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Autore: Gaea    07/05/2013    3 recensioni
Self-insertion allo stato puro: se potessi incontrare i personaggi che hai creato, a cui hai dato al vita, cosa potrebbe accadere?
Idea nata dal contest "Io ti ho creato... io ti incontro!" di S.Slappy
Giudizio: “Dove sono?” chiese lei di rimando. Banale, certo, ma sempre efficace in un sogno: capisci dove sei e saprai dove andare per svegliarti. Un castello non era certo una novità, nel suo mondo onirico, né lo era un principe. Un momento: come sapeva che era un principe?
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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NIK:  Gaea – (Gaea)  
TITOLO: Giudizio
GENERE: Drammatico, Introspettivo
RATING: Giallo, suppongo
AVVERTIMENTI: linguaggio colorito, leggeri accenni a morte/torture
NOTE : a fine capitolo

 
 NOME:  Morgan Galahan Dunkan
SESSO: maschile
ETA’: fra i sedici ed i diciannove anni
PROFESSIONE/RUOLO all’interno della vostra fic: Principe del Doriath
RIASSUNTO MOLTO BREVE DELLA VOSTRA FIC: C’è una giornata normale di festa di paese, c’è gente che siede davanti ad un palco per vedere una recita, c’è un Principe che siede benevolo salutando la folla. E c’è che tutta questa normalità si trasforma in una mattanza e il Principe resta sorridente a contemplare la distruzione.
NOTE (es. eventi passati di prominente rilevanza, abitudini, malattie, tic… Tutte le anormalità riscontrabili in lui/lei, sostanzialmente):Non è descritto, né fisicamente né mentalmente perché in questa storia non è lui il protagonista, ma la sua follia, benché sia tutto fuorché pazzo. Ma il restante materiale è ancora nella mia testa, quindi…

 
 
Giudizio
 
 
“ Vossignoria è invitata a recarsi presso il Tribunale dei Mani per essere sottoposta al giudizio del Principe per crimini contro l’umanità e genocidio. Si richiede pronta risposta”.
 
Sbuffando scocciata contro lo spreco di carta – davvero, erano in piena crisi e questi qua spendevano soldi per una pergamena del genere per della pubblicità, della pubblicità! – Gaia cestinò la pesante busta e il suo contenuto. Non c’era scritto il mittente e non c’era timbro, quindi doveva per forza essere stata inserita a mano nella cassetta delle lettere dal solito indianino porta-volantini. Tribunale dei Mani… pensò scocciata. Questa gente nemmeno sa cosa sono i Mani, mi immagino da dove avranno tirato fuori il nome…
Eppure qualcosa non quadrava. Non c’erano indirizzi del presunto nuovo centro commerciale – solo quello poteva essere – e poi quel riferimento a “crimini contro l’umanità”… come se lei avesse mai fatto qualcosa di più grave di ubriacarsi o infilarsi in tasca una collanina sulle bancarelle al mare; tirar fuori riferimenti a cose così detestabili per futili stronzate pubblicitarie le faceva davvero girare le palle.
Eppure, si accorse, non era quello a infastidirla davvero. Era la ceralacca blu, realizzò. La carta pergamenata pesante, il sigillo di ceralacca, l’inchiostro nerofumo. Sembrava davvero una missiva antica. Poi l’ipod trillò, segnalando l’arrivo di un messaggio e la riflessione venne accantonata in favore di pensieri più frivoli ed immediati.
 
Per questo, quando tempo dopo si svegliò in una stanza scura e maleodorante, non collegò subito la sua situazione con quella strana lettera. Non sapeva nemmeno quanto fosse passato, né da quanto fosse sveglia. Un paio d’ore? Dieci minuti? Stava sdraiata su quello che pareva un pagliericcio al tatto, immersa nella quasi totale oscurità. C’era solo una lama di luce che filtrava da quella che credeva essere una porta. Non poteva investigare: una caviglia era incatenata al muro.
Che sogno assurdo.
