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Autore: Subutai Khan    22/06/2003    13 recensioni
Asuka è seduta al tavolo di uno squallido bar di Londra, senza soldi e senza speranze. Si guarda indietro e vede una vita distrutta, dolore, solitudine, morte che è venuta e morte che deve venire. Ma non è sempre stata così: Asuka ha anche sperimentato con mano il detto "la vita è meravigliosa". Ha diviso tutto quello che aveva con la persona che amava e che ama tuttora. E allora come ha potuto ridursi così, ad attendere una fine più prossima che mai?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Asuka Soryou Langley
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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"Un altro Bloody Mary, Christine".
La bionda cameriera mi guarda, poi tira fuori un mezzo sorriso: "Sicura? Tuo marito non sarà contento se gli piombi a casa ubriaca".
Con un grugnito le faccio capire che non è la serata adatta per il suo umorismo di serie Q e aggiungo: "Sono le mie ultime dieci sterline, lascia che le spenda come voglio".
Mentre aspetto di essere servita mi prendo una sigaretta dal pacchetto quasi vuoto, la accendo, inspiro profondamente e penso.
Come ho potuto ridurmi così?
Le luci soffuse del locale ormai deserto contribuiscono a farmi sentire ancora più giù di quanto non sia di mio. Mi trasmettono una voglia di ballare, libera e scatenata, che ho perso troppo tempo fa.
Tredici anni sono passati, tredici anni da quell'afoso giorno di gennaio in cui il comandante Ikari convocò l'intero staff della NERV, comunicandoci che l'agenzia era sciolta.
"La minaccia degli Angeli è scongiurata grazie al vostro eccellente lavoro, di tutti voi. Ho quindi pensato fosse giusto darvi il riposo che vi meritate".
Mai benservito fu più unto ed ipocrita di quello.
Persa la ragione per cui ho vissuto quattordici anni di vita, mi preparavo a tornarmene in Germania da quella megera della mia matrigna.
Rassegnata stavo già facendo le valigie quando, senza nemmeno bussare, Shinji entrò in camera mia.
"Che c'è baka? Sei venuto a godere della mia ennesima sconfitta?" chiesi con un tono a metà fra l'arrogante ed il triste.
Come da copione lui arrossì e balbettò qualcosa. Non avevo voglia di starlo a sentire scusarsi per colpe non sue, quindi feci per superarlo. Ma la sua mano, forte come mai l'avevo sentita, mi bloccò prendendomi per lo stomaco.
"Ascolta, vorresti... vorresti fermarti a vivere con me e con la signorina Misato?" disse con il suo usuale passo incerto.
Mascherando il mio enorme stupore ostentai spocchia: "Sì, così poi potrai sfottermi a tuo piacimento".
Immediatamente capii di aver detto una spropositata sciocchezza, intuizione confermatami dai suoi singhiozzi.
"Sei una stupida".
Non dissi nulla.
"Come puoi non capire che lo schernirti è l'ultimo dei miei pensieri?".
Ancora stetti zitta.
"Non riesco a comprendere. Non riesco... io... Asuka... tu mi piaci".
Stupita. Mi sentii stupita e sconvolta.
"So bene che non ho possibilità con te, ma lascia almeno che ci provi. Avrò l'anima in pace prima di morire".
In quell'istante dovetti intervenire.
"Shhhhh".
"Eh?".
"Non parlare di morte. Ascoltami attentamente, Shinji Ikari".
Feci una lunga pausa per chiamare alla mente le parole più adatte.
"Forse è vero, forse non hai speranze. Ma fammi dire questo. Oggi hai, per la prima volta, aperto uno spiraglio nella mia corazza. Ho davvero apprezzato il coraggio che hai mostrato nel dichiararti. A dir la verità me n'ero già accorta da qualche tempo, ma ho preferito vedere se me l'avresti mai detto. E l'hai fatto. Hai vinto, resterò. Ora però sta a te conquistarmi".
Il libro delle fiabe si aprì quel giorno.
Mentre sorseggio il Bloody Mary tormento con l'indice della sinistra i miei sfibrati capelli corvini. Sono molti anni ormai che ne ho cambiato colore e taglio adottando un anonimo caschetto, pallido erede dell'infuocata chioma che fu.
L'insegna interna del Buddha Bar fa le bizze come suo solito, alternando in modo incostante splendente luce azzurra e desolante buio nero.
Mi sento un po' come quell'insegna.
Ad un certo punto Christine mi si avvicina da dietro il bancone e mi dice: "Sai Asuka, pensavo...".
"Meraviglia delle meraviglie, sa anche pensare" la interrompo con malcelato sarcasmo.
"Non sei per nulla spiritosa. Comunque, perché non ti trovi un lavoro? Invece di passare le giornate a bighellonare per le strade potresti mettere da parte qualcosa".
"A che pro? Per aggiungerlo alla lista di quelli che ho già perso?".
"Come sei disfattista. Vedrai che andrà bene stavolta".
"Niente va più bene alla sottoscritta".
Niente.
E dire che pensavo tutt'altro, in quel magico giorno.
Dopo che Shinji mi convinse a restare con lui e Misato assistetti ad una miracolosa trasformazione in lui. Di comune accordo decidemmo per la mia adozione da parte del maggiore fino ai diciotto anni, ma la mia matrigna oppose una fiera ed ostinata resistenza per un motivo che ancora adesso mi sfugge.
Un giorno ero con lei al telefono, cercando di convincerla, e Shinji era presente.
A un certo punto, accecato dalla frustrazione di non riuscire a capire, mi strappò di mano la cornetta e urlò, in giapponese: "Signora Schmidt o come cazzo si chiama, lasci Asuka libera di fare come vuole lei, per una buona volta".
