e lucido, che per protesta nei confronti di mio padre non avevo più toccato e che poi avevo rispolverato dopo la sua partenza. Perché avevo sempre visto la musica come qualche cosa che mi legava a lui più che a una cosa che piacesse a me fintanto che avevo cominciato ad odiarla, ad odiare i tasti bianchi e neri, le corde dei violini e le note musicali.
Avrei voluto spaccare il suo violoncello costosissimo e assaporare ogni pezzetto di legno pregiato spaccarsi e volare in aria, le corde rompersi e arricciarsi.
Sentii un forte groppo al cuore per aver odiato così tanto e inutilmente.
“E’ la mia camera.” Disse lui. Mi stava venendo da piangere dopo aver sentito quelle parole vibrare di emozione.
“Camille…” Disse dandomi le spalle. Poi si voltò di tre quarti e si sfregò un occhio con il palmo della mano, teneva gli occhi bassi.
Ispirò profondamente e a scatti e poi mi disse. “Camille. Io-io non lo so cosa sia successo. Non mi piacevi la prima volta che ti ho vista. Mi sembravi una ragazzina irritante e frivola, lì in piedi insieme con i tuoi compagni, mi guardavi con un aria di sfida e allo stesso momento spaventata, come chi teme di essere derubato da un momento all’altro. Sapevo che stavi pensando a me come a un poco di buono e ti odiavo. Odiavo il modo in cui mi fissavi con sospetto e i tuoi modi da borghesuccia d’altro rango. Ma quando ho visto il modo in cui ti si illuminavano gli occhi alla vista di una caffetteria, di come avvampavi per niente e di come ridevi serena e felice cambiai idea. E piano piano, senza volerlo sei entrata nella mia vita come un’ondata di aria fresca. Più passavano i giorni e più adoravo sentire i tuoi passi arrampicarsi su per le scale a chiocciola dello studio, il tuo naso all’insù per osservare le foto, il modo il cui studiavi latino e come ti sedevi di fronte alla vetrata ad osservare la pioggia picchiettare sul vetro. Io-io penso di essermi innamorato di te perché non faccio altro che pensarti e disegnarti. Non faccio altro che pensare ai tuoi capelli biondi, ai tuoi occhi di un verde chiarissimo, indescrivibili. Alle tue mani, alla tua risata. E faccio fatica a respirare al sol pensiero che tu sia qui di fronte a me che te le stia dicendo davvero tutte queste cose.”
Teneva il viso basso e un lieve sorriso sulle labbra.
 
E per un momento avevo voglia di toccarlo. Di toccargli la pelle, le braccia. Avevo voglia di abbracciarlo. Volevo seppellirmi tra il suo petto e respirare l’odore della sua pelle, della maglietta che odorava di pulito.
E così lo feci.
Gli presi un braccio. Nel momento in cui scostò gli occhi dal pavimento per incontrare i miei, spalancati e sorpresi, mi fiondai tra il suo petto. Non sapevo come mai ma volevo rimanere lì, non avrei voluto altro che rimanere con lui. Niente Fabio, ne Gian Marco.
Lo strinsi forte affondando la mia testa nella sua clavicola e respirai forte. Lui mi strinse a sua volta. Un abbraccio accogliente e protettivo che mi avvolgeva tutta.
“So quali sono i tuoi sentimenti per Fabio, ma saprò aspettare. Aspetterò che tu prenda la tua decisone.” Mi sussurrò all’orecchio. E così piansi. Mi sciolsi in quelle parole fatte di amore e comprensione e piansi.
 
Rimanemmo lì, io a piangere e lui ad accarezzarmi i capelli in una danza immobile. Eterna e infinita.
 
 
 
Ci baciammo in mezzo alle scale del secondo piano, dopo che mi aveva rincorso giù per le rampe dopo essere uscita da casa sua.
Un bacio semplice e morbido. Io tenuta tra le sue mani come un uccellino fragile mentre mi avvolgeva con le sue labbra, avevo dimenticato chi ero.
 
Ero diventata un'altra persona su quelle scale da ospedale.
 
 
 




*Angolo dell'autore*
Oh finalmente. Devo dire che personalmente questo capitolo dal punto di vista "stilistico" diciamo mi è piaciuto meno del precedente,
ma finalmente Francesco si è dichiarato e a mio modesto parere, è stato molto dolce. 
Direi che questa cosa batte di gran lunga il capitolo 13. 
Francesco, a differenza di Gian marco sa cosa significa saper aspettare e rispettare gli altri e da questo punto di vista, potrebbe insegnare molto al signor "io sono figo, perchè non mi ami?" 
Beh, adesso staremo a vedere cosa succederà.... Hahahah mmm... io ho già in mente tutto!
Commentate e datemi se vi piace :)
-Sel-

 
  
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