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Autore: ericapenelope    08/05/2013    1 recensioni
« La devo informare, signorina, che la mia storia non è solo una storia di cronaca rosa. In realtà non è affatto una storia recente » incominciò Miss Grace.
[...]
« Miss Lorentz, di questo non si deve preoccupare. Le eleganti donne di questa città potranno spettegolare della storia che le racconterò fino all'era prossima a questa. E' una storia senza tempo, una storia che non ha bisogno di essere odierna e fresca. E' una storia d'amore e, come tutte le storie d'amore, il tempo è relativo ».
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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INIZIO SECONDA PARTE

 

 

VI

1965: Il gelo su Chicago

 

Pioveva. Dopo una sferzata di vento primaverile e di sole tiepido sulla pelle, pioveva. Era strano percorrere la tratta Philadelphia-Chicago in un giorno e mezzo all'interno di vagoni caldi e confortevoli. Il viso nitido, riposato da una lunga dormita, volgeva l'interesse direttamente al paesaggio scorrevole oltre il finestrino. Dawson non ricordava dettagli maestosi, come nuovi grattacieli e grate che ne avrebbero sviluppati di più. Erano passati dodici anni da quando aveva lasciato quella città, diplomandosi al liceo per appropinquarsi ad Harvard nello stato del Massachusetts. Aveva scelto di seguire le orme del padre, seguendo i corsi dell'HBS, sigla che sta per Harvard Business School. L'economia l'aveva trascinato a sé come un piccolo insetto, nella trappola di una grossa tarantola. Era riuscito a ristabilire un contatto diretto con Stephan, suo padre, accettando l'offerta di lavoro – temporanea – di revisionista nella sua catene d'aziende. Si era laureato nei tempi prestabiliti, aveva trovato subito lavoro e la sua vita era andata a gonfie vele, sempre. Al college aveva iniziato a fumare, a vestirsi in modo eccelso e a scrivere anche per la rivista Harvard Business Review. Probabilmente considerava quegli anni, i migliori della sua vita. Era cresciuto, aveva avuto moltissime donne e fatto tante nuove esperienze. Attraversò un periodo nel quale le droghe erano una tentazione, ma riuscì a non seguire la brutta strada di alcuni dei suoi compagni, cercando d'infischiarsene dal principio. Sviluppò l'arte degli scacchi e s'invaghì della musica country. Aveva deciso di dare un taglio, letteralmente, ai boccoli scomposti e disordinati. Dall'estate del 1955 decise di adottare un taglio più corto, farsi crescere il pizzetto e le basette. Tutto questo, gli aveva conferito una certa virilità ed espressività, tanto da farlo sembrare più grande di quanto in realtà non fosse. 

Non aveva partecipato ad alcuno sport, se non per un anno, condividendo la passione per il football e vincendo contro Yale, nell'incontro finale della stagione. Ma, sebbene gli avesse rafforzato i muscoli e gli avesse donato una certa fama tra le fanciulle della facoltà, il suo interesse ripiegava sempre per altro. Così decise di mollare lo sport ed impegnarsi il più possibile in quell'attività che lo richiamava sempre. Lo faceva di nascosto, ma scrivere era diventato quasi una necessità. Scriveva di politica, dibatteva con alcuni studenti dell'Harvard Law School di nuove e vecchie norme impartite dalla legge. Battibeccavano sulla capacità – o le varie incapacità – che Lyndon Johnson, trentaseiesimo presidente degli Stati Uniti, adottava attraverso il proprio mandato. Aveva vissuto la morte di Kennedy come un trauma e si era ripromesso di non entrare mai in politica. L'esperienza del college, proprio come a suo padre e sue madre, gli garantì anche una giovane donna, determinata e assolutamente piccata. Si era invaghito di lei una notte di pura festa e follia, notandola al bancone di un bar con la gonna troppo corta e la camicetta sbottonata.

L'aveva scopata in modo rude nel bagno del locale, sfiorandole i seni e tastandole le cosce sode. Si era invaghito di quegli occhi grigi che gli sussurravano privazione e tormento. 

Si erano fidanzati un anno dopo e si erano sposati nella chiesa di Boston, l'11 settembre 1961. La bella mora si chiamava Margareth Erika O'Brian, era laureata in legge e ora lavorava come avvocato, presso gli uffici di giustizia di Philadelphia. 