Lo guardai come se avesse appena ucciso qualcuno. Ripresi il controllo della conversazione e tradussi in tedesco confermando che il mio coinquilino, seppur con eccessiva foga, aveva espresso esattamente il mio pensiero.
"Me ne lavo le mani, figlia degenere. Libera di rovinarti come più ti aggrada".
Fu l'ultima volta che sentii la voce della donna con cui ero cresciuta.
Mi girai a dir poco sbigottita verso di lui e gli chiesi silenziosamente cosa gli passava per quella testaccia.
Lui disse semplicemente: "Andava fatto". Senza un tentennamento o un'ombra di incertezza.
Rabbrividii involontariamente. Assomigliava a Gendo.
Il giorno successivo, sbrigate le pratiche burocratiche, moriva Asuka Soryu Langley e nasceva Asuka Katsuragi.
Naturalmente vi era di più oltre al mero cambio del cognome. Basta con il passato.
Basta vivere per gli Eva.
Basta con la vecchia, insopportabile Asuka.
Appena uscimmo dal municipio mi ripromisi solennemente di non commettere mai più gli errori da cretina che mi avevano già rovinato la vita una volta. Avevo una nuova possibilità.
Troppa rabbia era stata masticata.
Troppi bocconi amari digeriti senza protestare.
Troppe incomprensioni ed insopportabili silenzi.
E tutto per la mia stupidità.
Se veramente ero il genio che mi vantavo di essere non avrei mai permesso ad uno smisurato sentimento di dominarmi nuovamente.
Il libro delle fiabe girò pagina.
Finito.
Il Bloody Mary è finito.
La sigaretta pure.
Senza parlare della mia misera esistenza.
Buffo. Da adolescente ero così piena di me che rischiavo di scoppiare ad ogni momento e adesso ho il problema contrario. Tengo in così bassa considerazione la mia stessa vita che, se decidessi di venderla al mercato di Portobello Road, andrei in giro ad urlare "Svendesi vita a costo zero, affarone".
Mi rivolgo a Christine, che sta per smontare dal lavoro: "Ehi tu, ultimo residuato di amica che mi resta...".
"Dimmi, Asuka".
"Conoscendo la mia storia per come la conosci tu...ecco, volevo sapere... pensi che sia nata sotto una cattiva stella? Pensi che io sia destinata all'infelicità?".
Per un microsecondo è pietà quella che riempie il suo volto, poi le nasce un enorme sorriso, così grande che potrei tuffarmici dentro: "No, non lo penso. La tua stella è così splendente che non si può guardarla senza rimanerne accecati".
"Tsk, maledetta ottimista".
"Come?".
"Aspetta che ti dica cosa mi è successo e capirai".
Ventisette anni di vita vengono riassunti in una manciata di minuti. Niente viene tralasciato, proprio niente.
"Ommiodio. Mi dispiace ma non sapevo".
"Come potevi? Non te ne ho mai parlato".
"Dev'essere stata dura, molto dura perdere la mamma ad una così giovane età e vederla comportarsi affettuosamente con una bambola invece che con te".
"Non puoi nemmeno immaginarti quanto".
"E il coma...".
"Un altro ricordo di cui farei volentieri a meno".
"Ero già al corrente della parte successiva al vostro trasferimento a Londra, è stato in quel periodo che ci siamo conosciute. Ma il resto... sono davvero mortificata di averti fatto rivangare eventi così dolorosi".
"Ti ho già detto che non è colpa tua".
Tutto il discorso l'ho condotto a testa bassa, rosa dall'amarezza e dal rimpianto. Appena la alzo verso di lei... sta piangendo. Con calma e compostezza, in modo talmente tranquillo che nemmeno me ne ero accorta.
"Stupida, perché piangi?".
"Mi è concesso essere... sniff... dispiaciuta per un'amica che ha avuto così tante traversie?".
E senza darmi il tempo di reagire mi avvinghia in un abbraccio da orso.
Era da tanto che non assaporavo un calore così puro e sincero, proveniente da un cuore che mi capisce e cerca di sostenermi.
Mi sciolgo nella sua stretta, mentre la mente torna a scavare nel mio passato.
Così bello e così lacerante.
Mi ero resa conto di amarlo solo dopo molto tempo. Precisamente passarono quattro anni dal quel giorno intriso del suo eroismo. Eroismo nell'aver finalmente affermato i suoi sentimenti verso di me senza paura e senza timore. Mi aveva detto che gli piacevo. In modo chiaro e diretto, anche se intervallato da inevitabili momenti di silenzio.
Non potevo certo pretendere che cambiasse radicalmente in qualche minuto.
Ma mi era bastato.
E vivendoci insieme per così tanto ho scoperto che persona meravigliosa fosse: smessi i panni del timido a tutti costi si è rivelato gentile, comprensivo, attento, con un forte spirito cavalleresco dal sapore prettamente medievale. Di quelli che non esistono più.
A completare il tutto c'era il suo corpo: alto, asciutto, muscoloso quanto basta, i capelli neri che superavano appena le spalle andando ad incorniciare un visino delizioso, perennemente sorridente.
Io, fisicamente parlando, rimasi la stessa. Salvo riempirmi ulteriormente nei punti caldi via via che il tempo passava.
Libera dal fardello del mio totalizzante orgoglio riuscivo finalmente ad apprezzarlo per il bellissimo uomo che stava diventando.
Innamorandomene alla follia.
Successe una sera d'agosto del 2019: eravamo entrambi sdraiati per terra a guardare la televisione, la noia a farla da padrone. Già da tempo progettavamo di andarcene da casa Katsuragi, ormai eravamo tutti e due maggiorenni.