Sentiva urla strazianti, pianti e lamenti, ma la distorsione e l’eco impedivano di capire da dove provenissero, o da chi. Erano umani? Animali? O era solo il vento? L’aria era fredda, doveva esserci un’apertura da qualche parte. Consapevole di essere in un sogno – andiamo, nel duemila e tredici non esistevano celle di pietra nuda – si alzò lentamente, tendendo la catena al massimo della propria estensione. cercò di sforzare la propria immaginazione, di rompere gli anelli metallici. Era un leggero cedimento quello che sentiva?
Passi oltre la porta. Ritornò a tentoni sul pagliericcio e si stese. La porta si spalancò di schianto, producendo un rumore cupo di metallo su pietra; sulla soglia, armato di una grossa torcia elettrica, stava un ragazzino. Abbagliata dalla luce incandescente Gaia distinse solo la sua sagoma, il movimento di quella che poteva essere una testa in un cenno che poteva essere di congedo. Poi il fascio di luce si abbassò e sentì il ragazzo armeggiare con qualcosa. L’odore acre dello zolfo riempì l’aria, seguito da quello caldo di cera d’api.
“Ben svegliata. Dormi davvero come un sasso, te l’ha mai detto nessuno? Spero che perdonerai la mia sfrontatezza e la mia informalità ma, vedi, credo che il nostro legame meriti di essere valorizzato con la più totale schiettezza e non mascherato da inutili e vuoti formalismi”.
Stava accovacciato davanti a lei, lunghi boccoli all’apparenza neri a coprirgli parzialmente il viso.
“Non parli? Ma come, proprio tu hai perso la lingua?”.
“Dove sono?” chiese lei di rimando. Banale, certo, ma sempre efficace in un sogno: capisci dove sei e saprai dove andare per svegliarti. Un castello non era certo una novità, nel suo mondo onirico, né lo era un principe. Un momento: come sapeva che era un principe?
“Sei nel castello di Gurêdh, capitale del regno di Doriath*. Ma immagino non sia esattamente questa la risposta che ti aspettavi, giusto?”. Avvicinò il viso al suo.
Gaia chiuse gli occhi. Riconosceva quel sorriso storto. E quel modo di storcere il labbro, senza riuscire a mascherare del tutto il disgusto che provava nel trovarsi in un luogo simile. Erano gesti che vedeva allo specchio ogni giorno.
Dannato Freud, quanto ti detesto!
“È una risposta come un’altra. E tu chi saresti? Il figlio del fabbro? Una guardia carceraria? Il re? Perché sono qui?”.
Scoppiò in una risata argentina, totalmente folle e fuori contesto.
“Finalmente ti riconosco, un briciolo di ironia, sia lode ai Mani!”.
La sua voce aveva una piacevole nota baritonale, eppure dava come l’impressione di essere artefatta; c’era come un ronzio troppo basso per essere veramente sentito, ma abbastanza da essere percepito, più col tatto che con l’udito; come un registratore fuori fase, aveva una qualità elettronica non sgradevole quanto… finta.
“Hai ricevuto la missiva, ho avuto i mezzi per assicurarmene, sai cosa vogliamo da te. Come Sommo Giudice del Doriath sono qui per assicurarmi che tu…”.
“Vogliamo?”.
“… comprenda la tua posizione e che tu possa essere sottoposta ad un equo processo. Non sta bene interrompere una persona che parla, nemmeno per soddisfare una legittima curiosità. Sì, lo vogliamo: io e il resto della Corte”.
Ok. Quella stupida pubblicità. Detesto i sogni in cui so di star sognando, mi illudo sempre di poter cambiare le cose e invece poi non cambio nulla. Dannazione.
“Certo, Maestà, comprendo… e quali sarebbero i miei crimini, di grazia?”.
“Suvvia, non siamo nel Medioevo, ti ho già detto che non voglio manierismi in questo colloquio. Puoi chiamarmi col mio nome”.
“Che sarebbe?”.
“Insomma, davvero, inizio a stancarmi di questo teatrino. Smettila di annoiarmi, dovresti sapere che ciò che mi annoia non dura a lungo” affermò imperiosamente, senza però poter trattenere un sorriso storto che la inquietò più di quanto lei fosse disposta ad ammettere con se stessa.