Il matrimonio all'inizio andò bene, meravigliosamente bene, tra lunghe notti insonne e cibi afrodisiaci. Tuttavia il lavoro risentiva di questo loro mancato impegno, dunque decisero di darci un taglio e, magari, iniziare a crescere. 

Così ora vivevano in una modesta villetta di periferia a Philadelphia, non avevano avuto bambini – sebbene ci avessero pensato – ma avevano adottato una cagnetta di nome Lilly. 

Tutto sommato era una vita serena, convogliata da gesti innocui e qualche tradimento singolo. Dawson aveva sempre avuto la brutta abitudine di farsi trascinare dalle donne, soprattutto quando avevano gambe chilometriche o uno spacco mozzafiato all'altezza della schiena. Non lo faceva con cattiveria, ma la brama e il desiderio erano più forti di lui. Comunque Margareth non sospettava mai nulla, troppo presa dalle sue cause in corso o nel fare gli occhi dolci a qualche collega. A Dawson andava bene così. L'aveva amata, forse, a modo suo, ma capiva che non era quel genere d'amore che pretendeva qualcosa. Quel qualcosa chiamato rispetto. Perché si rispettavano, a modo loro, ma senza farsi troppe domande o senza farsi troppi problemi. Andava come veniva, così, come i problemi di tutti i giorni. Sapeva che questo genere di rapporto non sarebbe durato molto, ma per ora bastava questo ad entrambi. Margareth era un ponte sicuro, rigido e ben saldo e non se la sarebbe fatta scappare. Aveva comunque bisogno di mettere su famiglia, di continuare la stirpe dei Reed e di crescere i suoi figli come un buon padre. E Margareth era la donna con la quale voleva farlo, o almeno, le carte e il voto matrimoniale dichiaravano questo. 

In tutto questo, tra college e successi ottenuti, naturalmente Sally era esistita nella sua mente per molto tempo. Un tempo che aveva deciso di fermare circa sei mesi prima l'incontro con Margareth. Non c'era stato giorno che non le avesse scritto. Non c'era stato giorno che non le parlasse. Non c'era stato giorno che non l'avesse menzionata, ricordata. Un prato verde gli ricordavano i suoi occhi. La voce di Charlie Parker lo riportava ai quei brevi momenti di serenità passati con lei. Insomma, lei non era morta con Chicago. Almeno, non subito. Aveva deciso di spegnere quei pensieri rivolti a lei, un giorno d'inverno. Aveva capito che non era giusto continuare a tormentarsi così, a fare l'amore con donne pensando solamente a lei, a scrivere lettere mai inviate, ad ascoltare canzoni che sembravano essere incise e suonate apposta per loro. Andava fatto un taglio, e quel taglio era Sally.

Ma in qualche modo lei visse e lui lo sapeva, lo sperava, lo sognava. Lei visse, ma Dawson non sapeva come.

Vattene e non farti più vedere.

L'aveva fatto. Se n'era andato e non si era fatto più vedere.

 


 

 

*********

 


 

Costernato, pugnalato, perso. Era così che si sentiva, adesso, dopo che quella donna così giovane, così pura e così cieca, gli aveva ordinato di andarsene e gli aveva chiuso la porta in faccia. La sensazione di vuoto che seguì nei giorni successivi furono una vera mutilazione per i suoi sentimenti, brevi, ma pur sempre sentimenti. Ecco perché aveva cercato sempre di non invaghirsi di ragazze, soprattutto di ragazze così. Ecco perché aveva cercato di lasciare il posto a qualcos'altro che non si appellasse “amore”. Ecco perché ora si ritrovava senza fiato, malmenato e sopraffatto. Aveva fatto uno sbaglio, un unico umano sbaglio, e nessuno gli aveva mai dato possibilità di spiegare. Lei, non gli aveva dato modo di spiegare. Ed era comprensibile, all'inizio. C'erano stati giorni nei quali ci avrebbe dormito su e al risveglio avrebbe lasciato il posto ad un nuovo progetto: correre, fumare spinelli, toccare le natiche sode di ragazze più grandi. Invece ora si ritrovava sconfitto, avvilito, tormentato. Non era giusto. Non poteva sentirsi così. Aveva fatto un errore, ma un errore che non sarebbe vissuto di nuovo. E Sally non aveva finito di ascoltare, lei che ascoltava sempre e che aveva un udito perfetto.