Pensavo che non l'avrei seguito perché, nonostante la mia buona volontà nel cambiare, non riuscivo ancora ad essere del tutto onesta con me stessa e mi ostinavo a credere che lui non sarebbe stato necessario nella mia vita futura.
Distratti dal pallosissimo documentario sulla vita delle otarie cui assistevamo, quasi non ci accorgemmo di esserci accoccolati uno all'altra. Scene del genere erano ormai la norma, e non scandalizzavano nè stupivano più nessuno.
Passò qualche ora e Misato rientrò a casa, ma noi non ci facemmo troppo caso. Quando arrivò nel soggiorno e ci vide scoppiò a ridere e disse: "Siete davvero una bella coppietta".
Noi, che eravamo mezzi addormentati, fummo scossi da questo suo innocente commento. Arrossii e sentii su di me gli occhi innamorati di Shinji.
A quel punto mi resi finalmente conto di come stavano davvero le cose. Raccolsi tutto il mio coraggio, mi voltai verso di lui e lo baciai.
Questo mio gesto meravigliò più me che lui.
Invece Misato aveva la mascella all'altezza delle ginocchia. Sapeva di Shinji, e per questo era in pratica indifferente a teatrini come quello di pochi istanti prima, ma non si aspettava ciò che aveva appena visto.
Dopo un paio di minuti lunghi come secoli ci staccammo.
"A quanto pare di speranze ne avevi, eh baka?" esordii a bruciapelo.
"L'ho sempre saputo" rispose, con un sorriso sospeso fra il perfido ed il sognante.
"Sei davvero cambiato molto".
"Già, e a quanto pare per il meglio se hai avuto il fegato di accettarmi".
Gli diedi un buffetto sulla spalla: "Ehi, lo sai che non sono più quel tipo di persona".
"Ma certo che lo so, Diavolo Rosso. Ho il brutto vizio di non innamorarmi di qualcuno che è solo capace di ferirmi".
"Stai insinuando qualcosa nei miei riguardi, Third Children?".
"Non mi permetterei mai di farlo, Second Children".
"Se se. Ora ti faccio vedere io come Asuka Katsuragi sistema chi le manca di rispetto". E con un Geronimo da perfetto pellerossa afferrai un cuscino e mi avventai su di lui.
Passammo la successiva mezz'ora a guerreggiare.
Alla fine ci ritrovammo uno sopra l'altra, consumati dalla stanchezza e dalle risate. Mentre riprendevamo fiato mi soffermai a guardare le sue labbra e desiderai avidamente un altro bacio. Quello di prima era stato così focoso, passionale e nel contempo dolce, permeato del suo desiderio di proteggermi sempre e comunque che non poteva rimanere un caso isolato.
In quella notte vi fu ben più che un paio di semplici baci.
Il giorno dopo organizzammo un grande party per annunciare il nostro fidanzamento.
C'erano tutti: amici, parenti e saltimbanchi. Ma quasi nessuno, a parte Misato e Kaji che amoreggiavano come due tredicenni, era in vena di festeggiare.
Toji non aveva notizie di Hikari da mesi, dopo che lei si era trasferita in Francia con la famiglia. Povero stupido.
A Kensuke si era rotta la telecamera e, privato della sua più fedele amica, sembrava un vegetale invece che un essere umano. Ma era chiaro che gli mancava qualcosa di più importante.
La dottoressa Akagi, oltre all'endemica assenza di un uomo al suo fianco, non riusciva a trovare lavoro e passava le giornate chiusa in casa ad accarezzare i suoi adorati gattini in porcellana.
Non c'è nemmeno bisogno che dica di Rei e Gendo: lei era sparita dalla circolazione da un paio di mesi ma non ero così ipocrita da dire che mi dispiaceva perché, nonostante tutto, non sono mai riuscita a farmela stare simpatica. E per quanto riguarda lui... beh, era noto come non fosse tipo adatto a queste cose.
Per farla breve, sembrava più una funzione funebre che altro. Ma gli invitati ce la misero tutta per sforzarsi di apparire sorridenti e contenti per noi. Ciò, se da una parte mi rallegrava, dall'altra mi faceva ricordare quanto brutto fosse recitare un ruolo che non ti appartiene.
La festa riuscì abbastanza bene per quanto riguarda il divertimento puro e semplice: Shinji e Toji ebbero un litigio che rimase negli annali di Neo Tokyo-3, Kensuke fece una più approfondita conoscenza dell'alcool, Kaji imbastì uno spettacolino degno del miglior prestigiatore, un'ubriaca Misato accennò uno spogliarello con grande piacere dei maschi.
L'unica che non partecipò attivamente fu Ritsuko.
E su di lei concentrai le mie preoccupazioni per il futuro.
Era esattamente ciò che non volevo diventare: una donna bella, intelligente, fino a pochi anni prima occupata in una professione appagante e ben retribuita, ma soprattutto terribilmente sola. Vicino a sé non aveva nessuno: sua madre era morta, suo padre sparito, niente fratelli o sorelle, per quel poco che sapevo sua nonna abitava a più di mille chilometri di distanza, la sua unica amica era troppo impegnata a riscoprire le gioie dell'amore e del sesso.
Solitudine.
La si poteva quasi vedere aleggiare intorno alla bionda dottoressa, pronta a respingere qualsiasi potenziale disturbatore.
E ciò mi terrorizzava a morte.
Puntualmente le mie paure sono diventate realtà.
Ma in quel momento la fiaba era al suo apice.
Come le principesse di Andersen e Perrault c'era al mio fianco il principe azzurro nella sua scintillante armatura.
Purtroppo la vita non è un racconto.
"Mi stai soffocando".
"Oddio, scusa. Non volevo, è solo che...".
"Ti sono sembrata piccola e fragile".
"Esatto, ma...".
"E' ciò che mi dicono tutti coloro cui racconto la mia vita".