“Non volevo, Morgan, scusami. Ma ammetterai che trovarmi incatenata in una stanza scura è un po’ troppo edgarallanpoeiano per far rimanere lucidi, no? Figurati poi se posso farti divertire” finì in tono forse esageratamente sarcastico.
Morgan?
“E non hai risposto alla mia domanda”.
“Domandare è lecito, rispondere… - le fece il verso - Sai, potrei essere egocentrico e dire che, prima di tutto, non mi hai dato una voce. Anche se non l’hai descritto dovevo necessariamente avere un corpo, sennò come avrei potuto esserci? E non è nemmeno niente male, anche se l’età non è certo quella giusta per regnare. Ma la voce, no, quella non era necessaria, e infatti non c’è – il tono, fattosi via vià più irato, divenne improvvisamente glaciale: una persona capace di simili sbalzi d’umore era una creatura da temere, si ritrovò a pensare lei, dimenticandosi di essere in un sogno – sai quanto è frustrante per uno come me che ha potere illimitato su praticamente qualsiasi cosa non poter dar voce ai propri pensieri? Fortunatamente ho trovato modo di rimediare alla tua mancanza” disse indicando un ciondolo che gli pendeva dal collo. Lei tacque.
Morgan scrollò la testa e respirò a fondo, riprendendo il controllo di sé.
“Ma, appunto, non voglio essere egocentrico. E non ti ho certo messo in cella per uno sgarbo fatto a me …”
Come se tu non fossi uno che ha ucciso gente per molto meno.
“… o per altre simili piccolezze. Sei qui per genocidio. Uccisione di massa. Sterminio di un’intera popolazione. Trova tu la soluzione linguistica che preferisci”.
“Stiamo parlando di formiche? Acari? Vespe? Mi dichiaro colpevole, Vostro Onore” rispose la ragazza, strascicando le ultime parole e instillandovi quanto più scherno poté. Probabilmente non era la scelta più giusta ma, ehi, quel tipo era un pazzo esaltato.
Lui sorrise, come un padre divertito dalle spacconate del figlio seienne, e per un attimo parve molto, molto più vecchio dei sedici anni che gli aveva dato vedendolo alla luce delle candele. Gli occhi scuri parvero farsi se possibile più neri, come se la sclera fosse stata inghiottita dall’iride.
Guardo troppo Supernatural, è ufficiale.
“Hai sterminato tutti gli abitanti della capitale. Tutti. Anziani, donne, bambini. Nessuno è sopravvissuto – continuò, e Gaia ebbe la sgradevolissima sensazione che quel suo accalorarsi parlando null’altro fosse che una farsa – molti sono stati uccisi dai proiettili dei soldati che hai mandato, ma la maggior parte è stata finita dal panico, ammazzata dalla calca e dal peso dei corpi che premevano in cerca di una fuga. Come hai detto? Ah, sì, ‘come un enorme schiacciasassi programmato per triturare i propri pezzi’. Metafora affascinante, anche se un po’ cruda. Se permetti una leggera nota a margine, ho trovato tutto un po’ troppo crudo e freddo… un po’ di introspezione, magari incentrare qualche frase su di me avrebbe senz’altro migliorato il risultato”.
“Ho scritto quel racconto anni fa!”.
“Ciò non toglie che avresti potuto riprenderlo in mano, ampliarlo. Darmi una cazzo di voce”.
“Non si stava parlando della morte di centinaia di persone? Siamo tornati alla tua voce?”.
L’assurdità della scena non la colpì particolarmente: continuava a ripetersi che era un sogno ed era sinceramente curiosa di vedere dove il suo subconscio sarebbe andato a parare. Sperava anche di ricordarsi qualcosa, una volta risvegliata: dopotutto, il racconto di cui stavano parlando era nato così. Da un sogno. Poteva cavare qualcosa di buono da un trip simile. Persa nei pensieri vide troppo tardi la mano ingioiellata di Morgan e non poté schivarla. Il pugno fu preciso e brutale, le arrivò dritto in faccia. Sentì il sapore del sangue e il calore del rivolo che scendeva lungo il mento. Dio quanto fa male! Si toccò la mascella e trasalì al leggero contatto: già iniziava a gonfiarsi. Riusciva a muoverla, quindi non era rotta – grazie al Cielo – ma il dolore era incredibile.