Deve sentire che orecchio, Mr Dawson! Che orecchio!

Ma quell'orecchio lo aveva impostato in modalità silenzioso e non aveva più scelto di ascoltare nessuno. Nemmeno il suo cuore, Dawson ne era certo.

Era pungente e ancora vivido quel suono silenzioso che era stato il suo respiro. Era pungente, vivido e frustrante vederla irrigidita, seduta su quel copriletto che non aveva mai visto prima di allora. Era pungente, vivido, frustrante e triste non trovare le parole giuste per restare, per convincerla ad ascoltarlo, per farsi dare una possibilità. Una possibilità di scuse, perché sono quelle che Sally non aveva accettato da Dawson. Aveva ascoltato dettagliatamente la verità uscire da quelle labbra carnose, morsicate e baciate il giorno prima, ma non aveva dato modo a lui di continuare. L'aveva arrestato istintivamente, come a ripararsi la faccia da un temporale improvviso o togliere un dito scottato e metterlo sotto l'acqua ghiacciata. Non aveva fatto nient'altro che ignorarlo e sbatterlo fuori dalla sua vita. 

Dawson ebbe modo di riflettere. Il suo cervello fece un percorso confuso, labirintico e maledettamente complicato. Dapprima seguì un'emozione di pentimento, per quello che aveva fatto, per come l'aveva fatto e per come gliel'aveva tenuto nascosto. Dopo arrivò la negazione, la mancanza di coraggio che ebbe fu solo per proteggerla da eventuali, ma reali, fraintendimenti. Giunse anche l'accusa verso Sally, la quale non gli aveva dato modo di farsi spiegare, di dirle come davvero stavano le cose. Ma vinse la rassegnazione di una sconfitta, l'accettazione di averla ferita e di essersi reso conto di provare qualcosa di più, che una semplice cotta adolescenziale. 

Sally era entrata così velocemente nella sua vita e così velocemente ne era uscita. Adesso doveva solo cercare di convivere con il suo cuore, senza farlo scontrare troppo con la propria testa. Sì, perché un adolescente non ha poche cose a cui pensare. E Dawson doveva pensare al suo futuro. L'ultimo anno di liceo stava terminando e a breve avrebbe ricevuto le risposte dai college a cui aveva fatto domanda. 

Era tempo che il suo futuro entrasse a far parte della sua vita, forse a tappare quel vuoto che aveva lasciato la ragazza dai capelli rossi. Era tempo di pensare a chi sarebbe diventato Dawson Reed un giorno. Era tempo di smetterla con queste idiozie e ritornare ad essere quello che sempre era stato.


 

********


 

 

 

Quando arrivò alla stazione di Chicago, gli fu subito chiaro che qualcosa mutò. Non metteva piede in quella città esattamente da quando se n'era andato. Aveva rifiutato gli inviti di sua madre per Natale o per il Giorno del Ringraziamento, piuttosto era stato disposto a pagare il viaggio a loro e a farli venire da lui a Boston, quando era uno studente affermato, o in altre parti del paese quando invece la sua carriera lavorativa andava piuttosto a gonfie vele. Questa volta però, aveva deciso di mettere da parte pensieri che richiamavano il passato, di fare l'uomo e non il topo che fugge. Aveva una bellissima moglie, varie amanti e sicuramente un posto fisso. La sua vita procedeva bene, non c'era bisogno di avere paura di un passato ormai remoto e lontano.

O almeno, così credeva.

Sua madre Vivienne lo accolse a braccia aperte, invecchiata con il tempo ma sempre in ottima forma, tra pellicce vistose e, come in quell'occasione, investita di gioielli attorno ad un impermeabile ecru, sopra le ginocchia.

« Tesoro! Quanto mi sei mancato! » 

« Ciao mamma » disse Dawson, incastrato tra l'abbraccio materno e pietre preziose tanto affilate da pungergli le guance. 

« Andato bene il viaggio? Marge non è venuta con te, alla fine? »

« No, Margareth aveva degli impegni con l'ufficio. Papà? »

« Arriverà per cena. Dai, c'è John che ci aspetta in macchina. »

« John? E che fine a fatto James? » chiese Dawson, bloccandosi sorpreso.