"Vorrei poter fare di più per te, Asuka".
"Hai fatto ciò che dovevi. Mi hai dato la voglia di arrivare a domani, e ti assicuro che non è poco".
"Ti serve aiuto".
"Nessuno può aiutarmi. L'unica persona che poteva ora non c'è più".
"Asuka...".
"Christine, ti devo chiedere un piacere".
"Sono a tua disposizione".
"Ti prego, se sei davvero mia amica stammi vicina fino alla fine. So che il mio tempo sta per scadere. Ho una forma depressiva che stroncherebbe un elefante, la gastrite non mi dà tregua, quelle brutte emicranie di cui ti avevo parlato si stanno intensificando. In pratica sto cadendo a pezzi, dipende solo da quanto resisterà la mia fibra. Non è una cosa che posso posticipare, nè tantomeno evitare. Quindi, ti scongiuro, rendimi meno pesanti i pochi mesi che ancora mi rimangono. Mi farebbe male dover morire da sola".
"P-Pochi mesi?".
"Ho parlato ieri col dottor Williamson, che molto gentilmente non mi ha nemmeno fatto pagare il costoso check-up. Ha confermato che il mio fisico sta crollando. Anche perché somatizzo moltissimo tutta l'angoscia che mi pesa addosso. In un certo senso mi sto scavando la fossa da sola".
"E' ter-terribile".
"Già. Non è bello sapere che ti manca poco. Vedi, quello che mi spaventa davvero non è la morte in sé, dato che quando ancora pilotavo l'Eva 02 l'ho vista in faccia moltissime volte, ma lo sparire senza che lo sappia nessuno. Per gran parte della mia vita non ho avuto un'anima veramente vicina a me, tranne che per un periodo troppo breve. Ora ci sei tu, e sei tutto quello che mi rimane. Non abbandonarmi".
Le sue mani sulle mie.
"Non è nelle mie abitudini piantare le amiche, specialmente quelle sfortunate come te. In qualsiasi momento tu abbia bisogno chiamami, senza esitare. Per qualsiasi cosa, sia essa un vestito piuttosto che il desiderio di sfogarti. Io ci sarò. Hai trovato il tuo sostegno. Sappi però che quello che mi hai rivelato stasera, e che ovviamente è avvolto dal segreto professionale, non renderà meno facile sopportare la tua assenza, se mai dovesse succederti qualcosa".
"E' normale, sono sempre stata molto ingombrante".
"Ti credo sulla parola".
Risate, finalmente.
"Sai, io ti ammiro molto Christine...".
"Uh? E perché mai?".
"Neanche tu hai avuto una vita facile, con tutti i fidanzati sbagliati che ti sei trovata e le grane in famiglia, eppure sei ancora in pista".
"Ma non farmi ridere. Non c'è paragone, tu hai visto l'inferno in terra. Te ne sono successe di cotte, di crude e pure di scotte".
"Sarà. Comunque, fra due persone la più disgraziata è quella che non sa sopportare le disgrazie.
Tu ne sei capace, io no. Non più.
Tu sai ancora sorridere, io no. Non più.
Tu non ti sei fatta schiacciare, io sì".
"Smettila, sei troppo severa con te stessa. D'ora in poi il tuo motto sarà pensare positivo perché, al contrario del dottor Williamson, io sono convinta che ce la possa ancora fare".
"Te l'ho già detto, sei una maledetta ottimista".
"Ti conosco abbastanza da capire che hai la forza per uscirne".
"Tutta la forza che avevo l'ho spesa piangendo".
Piangere.
La cosa che mi trovo a fare più di frequente.
Nel tugurio in cui vivo a Craven Road, nella zona più squallida e malfamata di Londra.
Qui, al Buddha Bar.
Per strada.
Dopo che il mio amante occasionale se n'è andato lasciando qualche spicciolo sul comodino, appena sufficiente a sbronzarmi.
A questo sono ridotta, a dello schifoso sesso a pagamento.
Solo per tirare a campare.
Un tempo mi sarei odiata a morte.
Ora no.
Avevo giurato che sarei cambiata e l'ho fatto.
Dove una volta ci sarebbe stata inestinguibile rabbia adesso c'è solo infinita tristezza.
Non sono più capace di disprezzarmi.
Né di vivere la vita.
E' una delle tante cose che ho smarrito sul percorso.
Ricordo bene quando il libro delle fiabe cominciò a rovinarsi, bersagliato dalle intemperie.
La prima, manco a farla apposta, fu Ritsuko. Rientrando in macchina da non so dove ebbe un infarto -quello che potrebbe venire a me da un momento all'altro, detto per inciso- e il suo macinino centrò in pieno un albero appena a lato della strada. La riconobbero da un pezzo di pelle scampata al rogo.
Eravamo tutti scioccati, chi più chi meno. Ci sembrava assurdo vedere una persona intraprendente ed acuta come la dottoressa sparire dalle nostre vite in un battito di ciglia.
Poi ci si mise anche Toji.
Resosi pienamente conto di aver perso l'autosufficienza insieme al braccio e alla gamba maciullati nell'incidente dello 03 e capendo che Hikari, la ragazza che ancora amava e della quale non si era mai dimenticato, non si sarebbe fatta più viva... per farla breve, in un momento di confusione mentale, tentò il suicidio. Ingerì un intero flacone di tranquillanti, e solo più tardi rivelò quante difficoltà dovette superare per arrivare a prenderli senza che nessuno lo aiutasse.
"Non riesco nemmeno a morire da solo" disse una volta fuori pericolo.
Io e Shinji non volevamo più aver niente a che fare con Neo Tokyo-3, con ciò che poteva ricordare la NERV, con il Giappone. Non dopo i fatti successi.