Altro che pizzicotto per svegliarmi. Su, su, Gaia, concentrati sul male e svegliati.
“Non fare la furba e non usare quel tono con me. Qui si parla di quello che voglio io!”.
“’erfetto, ‘a ‘ne – alzò le mani in segno di resa: ogni lettera pronunciata stirava dolorosamente le labbra, impedendo alla ferita di richiudersi – Bene. Fei con’nto? Non risco a ‘arlar”.
“Shhhh… tranquilla, adesso passa – le si avvicinò posando una mano gelata sulle labbra – appoggiati alla pietra… piano…il freddo ridurrà la botta. Scusami, non avrei dovuto colpirti in viso, abbiamo così tanto di cui parlare! Possiamo stare un po’in silenzio, se vuoi. Abbiamo tutta la notte. Oh, che frase… suona molto ambigua, vero?” chiuse, leccando lascivamente il sangue rimastogli sulle dita. lei rabbrividì, intimamente disgustata dalla scena, benché non fosse niente di poi così perverso. Rimasero per molto tempo in silenzio. Gaia sentiva l’odore della pietra umida, quello grasso della cera e qualcos’altro sotto che non riusciva ad identificare, e ne era ben contenta. Non c’era altro rumore se non il battito del suo cuore che le rimbombava nelle orecchie. Provò a muovere la bocca e si accorse con sorpresa che non faceva più male.
“Cosa vuoi da me? Che ammetta di aver ucciso il tuo popolo? Non l’ho fatto, i soldati l’hanno fatto e tu hai dato ordine ai soldati. Io ho visto la scena e l’ho raccontata, se vuoi proprio inserirmi in quel quadro… anzi, no, non voglio stare al tuo gioco, stupida proiezione del mio subconscio malato: come avrei potuto uccidere quelle persone? Io ho scritto della loro morte. Non sono nemmeno persone, erano personaggi, carta e inchiostro, anzi, ancora di meno, sono solo pixel e bytes. La mia condanna è essere un’autrice un tantino sadica? Bel sogno di merda mi sono scelta”.
La sua uscita parve scuotere visibilmente il ragazzo, che si sedette accanto a lei contemplandosi le unghie delle mani, dipinte. Sembrava quasi in trance. Fu per questo che, quando vide il corpo scosso da leggere contrazioni, credette che il suo carceriere fosse in preda alle convulsioni. Impiegò qualche istante a prendere consapevolezza – perché in realtà, in qualche modo, sapeva che quel ragazzo non era certo epilettico – del fatto che stesse ridendo. Lo faceva in assoluto silenzio, senza il minimo ansito; la scarsa luce proveniente dal basso disegnava una maschera grottesca sul suo viso contratto dalle risa e proiettava sulla parete ombre contorte. Quando alzò la testa, Gaia poté vederne le gote bagnate di lacrime.
Finalmente emise un lungo, divertito sospiro.
“Erano secoli che non ridevo così tanto e spero che tu non ti sia offesa per questo – esclamò giulivo, asciugandosi il volto e lasciandosi cadere sdraiato sul pagliericcio. Nonostante l’aria disgustata iniziale sembrava ora del tutto a suo agio in quell’umida cella – un sogno… davvero credi che sia un sogno? Che tutto questo non sia reale? Che le persone che tu hai dato ordine fossero uccise non fossero reali?”.
“Oh, andiamo. Ero in casa, nel duemila e tredici, a Chiari, Brescia. Il Doriath è un luogo immaginario che non ho inventato nemmeno io, tutti gli altri termini li ho sicuramente letti”.
“Certo – disse lui con condiscendenza, facendola infuriare – certamente è un’opzione, ma non cr…”.