« Oh, tesoro. James è andato in pensione da un paio di anni ormai. Aveva fatto il suo lavoro per un sacco di tempo. La vecchiaia prende anche i migliori, lo sai » gli rispose Vivienne. 

Forse non ci avrebbe creduto se non l'avesse visto con i propri occhi. Un ragazzo giovane, poco più giovane di lui, li aspettava paziente al posto del guidatore, senza osservarli. Le gambe di Dawson agirono autonomamente, salendo in macchina e fermandosi una volta percepita la posizione più comoda. Non fece a tempo nemmeno di capire se ci fosse qualcosa di diverso in quella città, che sua madre lo avvolse con la solita parlantina, chiedendogli di Margareth e degli affari e di Philadelphia. Non menzionò null'altro per l'intero viaggio. 

I signori Reed si erano trasferiti definitivamente a Chicago, così decisero di comprare l'attico del Monadnock building e di sistemarsi lì. L'attico comprendeva tre stanze da letto, un immenso soggiorno e una modesta cucina. Non era troppo sfarzosa, ma a sua madre interessava avere il tetto per lavorare ai suoi fiori. Non era mai stato a casa loro ed era la prima volta che ci metteva piede.

Lo sistemarono in una delle due stanze da letto non occupate, poi Vivianne lo congedò. 

Il primo istinto fu quello di chiamare Margareth, almeno dirle che era arrivato, ma non aveva voglia di sentire la sua voce annoiata e soprattutto non aveva voglia di percepire la noia che provava quando iniziava a raccontarle delle sue crisi a lavoro. Era insopportabile.

Così decise dapprima di farsi una doccia e, solo più tardi, uscire in centro, a farsi una passeggiata. Il tempo senza sole aveva lasciato posto ad alcune nuvole bianche, lambite da una leggera brezza primaverile. 

Si cambiò i vestiti, il soprabito e si diresse verso l'uscita. 

Sapeva già dove andare. 

Ehi! Dove diamine stai andando? A fare conoscenza. 

Da Juliet.

Se la fece tutta a piedi, dalla West Jackson Boulevard fino a raggiungere il Grand Hotel Plaza di Chicago. Non sapeva perché, ma pensava che Owen Seacock fosse rimasto lì per tutti quegli anni. E forse aveva ragione. Perché non provare ad entrare? Non aveva nessuno che gli vietasse di fare qualcosa, un solo passo verso l'ingresso. Eppure non riusciva a schiodare i piedi dalla posizione ferma, impalata ed imbambolata a fissare quella muratura che non era cambiata di una virgola.

« Mi scusi, serve aiuto? »

Dawson si voltò in direzione della voce, una voce mascolina che non smentì l'evidenza. Mr Seacock lo stava fissando, con aria incerta e amichevole, dall'alto dei suoi settantacinque anni. Era invecchiato, parecchio. Occhi scavati, tondi e guance infossate. Aveva messo qualche chilo in più sulla pancia e la schiena si curvava frontalmente. I capelli erano più radi e più bianchi, per il resto, rimaneva sempre lui. Avrebbe potuto riconoscerlo tra mille gentiluomini in giro per l'America. 

« Salve Mr Seacock, quanto tempo è passato » rispose Dawson.

Owen lo fissò incurvando le labbra in una strana smorfia, agguantò la presa più salda sul bastone da passeggio e infine gli occhi si spalancarono di sorpresa. Gli sorrise, quasi non credendo nemmeno lui a ciò che stava vedendo.

« Perdinci, Mr Reed! Ma quant'è cambiato! » enfatizzò Mr Owen, allungando il passo verso il giovane uomo che gli era dinanzi.

« Che piacere rivederla, Mr Seacock. Come andiamo? Tutto bene? E mi chiami Dawson, la prego. » 

« Dawson... è passato così tanto tempo. Quanto? Dieci anni? » chiese Mr Owen toccandosi il labbro inferiore con l'indice.

« Dodici signore. »

« Dodici! Gesù, dovrò mangiare più fosforo mi sa » disse Mr Owen, portandosi a sedere presso una panchina lì vicino. 

Dawson notò che Mr Seacock era invecchiato molto, velocemente e precocemente. 