Volevamo ricominciare da capo, noi due soli, lontani da un passato che continuava a perseguitarci.
Ne parlammo con Misato e lei, dopo un'iniziale opposizione, capì le nostre ragioni ed approvò.
Shinji aveva messo da parte parecchi soldi, dato che si era trovato un lavoretto part-time e si concedeva pochi vizi costosi.
Con quel piccolo patrimonio comprammo due biglietti aerei per Londra. Fuori discussione per me tornare in Germania, l'avrei data vinta a qualcosa che avevo smesso di sopportare. Eppoi eravamo entrambi attratti dall'Inghilterra, una delle zone del mondo uscite relativamente meglio dal Second Impact, culla della civiltà così come la conosciamo, nonché paese che ho sempre ammirato per qualche oscuro motivo.
Al momento della partenza, all'aereoporto, ci fu un addio strappalacrime, in perfetto stile hollywoodiano.
"Vi vedrò o sentirò mai più?".
"Non essere sciocca Misato. È ovvio che ci faremo vivi ogni tanto. In fondo il tuo numero di telefono l'abbiamo preso apposta".
"Già, hai ragione. Sto invecchiando e comincio a comportarmi come una mamma apprensiva".
"Su, abbracciami prima che sia troppo tardi".
E si abbracciarono, commossi.
"Asuka? Non abbracci chi si è presa cura di te negli ultimi sei anni?".
Scossi la testa.
"Non mi piacciono gli addii da film. Scusa".
Sorrise comprensiva.
Con voce insicura, coperta dagli incitamenti di Shinji a muoversi e dagli annunci dell'autoparlante, dissi anche: "Ti devo chiedere scusa anche per un'altra cosa".
"Eh? Puoi ripetere, per favore? Non ho sentito nulla".
Non avevo il coraggio di dirglielo in faccia, così mi voltai e feci per andarmene.
Urlai, nella ressa della zona d'imbarco: "Perdonami se non sono mai riuscita a chiamarti mamma. Hai fatto così tanto per me e te ne sarò per sempre grata". E cominciai a piangere, senza singhiozzare.
Ebbi la sensazione che avesse capito. Ma, essendo di spalle, probabilmente me l'ero solo immaginato.
Certo che, fra noi due, la vera codarda ero e sono io.
Lui si era dichiarato guardandomi negli occhi.
Io avevo ringraziato Misato, la mia matrigna così premurosa ed amorevole, dandole la schiena.
In quell'istante mi sono fatta un'enorme pena.
Prima volta di una lunghissima serie.
Christine, ormai pronta ad andarsene, mi si avvicina scuotendomi dal torpore.
Senza pronunciare una sola parola mi fissa, la sua mano sulla mia spalla.
Grazie, ultima amica mia.
Mormorando un semplice "ricordati, per qualsiasi cosa" mi lascia, nessun altro nel locale.
È l'ultimo faro fra me e la distruzione completa.
Spero non crolli come gli altri, benchè non ci creda molto.
Non che non mi farebbe piacere poter tornare a sorridere e a considerare la vita qualcosa più di un susseguirsi di giorni vuoti e disperati, tutt'altro, è solo che... appunto, non ci credo molto.
Ho subito troppe scottature e troppe delusioni per uscirne adesso.
Credo che ormai sia troppo tardi.
E' anche vero che si dice "arrivati in fondo al baratro non si può che risalire", ma non si adatta al mio caso. Le ali che avevo per poterne uscire si sono sciolte come un ghiacciolo al sole. La mia prospettiva futura è starmene buona buonina in questo oscuro burrone aspettando la fine, più vicina di quanto avrei mai voluto.
Ho un'unica via di fuga dall'orrido presente. I ricordi.
I bei ricordi.
Appena sbarcati in terra inglese passammo la prima notte in una pensione. Il giorno dopo, data l'ignoranza di Shinji nella lingua indigena, scattai alla ricerca di una casa. Ed entro sera... et voilà, ecco il nostro appartamentino, non grande ma abbastanza accogliente.
Nei mesi successivi trovai lavoro, mentre lui si dava da fare nello studio. Essendomi laureata a quattordici anni non mi fu troppo difficile ottenere un buon impiego, sufficiente a pagare l'affitto e a soddisfare qualche innocente desiderio.
Quando finalmente fu pronto ad affrontare il mondo esterno, anche lui partì per la caccia. In due giorni trovò ciò che cercava. Con un guadagno mensile pressochè raddoppiato potemmo permetterci un'abitazione più grande e, in seguito, una casa di proprietà.
Piccolina ed in una zona operaia della città, ma nostra.
La prima, vera conquista dall'inizio dell'avventura.
Un anno era volato.
Nel frattempo avevamo incontrato gente, stretto amicizie ed allargato il giro delle nostre conoscenze. Fra le tante facce nuove c'era Christine, che già lavorava al Buddha Bar.
Non che all'epoca quel posto mi piacesse, ma era molto vicino a dove abitavamo e le bevande costavano poco. Così presi a frequentarlo. A volte da sola, a volte con Shinji.
La nostra vita scorreva tranquilla: lavoravamo il giusto, uscivamo la sera per andare a divertirci da qualche parte, spesso organizzavamo dei pic-nic nel weekend per svagarci un po', cenavamo ogni venerdì sera con gli amici. Insomma, due fidanzati ventenni che se la godevano, nei limiti economici.
Andava tutto bene.
Tutto era perfetto.
Appunto. Era.
Un paio d'anni fa ci fu il crollo.
Eravamo entrambi nel nostro cucinino, intenti a prepararci la colazione. Sin da quando si era alzato lui era cupo in volto, come se avesse qualcosa di impellente da dire ma non ne trovasse il coraggio. Ingenuamente pensai che aveva dormito male, o che forse non era stato soddisfatto della mia performance sotto le coperte nella notte appena trascorsa.