“Ascoltami, ne ho abbastanza, se era vero che non ero qui alloa… be, per cominciare non starei parlando italiano. Non credo che nell’”alto regno del Doriath Settentrionale” – mimò le virgolette con le dita, facendo tintinnare le catene – l’italiano sia lingua corrente”.
“Tralasciando la dubbia grammatica della tua proposizione, che dimostra solo che forse nemmeno per te è tanto lingua corrente, e il fatto che tu mi abbia nuovamente interrotto, hai ragione: non è italiano quello che stiamo parlando – sogghignò – che poi sia un sogno è tutto da dimostrare”.
Simpatia portami via…eppure un piccolissimo dubbio cominciò a formarsi dentro di lei. Non aveva mai fatto sogni così vividi, in cui era così presente. E tutto era così totalmente assurdo e insensato, e lo era ancora di più vedendo quanto tranquilla fosse lei.
“Questo è un sogno – disse ad alta voce, più a se stessa che a Morgan – e io non ho mai ucciso nessuno. Se proprio vogliamo continuare con questa pantomima si dovrebbe affermare che tu hai ucciso tutte quelle persone. Tu eri sul palco, tu hai radunato l’intera cittadinanza, tu hai dato l’ordine ai soldati. Vuoi incolpare qualcuno? Guardati allo specchio”.
“Lo sto facendo – bisbigliò sibillino – ma allora dimmi: quale sarebbe il motivo? Perché uccidere il mio stesso popolo?”.
“Non ne ho la più pallida…”.
Perché tu sei come quei bambini che giocano a fare i castelli sulla spiaggia e che trovano il più grande piacere nel farli complicati e dettagliati per poterli poi distruggere meglio. Sei l’incarnazione di quella scura pulsione che ci spingerebbe a dar fuoco al mondo per il solo gusto di vederlo bruciare.
“… idea”.
Lo disse esitando, folgorata dal suo stesso pensiero. Ma era davvero un pensiero suo? Perché l’aveva sentito strisciare nel fondo della sua coscienza, come se qualcun altro glielo avesse bisbigliato nell’orecchio.
Quella storia cominciava a non piacerle più. Aveva già avuto incubi – i peggiori dei quali erano quelli in cui sapeva cosa stava per succedere, eppure non riusciva a muoversi né tantomeno a urlare per impedire che l’orrore avvenisse – ma in nessuno aveva avvertito quel grado di impotenza. Non era immobile, eppure sentiva che sarebbe stato meglio se lo fosse stata. Si alzò in piedi, allontanandosi da Morgan e dal pagliericcio quel tanto che la catena glielo permetteva. Si sedette a terra, avvertendo il gelo della pietra e la sua umidità penetrare nella tuta. La flebile luce faceva brillare veli di ragnatele che avrebbero fatto l’invidia di qualsiasi decorazione di Halloween. Rabbrividì pensando alle bestie che dovevano aver creato una cosa simile. Appoggiò la fronte alla parete.
Ora devo svegliarmi. O quanto meno cambiare sogno. Non mi piace. Questo buio è viscido. Voglio che adesso si apra una porta, voglio che la catena sparisca, voglio infilzare un coltello nella sua pancia e lasciarlo agonizzare in un lago di sangue.
Aprì gli occhi di scatto, spaventata dall’ultimo pensiero e, ancor di più, dalla consapevolezza che non era stata la sua voce interiore a formularlo.
Morgan si guardava le unghie, evidentemente annoiato.
“Sai, potrei anche toglierti le catene, ma fanno così folklore, non credi? Però hai ragione… la luce di queste candele inizia a darmi sui nervi. Aspetta”.