« Mr Seacock, come vanno le cose? Non per sminuirla, ma la vedo alquanto stanco » elargì Dawson.

Mr Owen ci mise un attimo per metabolizzare l'affermazione, prima di alzare la nuca e volgere gli occhi grigi dritti verso quelli scuri di Dawson. « Figliolo, non ti è proprio arrivata notizia? » chiese.

« Quale notizia? » domandò Dawson.

Mr Owen sospirò. Non l'aveva mai visto così abbattuto e stanco, soprattutto quello, stanco. Le sue braccia erano morbide e troppo rilassate per l'uomo allegro e pieno di vitalità che aveva conosciuto anni fa.

Con un ulteriore sospiro si diede una piccola spinta e si risollevò, mettendosi in piedi davanti al giovane Dawson. Avanzò a piccoli ed immensi passi fino all'ingresso del Grand Hotel Plaza, poi si voltò in cerca di Dawson e gli fece segno di avanzare verso di lui. Lo guardava come si guardano i giovani promessi, un cane che sta finendo di annusare un tronco d'albero, un bambino che si è fermato a fissare una vetrina piena di giocattoli. Lo guardava con uno sguardo consapevole e paziente, come se quello che doveva dirgli poteva benissimo aspettare.

Ma non ci fu molto d'aspettare.

Quando Dawson entrò nell'atrio dell'Hotel, dapprima non vide grandi cambiamenti. Le piante che di solito delimitavano l'atrio con l'ingresso erano accostate diversamente, verso la grande scalinata centrale. Al banco si erano muniti di una superficie diversa, in marmo bianco, un contrasto vivido in quell'ambiente così vintage ed economico. Ma non fu quello il vero cambiamento che Mr Owen si aspettava che lui notasse. Dietro al bancone, dove solitamente c'era la cabina con tutte le chiavi delle stanze e per ognuna il proprio cassettino, c'era un'enorme lastra in acciaio che raffigurava un volto. E quel volto, ci avrebbe scommesso qualunque cosa, era quello di June. 

Era una foto semplice, scattata in una mattina soleggiata, d'estate. Era seduta su una panchina e stava accarezzando un vecchio cane. Lo sguardo era fisso nell'obiettivo e le labbra erano appena scosse in un sorriso. Avrà avuto ventidue, ventitré anni. Non vestiva nel solito modo; era più posata, sembrava più calma, più felice. In qualcosa era diversa, ma la sua voglia di essere prima rimaneva fissa in quello sguardo scuro. 

Solo in un secondo momento, Dawson lesse ciò che la lastra in acciaio riportava appena sotto la foto.



 

Juliet Joe Seacock

21 luglio 1936 – 12 agosto 1959

 

Sei stata amore, affetto e gratitudine.

Riposa in pace



 

Ci volle un secondo per metabolizzare tutto. Dawson spalancò gli occhi, si sentì tremare e perse per un attimo l'equilibrio. Gli vennero in mente mille domande, mille parole, mille sussulti da voler affrontare, ma l'unica frase che blaterò fu semplice e senza quel sentimento che avrebbe voluto introdurci. Si sentiva spezzato come un ramo di ciliegio in piena estate.

« Perché non sono stato avvertito? » 

Il suono di quelle parole punsero in viso Mr Owen, mentre contemplava adagiato su una poltrona il volto angelico di sua figlia. Non rispose, ma respirò in modo sopraffatto.

« Perché non sono stato avvertito! » ripeté Dawson, ma con più enfasi. Questa volta non era una domanda, ma un modo scortese per farsi dire quello che gli era stato negato. 

Si sentiva arrabbiato, si sentiva triste, si sentiva come se avesse mancato un treno per il paradiso e non ce ne fossero altri da prendere. Si sentiva ferito, tradito, tenuto all'oscuro di tutto. Si sentiva messo da parte, come un giocattolo rotto. E rotto si sentiva davvero, sotto quell'aria da giovane imprenditore, sotto quella mascella rigida, le lacrime erano pronte a sgorgare.

Non pianse, non ce la fece. Volse lo sguardo duro in direzione di Owen, fissandolo, con quell'obbligo nello sguardo che pretendeva una risposta. Pretendeva ciò che gli aspettava di diritto.