Se ne stava lì seduto a girare distrattatamente il cucchiaino nella tazza del caffelatte, fissando un punto del muro dove l'intonaco bianco era quasi del tutto scrostato. Sì, casa nostra non era decisamente Buckingham Palace.
"Che hai, Shinji? Qualcosa ti preoccupa?".
"Sì. Ti devo parlare. Siediti Asuka, sarà meglio per te".
Tono di ghiaccio. Come suo padre.
A quel punto venni presa dall'angoscia. In tutto il tempo in cui avevamo vissuto insieme non si era mai comportato così. Voglio dire, come ogni essere umano aveva avuto le sue giornate storte, non è mica perfetto. Ma mai l'avevo visto tanto serio. Sembrava che dovesse dirmi una cosa tipo "ho scoperto di avere l'AIDS, mi restano tre giorni di vita".
"Vedi Asuka" cominciò dopo aver preso fiato, quasi ad assicurarsi di poterlo dire tutto in un botto solo "non sono più soddisfatto di questa vita. Non mi manca nulla, economicamente ce la caviamo, ho te al mio fianco. Eppure tutto questo non mi basta. Non più. Non so da dove venga questa mia insoddisfazione, ma c'è e si fa sentire troppo spesso ultimamente. Quindi pensavo... ecco... odio dover dare brutte notizie... pensavo di andarmene".
Il mio cervello cominciò a balbettare qualche frase di sorpresa, ma non riuscii a traghettarle alla bocca perché lo shock aveva intasato tutte le terminazioni nervose, rendendomi muta come un pesce moribondo.
Sprofondai nella scomoda sedia in faggio, incapace di spiccicare anche la più elementare delle parole. Per quanto mi sforzassi altrimenti tutto ciò che riuscivo a fare era tremare.
"Oh no, non pensare che sia colpa tua" si affrettò ad aggiungere, quasi avesse percepito il mio stato d'animo "perché non lo è. Tu sei stata la migliore compagna e amica che potessi desiderare. Ho trascorso dei momenti stupendi al tuo fianco, mi hai fatto ridere, mi hai reso piacevoli giornate noiose, mi hai regalato infuocate notti di sesso e amore. Non sei tu il problema, assolutamente. Il fatto però rimane, io qui non ci sto più bene. Vorrei porre rimedio a questa mia situazione negativa e l'unica possibilità che vedo, benchè sia la più dolorosa, è quella di separarmi da te. Forse non è vero, ma sospetto che la routine abbia preso il posto della passione nella nostra vita quotidiana. Presumo sia questo il nocciolo della questione: ho bisogno di nuovi stimoli, di nuove sfide, di nuove prospettive. Mi dispiace".
Almeno ebbe il coraggio di dire che gli dispiaceva.
Gli dispiaceva spezzarmi il cuore.
Gli dispiaceva rovinarmi la vita.
Gli dispiaceva gettare al vento gli anni più belli che abbia mai vissuto.
Avrei voluto ritrovare la grinta della vecchia Asuka Soryu Langley e comincia a vomitargli addosso tutto ciò di peggiore abbia mai saputo dire.
Avrei voluto mostrargli cosa voleva dire ferirmi in questo modo.
Avrei voluto.
Ma le promesse vanno mantenute. Specie quelle fatte a sé stessi.
Niente più sfoghi da nevrotica.
Niente più urla degne dello psicopatico di turno.
Niente più scenate.
Riuscii solo a chiedere: "Perché?".
Lui mi fissò, lo sguardo di chi sa di star facendo male e non vuole: "Te l'ho già detto... io... sono così confuso... so solo che mi serve nuova aria... se solo ci fosse un altro sistema... mi distrugge vederti così, e lo sai...".
Cominciai a ripetere "perché", senza alcuna connessione logica con gli emisferi cerebrali. Era tutto ciò che usciva dalla mia bocca, come se fossi un androide programmato per dire solo quello. Shinji Ikari si poggiò una mano sulla fronte, ancorando il suo sguardo alla tavola, e pianse.
Erano anni ormai che non lo vedevo piangere.
Cristallizzati nelle nostre posizioni, passammo così l'intera mattinata.
Solo io e lui. Il resto dell'umanità lo consideravo morto o disperso.
Ad un certo punto mi ridestai, senza avere la minima idea di che ora fosse, né di cosa fosse successo nel mondo intorno a me.
La testa mi doleva da impazzire, e alzandola verso di lui mi aspettai di vederlo sorridente e felice -non mi è mai riuscito difficile autoconvincermi di qualcosa- quando invece era ancora lì ad osservare i ricami della tovaglia e a giocare nervosamente con un pezzetto di pane. Non piangeva più, forse non ci riusciva nemmeno ma ciò non gli aveva impedito di inondare il caffelatte di lacrime, cosa non raccomandabile dato che non navigavamo nell'oro e meno sprecavamo, meglio era.
Cosa si aspettava? Il tappeto rosso mentre usciva per sempre da quella casa e dalla mia vita?
Magari voleva anche la scatola di cioccolatini in dono con tanto di bacio della miss.
A quel punto la disperazione fu sostituita dall'ira. O almeno così cercai di fargli credere.
Con modi abbastanza bruschi lo sollevai di peso e gli dissi di andarsene, se era quello che davvero voleva.
"Su su, vattene se qui non ti trovi più bene". E dire che cercai di essere il più truce ed insensibile possibile. Si capiva lontano un chilometro che stavo penosamente fingendo di fare la dura.
Lo aiutai a fare i bagagli e feci in modo che non dimenticasse nulla di suo -se fosse successo non so come avrei reagito nel ritrovarmi sotto gli occhi la sua camicia preferita, o il paio d'occhiali che usava durante il lavoro- poi lo spinsi sgarbatamente verso l'uscita.