Si alzò, si avvicinò alla porta. Un clic inquietante nella sua famigliarità, ma totalmente fuori luogo, accompagnò l’accensione di una serie di neon, così luminosi da risultare impossibili da guardare direttamente. La loro luce era bianca e impietosa. La stanza era circolare, sembrava l’interno di un pozzo, una brocca sbeccata stava in un angolo opposto a quello del pagliericcio. Strizzando gli occhi Gaia poté finalmente vedere chiaramente il suo aguzzino: ricci non corvini, ma rosso scuro, occhi neri, pelle diafana che associava più a un nerd in ritiro dal mondo che ad un rampollo di sangue blu. Lentiggini che lo facevano apparire più giovane di quanto avesse pensato all’inizio, ma contrastavano con la linea estremamente volitiva della mascella. Vestiva con una camicia di foggia antiquata, chiusa con un nastro nero al collo. I jeans, invece, erano banalissimi Levi’s. Gaia sentì gli angoli della bocca tendersi suo malgrado di fronte a quell’accozzaglia surreale. Se aveva avuto dubbi sul fatto che quello fosse un sogno, lo spettacolo che le si offriva fugava ogni perplessità.
“Ora, forse sono stato un tantino indelicato ad infilarmi così nella tua testa senza avvisare, ma la tua convinzione che tutto questo non sia reale inizia a darmi sui nervi: all’inizio era esilarante, ma come sai sono uno che si stufa alla svelta. Proprio come i bambini. – sghignazzò strizzandole l’occhio – va bene, procediamo con un veloce ripasso, allora. ‘Ci sono altri mondi oltre questo’. Centinaia, Gaia, centinaia… e tu ne hai scoperto qualcuno e creato qualcun altro. Hai disegnato le tue brave finestre col gesso sulla lavagna e sei saltata in altri e nuovi sogni, ma non questa volta. Questo non è un sogno – scandì – questo è solo un altro dei mondi. Non ci sono principesse dal cuore infranto, qui, niente draghi buoni, niente colline coperte d’erica e baci rubati. Qui quello che tu hai abbozzato ha preso vita. Ma tu lo sai, no? Sai che tutte le volte che prendi in mano una penna la storia va avanti, che tu lo voglia o no”.
“Non dire stronzate e smettila di dare agli altri colpe tue! Abbi un minimo di orgoglio e di etica, ammetti che sono state azioni tue!”.
“Perché invece creare un mondo e abbandonarlo a se stesso, vederlo scolorirsi e seccarsi come un fiore senz’acqua è etico? E poi spiegami: non sono reale, però posso compiere azioni da solo? Mi sembra che tu ti stia un tantino contraddicendo, cocca” sbottò seccato.
Erano ad un impasse.
“Questo è un sogno”.
Questo non è un sogno.
“Questo non è un sogno. E ho bisogno che tu lo capisca”.
“Ne hai bisogno? Ma che cazzo vuoi da me, me lo spieghi?”.
“Voglio che tu paghi per quello che hai fatto”.
“Ma non ho fatto nulla! Non ho ucciso io quelle persone, non volevo soffrissero, per questo il colpo per uccidere il vecchio, non volevo agonizzasse, non volevo che rimanesse solo!”.
“E io non sono forse rimasto solo? Solo, in questo castello, senza null’altro che ologrammi a servirmi? Senza nessuno da amare, abbandonato dalla mia stessa madre!”.
Si fronteggiarono.
“Io non sono tua madre. Tu non esisti. Sei un ammasso di scariche elettriche immagazzinate in qualche modo nel mio cervello, sei memoria, sei inventato. Tu non esisti. E quelle che tu hai elencato sono altre storie, invenzioni… mondi? Ma quali mondi? Esistono solo nella mia immaginazione”.
“E cosa ti fa dire con sicurezza che ciò significhi non siano reali?”.
Questa affermazione per un po’ la zittì. Dopotutto, i suoi telefilm e libri preferiti trattavano quasi tutti di questo argomento: la sovrapposizione fra reale e fantastico, l’idea che la creatività di un’artista non fosse poi tanto dissimile da quella divina…
“Cominci a pensarci. Bene. Allora ho assolto il mio compito. Comando: spegnere le luci”.