E poi la risposta gli venne incontro, come una pietra lanciata sulla superficie di un lago, con l'intenzione di far vibrare l'acqua di leggere onde e invece si inabissa con un rumore tonfo e sordo dentro l'oscurità cristallina.

« Lei non voleva. »

Non c'era bisogno che Dawson chiedesse chi fosse questa lei. Non c'era bisogno di niente. Si sentì di nuovo vuoto, più spezzato, con un organo in meno. Le ossa gli si irrigidirono e non ci fu modo per farlo rimanere in piedi. Prima che potesse cadere sulle ginocchia, si portò sulla poltrona davanti a Mr Owen, strascicando i piedi e le gambe e la vita. Vi rimase in silenzio per un tempo che gli sembrò interminabile, mentre la gente passava, usciva, richiamava i figli troppo agitati per quella uscita in tarda mattinata. Gli passarono di fianco, in fretta e furia, le inservienti con un carico di asciugamani sporchi tra le braccia. Lo urtarono e gli chiesero scusa, ma lui non rispose, non le guardò nemmeno. Il suo sguardo era fisso sulla scarpa usata e un po' rovinata di Mr Owen, senza veramente guardarla. Il suo dolce far niente era niente meno che vuoto, spento, senza pensieri. Continuava a fissare quella scarpa consunta dall'uso e pensava a June.

Al suo volto e al suo fare accecato di vita, di dolore, di ingiustizia. Quelle labbra rosse che anni addietro aveva baciato, quella sua doppia vita tra casa e scuola, quel suo sguardo che iniettava calore e determinazione. Quello sguardo che non aveva mai pensato di perdere realmente. 

Non le aveva mai detto addio. Non le aveva mai scritto. Da quel giorno in ospedale, le proprie vite si erano separate. La loro amicizia, quella strana e breve amicizia, era durata poco, in un tempo comune per quell'età piena di complicazioni, ma non aveva mai pensato che fosse finita. Non così, non in quel modo. 

La vita gli aveva strappato la possibilità di farsi perdonare, di chiederle scusa, di ricominciare. La verità era che lui stesso aveva deciso di tagliare i ponti, di rifarsi una vita, di laurearsi, di sposarsi con una donna che non amava davvero, non voleva. Aveva deciso di farsi una buona cerchia, di andare a giocare a golf o cricket nel fine settimana, di parlare di politica tra un whisky e uno spogliarello. Aveva deciso di diventare quello che non aveva mai desiderato essere. Suo padre. Ed ora continuava a fissare quella scarpa, immobile, come se fosse un qualche bottone salvavita, come se fosse un proiettore temporale, come se fosse quella scarpa strappata ai lati, la cosa più importante.

« Com'è successo? » chiese poi, continuando a fissare la scarpa logora.

« Si è buttata dall'ultimo piano. »

Come se non bastasse, la ragazza dall'orecchino al naso, si era tolta la vita. Dawson incrociò le dita tra i capelli, pesanti, troppo caldi e troppo chiari. Si sfregò gli occhi, cercando di levare quell'aria da martire. 

« Abbiamo detto che è scivolata, ma si è buttata di sua iniziativa. Mia figlia non scivola per caso sul davanzale del tetto » continuò Mr Owen. « Volevo chiamarti, farti venire al funerale, ma lei me lo ha impedito. Ha detto che non le avresti dato gloria, che l'avevi usata e che non meritavi di darle l'ultimo addio. »

« E lei ci ha creduto? » chiese Dawson, apatico.

« Cos'altro avrei dovuto fare? Solo più avanti Sally mi disse che non era vero che l'avevi usata, non era vero che non meritavi di salutarla. Ma lei era troppo arrabbiata con te, lo leggevo nel suo sguardo » concluse Mr Owen.

Di tutte le affermazioni, le spiegazioni, i chiarimenti, quella gli sembrava colma di egoismo. Come aveva potuto, Sally Grace, mettersi tra lui e un morto? Come aveva potuto far apparire la rabbia repentina anche in quel momento delicato? La odiava. Non avrebbe dovuto permettersi di intralciare la verità che si celava tra la loro relazione, quella relazione fresca e senza preamboli. Aveva rovinato tutto. Aveva rovinato anche il meraviglioso pensiero adorno che aveva su di lei. Ora la ritraeva come una piccola ragazzina viziata, egoista e senza cuore. 