Lui abbozzò un tentativo di resistenza, forse finalmente consapevole di che colpa si era appena macchiato, ma non gli diedi la possibilità di fermarsi, e neppure di parlare.
Se lo avessi sentito bofonchiare qualche scusa sulla sua decisione avrei perso tutto la finta determinazione con cui lo stavo scacciando e lo avrei incatenato al letto pur di non farlo andar via.
Con la porta spalancata, la sua misera valigia nella destra, si voltò un'ultima volta verso di me, forse per salutarmi. Non disse nulla però, anche perché non gliel'avrei permesso.
"Non azzardarti a proferir parola, Shinji. Hai fatto la tua scelta. Sono una donna adulta e capisco quand'è il momento di lasciare che gli eventi seguano il loro corso. Eppoi sai che odio gli addii da film, quindi taci e farai un favore ad entrambi". Finita questa frase mi cadde una lacrima.
Se ne andò così.
Fuori il sole splendeva, anche se non faceva troppo caldo perché c'era un delizioso venticello a mitigare il clima. Me ne accorsi quando mi ritrovai sul terrazzino che dava sulla strada sottostante. Era una zona operaia di Londra, quindi non vi era nulla di particolarmente interessante da guardare, a meno che non si trovino interessanti i pedoni che attraversano a frotte uniformi e le macchine che strombazzano nel tentativo di guadagnare qualche secondo sulla tabella di marcia.
Io però avevo bisogno di qualcosa su cui focalizzare la mia attenzione.
Cercavo di distogliere la mia mente da ciò che era appena successo.
E da quanto ero stata cretina.
Ebbi ancora una volta la conferma della mia codardia congenita.
Non volevo spingerlo via così.
Non volevo suonare così fredda nel metterlo alla porta.
Non volevo.
Volevo che lui restasse con me, per sempre.
Volevo che si accorgesse di quanto a lui ci tenevo, mi sorridesse e mi dicesse "non so cosa mi sia passato per la testa, non ho motivo per lasciarti".
Volevo.
Ma, ancora una volta, quello che volevo fare non coincideva con quello che avevo fatto.
Questo perché mi era mancato il coraggio.
Per impedirgli di commettere il peggior errore della sua vita.
Per impedirgli di piantarmi in asso in questo modo subdolo ed inaspettato.
Per impedirgli di massacrare così il mio spirito, che solo da poco aveva cominciato a guarire lentamente dalle ferite del passato.
La cosa peggiore, però, era che non solo lo avevo lasciato andare, ma addirittura era sembrato che fosse una cosa a me del tutto indifferente. E Dio solo sa quanto questo non era vero.
Distrutta dalla mia stessa idiozia non trovai niente di meglio che rientrare in casa, sedermi sulla sgualcita poltrona del salotto e mordermi le mani. Letteralmente. Quasi mi staccai un dito tanto i denti si accanirono. Ancora adesso porto delle sbiadite cicatrici di quei momenti.
Da lì cominciò la spirale verso il fondo.
Non avendo guadagni sufficienti per mantenermi dovetti vendere la casa, poi persi il mio buon lavoro e mi arrabattai con impieghi di emergenza o a breve termine che comunque non riuscivo a mantenere a causa del mio precario stato psico-fisico. Feci di tutto: la spazzina, la segretaria, la dattilografa. Qualsiasi cosa per sopravvivere. Per qualche settimana lavorai anche al Buddha Bar, dato che avevo preso in affitto una squallida catapecchia nei pressi, e lì approfondii l'amicizia con Christine, l'unica rimastami vicina. Già, tutti gli altri si erano eclissati. I vari Fred, Thomas, Karen. Tutti spariti appena hanno saputo.
Belle merde.
Finchè Asuka la fessa li invitava a pranzo erano tutti sorrisi e regalini.
Poi, appena la suddetta fessa ha cominciato ad avere problemi finanziari... puff, non pervenuti.
Asuka? Ah sì, quella poverella piantata dal fidanzato.
Maledette serpi velenose.
Infine, pochi mesi fa, il colpo di grazia. Quello che ha stroncato qualsiasi pallida possibilità di ripresa.
Stavo servendo ai tavoli al bar, quando ritornai dietro al bancone per riempire due boccali di birra scura. In quel periodo le cose andavano leggerissimamente meglio, e avevo come la sensazione di essere sulla buona strada per poterne uscire. Mentre stavo mettendo i bicchieri sul vassoio l'occhio mi cadde per caso su una pagina del quotidiano aperto, sbattuto su una sedia lì vicino. Spesso noi camerieri leggevamo le ultime news quando non c'era troppa gente, e a volte ci mettevamo anche a discuterle per esprimere il nostro parere.
Quello che lessi quel giorno spezzò definitivamente ciò che rimaneva del mio cuore.
Svenni, cadendo come un sacco di patate. Rovesciai per terra tutto, spaccai i bicchieri e scheggiai il vassoio.

"Shinji Ikari, 2001-2028. Morto oggi in un incidente stradale nei pressi dell'aereoporto di Heathrow.
Ne piange la scomparsa la fidanzata Kelly".

Mi risvegliai circondata dai colleghi. Fra di loro qualche sguardo di compassione, alcuni di indifferenza più totale e uno solo, vi lascerò indovinare quale, genuinamente preoccupato. Ma la piccola folla si disperse appena mr. Russell, il proprietario del locale, fece un'occhiata mortale delle sue. Poi mi si avvicinò, ma più che una persona che camminava sembrava un maremoto distruttore.
"Katsuragiiiiiiiiii, che diavolo mi combini, si può sapere?".