Calò il buio. Spaesata dalla piega presa dagli eventi, Gaia, spaventata, strisciò verso il punto in cui ricordata trovarsi la brocca, lontana da quel pazzo. La porta si aprì – sentì lo spostamento dell’aria – ma nessuna luce rischiarò la scena. Poi, nuovamente, odore di zolfo e cera.
Morgan scuoteva nell’aria la mano, la brace del fiammifero ancora accesa.
“Sai, ho preso il tuo gusto per la teatralità… non posso resistere al lume di candela. Puoi farmene un torto?” domandò allegro.
“Morgan, cosa significa tutto questo, cosa stai facendo, perché la luce, insomma, spiegami…”.
“Gaia Facchetti di Chiari, come la legge prescrive sei stata resa edotta dei tuoi crimini e della tua situazione. Avendo tu preso coscienza di quest’ultima e avendo tu accettato…”
Ma è solo un sogno!
“… la tua condizione, la Corte, nella mia modesta persona, ha potuto pronunciarsi. Sei stata trovata colpevole dei reati a te imputati e quindi condannata…”
A morte, biascicò quella fredda voce.
“…a morte”.
Morgan le sorrideva dolcemente, mentre afferrava la catena e la obbligava a trascinarsi nuovamente accanto a lui.
“È stato bello poterti incontrare, breve certo… ma intenso. Spero perdonerai la fretta con cui concluderò la parte finale del nostro rendez-vous, ma ho un ampio regno con cui baloccarmi. La capitale è stata la prima stoppia arsa di un grandioso incendio. Perché limitarmi a governare, quando posso distruggere quello che tu hai creato? Sarà glorioso!”.
La sua voce si faceva sempre più fievole, mentre lo spazio sembrava dilatarsi nella semi-oscurità.
“Non aver paura, non soffrirai. Se sarai fortunata sfumerai in un altro mondo. È questo che succede a quelli come noi. Ma per te forse sarà diverso…”.
Fai che sia un sogno, si ritrovò a pensare mentre vedeva il filo della scure scintillare nella penombra.
Ti prego, fai che sia un sogno, Signore. Non voglio che sia reale, non può essere reale, non vogliocrederci, pensò poi, mentre le lacrime cadevano nella polvere sotto di lei. Sentiva il respiro leggero di Morgan, ma la catena che la teneva legata sembrava essere diventata indicibilmente pesante e non le permetteva di muoversi, nemmeno di voltarsi. C’era forse qualcun altro nella stanza? Ma c’era, poi, una stanza? Non ricordava. Non ricordava nemmeno perché stesse piangendo.
Se mi svegliassi adesso … poi venne il buio.
 

 
 


Note post lettura: ringrazio la mamma e tutti quelli che mi conoscono ( e che non leggeranno mai questa storia *coff coff*). Ho sempre pensato che i miei OC un po’ mi detestino, perché spesso li creo, li uso per una flash fiction e poi li abbandono a loro stessi; non è una sensazione piacevole.  Questo concorso  (http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10483978&p=16 che vi consiglio di guardare perchè ha sfornato altre storie ben più splendide) mi ha fatto quindi pensare che, se avessi mai avuto modo di incontrare davvero un mio personaggio, quello mi avrebbe come minimo presa a pungi, forse peggio. E chi meglio del più contorto, sadico e adorabile dei miei puffolini avrebbe potuto in tutta dolcezza prendere un’ascia e tagliarmi la testa?  E se vi chiedete se è solo un sogno… beh, forse: però non sono ancora andata a ritirare la posta, oggi…
In ogni caso, le citazioni molto esplicite sono, nell’ordine: il Doriath del Sommo Tolkien, i “molti mondi” dell’altrettanto Venerabile Stephen King (al cui Re Rosso, Morgan deve davvero molto) e la finestra disegnata sulla lavagna: Michael Ende.
Inoltre cito anche alcune mie precedenti storie originali... come se tutti i miei personaggi si conoscessero. Ecco perchè ho pensato ad una raccolta: credo che man mano adesso tutti si faranno avanti. Chissà come.

Ah, la storia originale, da cui tutto è nato? La trovate qui http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=619247&i=1
Solo, è un tantinello cruda.
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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