« Non avercela con lei, Dawson. Era solo una ragazza innamorata che voleva proteggere Juliet. Si è già pentita per l'errore » spiegò Mr Owen.

« Pentita? E come? Chiedendomi scusa? Non l'ha fatto! E' una sporca vigliacca, ecco cos'è! Avreste dovuto dirmelo, dirmi almeno che era morta. Ma non lasciarmi all'oscuro di tutto. Sua figlia non voleva questo. »

Dawson si alzò senza dire più una parola, troppo arrabbiato, adirato, furioso per cercare di parlare a bassa voce. Dunque si appropinquò verso l'uscita, avanzando con passo deciso verso il marciapiedi. Chiamò un taxi sollevando il braccio destro, quasi strappandosi la giacca per il brusco scatto. All'interno della vettura, la quale non aveva ancora un indirizzo preciso, cercò di calmarsi. La vena sotto il collo pulsava frenetica, gli occhi erano lucidi, ma rabbiosi e la bocca era curva in un'espressione di puro affronto. Non aveva perso il vizio di tamburellare i polpastrelli sul ginocchio che a sua volta tremava velocemente, agitato. 

« Si fermi qui » esordì ad un certo punto. « Mi faccia scendere. »

Solo quando congedò il taxi si rese conto di aver girato attorno al quartiere e di essere capitato proprio davanti al negozio di musica, poco distante dal Grand Hotel Plaza. Sbuffò e si diresse a tutta velocità in direzione dell'ingresso. Mano a mano che si avvicinava riusciva a scorgere modelli più recenti di trombe, trombette, violini, sassofoni, flauti a bocca, clarinetti e recenti dischi in vinile messi in esposizione. 

Aveva una voglia matta di fare rumore, prendere un paio di piatti da batteria e rumoreggiare per tutta Chicago. Voleva fare più rumore fuori, così il chiasso dentro avrebbe smesso di essere così fastidioso solo per lui. 

Non si era accorto di star correndo, tanto da sfiorare con il fianco un cestino dell'immondizia, facendolo quasi rovesciare. Si portò dietro solo la scia di cartacce e lattine di CocaCola. Uomini scuri e donne chiare dai vestiti sgualciti camminavano quelle strade in modo affollato, ma lui riusciva solo a fissare la porta trasparente che si trovava davanti a lui. Si fermò a pochi passi, respirando a fatica, ma con la bocca serrata. Il petto si alzava e si abbassava troppo velocemente. Si allentò la cravatta e sbottonò i primi bottoni della camicia. Il panciotto disturbava quelle forme da trentenne, lo faceva sentire troppo stretto, sebbene avesse un fisico asciutto, in forma. 

Lasciò percorrere allo sguardo l'intero ingresso, per vedere se era cambiato qualcosa, ma a parte la vetrina cosparsa di nuovi strumenti all'ultima tendenza, il negozio era rimasto lo stesso.

Si avvicinò alla vetrina, per sbirciare da più vicino. Il sole faceva intravedere a mala pena chi ci fosse. Contò un paio di persone nel reparto vinili e una decina in quella strumenti. Ma non intravide il vecchio Tom. Forse anche lui era passato a miglior vita, d'altronde aveva avuto già la sua bella età. Notò una donna, magra, alta, muoversi in modo felino, agile, tra il bancone e i clienti. Forse era lei ora che si occupava del negozio. Aveva i capelli ramati, di un rosso quasi biondo, la pelle diafana e le lentiggini. Dawson corrucciò meglio la vista. Assomigliava troppo a quello che stava pensando, ma non era possibile fosse lei. Sally non vedeva, Sally era cieca. Invece la ragazza del negozio sembrava osservare attentamente gli oggetti, percepirli anche con lo sguardo e sorridere affabile ai clienti augurando buona giornata. Non era possibile fosse lei. Eppure, quando alzò lo sguardo in sua direzione, Dawson non ebbe alcun dubbio.

Quegli occhi verde mare non erano mai stati così penetranti, così vigili, così accesi come ora. Li avrebbe riconosciuti ovunque, li avrebbe palpati con le pupille anche dall'altra parte del mondo. Quegli occhi erano quelli di Sally Grace e, ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa, le labbra di lei stavano sussurrando il suo nome. Dawson.

 

 

 

 

 

   
 
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