"Ehm, ecco, vede...".
"Balbettare non è un'optional che ti puoi permettere. Rispondi alla domanda o ti appendo al lampione qui fuori".
Era davvero nervoso. Se ci ripenso ora mi tornano i brividi.
"Sì, dunque... stavo riempiendo due boccali di birra quando ho visto questo" e gli porsi la pagina incriminata.
Lui la osservò con sguardo interrogativo, senza capire a cosa mi riferissi.
"Parlo di questo". Indicai la colonna.
"Ebbene? Ancora non ci arrivo. Ti spiace spiegarti meglio?".
Quell'uomo voleva vedermi morta.
Gli dissi ciò che voleva sapere con tanta perversa curiosità, e a ogni parola sentii che i miei battiti si facevano sempre più stentati e sofferti. Dovetti anche fermarmi per riguadagnare la normale respirazione e per ricacciare le lacrime che già stavano cadendo.
"Tutto ciò è molto triste e commovente, ma questo non toglie che hai appena sfasciato della roba. E non è nemmeno la prima volta che succede".
Ma dico io, quello non sa cosa sia la comprensione? Chiedevo solo un minimo di pietà. Non pretendevo certo che si disperasse per me, ma neanche che si comportasse da bastardo.
"Sei licenziata. Puoi anche andartene subito, o se preferisci finire la serata che comunque non ti verrà pagata a causa del danno provocato".
A quel punto mi chiesi davvero se non fossi nata per il solo scopo di soffrire, come una cavia da laboratorio. In quel giorno persi il lavoro, ma quella dopotutto non fu nemmeno una novità, e scoprii ciò che mai avrei voluto scoprire. Mai.
Me ne andai e desiderai farmi tirare sotto da qualche macchina di passaggio, tanto per evitarmi ulteriori torture non richieste.
Naturalmente, se sono qui a raccontarlo, non l'ho fatto.
Comunque sarebbe stata solo una rapida scorciatoia verso la fine che già avevo imboccato da tempo. Fu infatti dopo quella tragica sera che i miei malanni, sino a quel momento abbastanza normali, si fecero molto più gravi. Cominciai persino a perdere i capelli e temetti di restare calva.
Questo secondo colpo fu quasi più devastante del primo. Perché scoprire che l'unico amore della tua vita, da cui eri stata scaricata qualche tempo prima, era perito in un incidente stradale, e che ti aveva già rimpiazzata, è una cosa che non auguro a nessuno, neanche al mio peggior nemico.
Il mio problema, se così si può chiamarlo, è che non sono mai riuscita a dimenticarmi di lui, per quanto possa averci vanamente provato. Non ce la facevo, era uno sforzo troppo grande per me. Come avrei potuto scordarmi del suo sorriso, del suo baciamano quando rientravo a casa dal lavoro, dei suoi sfolgoranti occhi marroni? No, no, fuori discussione.
Può dipendere dal fatto che lui è stata la prima persona alla quale abbia realmente spalancato il mio cuore malandato e, trascinata dal desiderio di cambiare, abbia esagerato. Se prima mi difendevo dagli altri, da lui soprattutto, comportandomi sempre da persona insopportabile dopo essermi messa con lui gli ho donato tutta me stessa, senza riserva alcuna. Esponendomi quindi ad eventuali delusioni. Anzi, mica tanto eventuali.
Se c'è una cosa che so su di me è che non ho il senso della misura.
Prima odiavo il mondo, Shinji in particolare.
Poi amavo il mondo, Shinji in particolare.
Poi più nulla. Il vuoto e la solitudine.
Freddo.
Ehi, chi ha spento il riscaldamento?
Cavolo, non sono più nel locale. Christine mi deve aver portata fuori prima di chiudere. Ero talmente immersa nei miei pensieri che nemmeno me ne sono accorta.
Siamo in pieno inverno ed io non ho nulla per difendermi dal pungente vento, se non un misero cappottino che sarebbe troppo leggero in autunno.
Brrr, che ci rimango a fare qua? Tanto vale andare a morire congelata a casa.
Mi incammino e ripenso alle parole di Christine: "Ricordati, per qualsiasi cosa".
Vorrà dire che mi rivolgerò a lei per l'epitaffio sulla mia squallida tomba. Spero che almeno non mi faccia lo sgarbo di mancare al funerale, sempre che qualcuno abbia il buon cuore di pensarci.
Shinji, non essere impaziente. Fra non molto arriverò.

I'm sitting here alone in darkness
waiting to be free
lonely and forlorn I'm crying
I long for my time to come
death means just life
please let me die in solitude


Dieci giorni dopo Asuka ebbe un attacco di cuore -quando si dice il caso, eh?- in mezzo alla strada. Crollò come un albero abbattuto dai boscaioli. Nessuno la aiutò, e fu quasi una coincidenza se un'ambulanza la caricò e la portò all'ospedale. Inutilmente.
Si presentò solo Christine al funerale da lei stessa organizzato. Quel giorno splendeva un sole abbacinante. Per l'ultima amica di Asuka Katsuragi fu uno strazio senza pari vedere la bara inabissarsi per sei piedi nel terreno.
Avrebbe davvero voluto aiutarla. Purtroppo non si era resa conto che la situazione era ormai compromessa, proprio come la stessa Asuka le aveva detto quell'infausta sera di pochi giorni prima.
Il Diavolo Rosso non aveva retto. Si era accartocciata sotto il peso del suo inestinguibile dolore per l'abbandono, e la successiva perdita, di Shinji.
Sulla lapide furono scritte poche parole.

飛鳥 葛城
2001-2028
Figlia amorevole. Compagna devota. Eroina che ha salvato il mondo più di una volta
Fu troppo presto lasciata a se stessa
   
 
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