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Autore: fede15498    08/05/2013    1 recensioni
Questa è la storia di un ragazzino brasiliano e della sua famiglia, che per via di certi eventi sono costretti a fuggire dalla loro favela in cerca di una vita migliore, con solo la speranza ad assisterli
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL VALORE DELLA SPERANZA Angolo dell'autore: Salve ragazzi, prima di iniziare vi volevo dire che ci tengo tanto tanto a questa storia, perché ho davvero sclerato per scriverla XD (ringraziate il cielo di non essere le mie amiche perchè le ho uccise di messaggi XDXD) perciò se vi piace o se avete qualche consiglio da darmi, vi preeeego lasciatemi una recensioncina, anche piccola piccola, userete 30 secondi della vostra vita per far felice qualcuno :) -----------------------------------------------------------------------------------------------

IL VALORE DELLA SPERANZA:

Quella mattina, come tutti gli altri giorni, mi svegliai all’alba.

Aprii gli occhi, ma fui costretto a richiuderli subito per via della luce: una delle lastre di lamiera che servivano da soffitto non era ben sistemata sulla parete, perciò una grossa fessura si apriva sopra di me lasciando entrare la luce del giorno. Era una specie di sveglia rudimentale.

Lentamente mi alzai, ignorando il mal di schiena costante a cui ero ormai abituato e presi un pezzo di pane che il giorno prima mia madre era riuscita a procurarsi.

-Mamma, Julia alzatevi!- esclamai.

Mi guardai intorno, ma non c’era traccia di mio padre, probabilmente era da qualche parte a sperperare in alcolici quel poco che guadagnava.

Mia sorella fu la prima a svegliarsi. Io e lei eravamo fratelli gemelli; non c’erano molti gemelli della nostra età a Rocinha: in genere almeno uno dei due moriva durante il parto o prima di arrivare ai cinque anni.

Con uno sbadiglio si tirò in piedi e aiutò anche mamma ad alzarsi.

Per mia madre non era semplice dormire sul terreno duro. Io avevo solo dodici anni eppure ero perseguitato da violenti mal di schiena per questo motivo, non immaginavo neanche cosa provasse lei, specialmente in quel periodo visto che era incinta.

-Karim, ho bisogno di un nuovo quaderno per la scuola, mi accompagni a comprarlo?- chiese Julia. Lei era l’unica a frequentare la scuola: non potevamo permetterci di andarci entrambi.

-Tranquilla, vado io- le risposi.

Così presi qualche Rael dal barattolo in cui tenevamo i soldi e uscii di casa, evitando a fatica i cavi scoperti che la circondavano.

Stavo per dirigermi verso il negozio quando sentii qualcosa di freddo premermi sulla nuca. Sapevo cos’era, non avevo dubbi: una pistola. Iniziai a tremare.

-Ragazzino, tu sei il figlio di Jose Costeila, vero?- mi domandò una voce bassa e roca.

Annuii spaventato.

-Bene. Il mese scorso ho prestato a tuo padre dieci Rael e quello non me li ha ancora restituiti. Ne voglio il doppio ora o ti faccio saltare il cervello-

Deglutii a fatica: venti Rael erano almeno un sesto di quello che guadagnavamo in un anno.

-Vado a prenderli- dissi a voce bassa.

Rientrai in casa, faci segno a mia madre e a mia sorella di tacere e presi i soldi dal barattolo. Constatai a malincuore che ormai era quasi vuoto e uscii nuovamente per dare i soldi all’uomo.

Questo li contò lentamente e poi sorrise. Io mi girai, ansioso di rientrare in casa, quando un dolore atroce mi colpì la testa, facendomi cadere in ginocchio: mi aveva colpito con la canna della pistola.

-Questo è per tuo padre- esclamò, poi si girò e se ne andò.

Mi premetti le mani sulla ferita; avevo i capelli bagnati di sangue.

-Karim!- mia sorella si lanciò fuori dalla porta e mi venne incontro. Io intimai a mia madre di non uscire: era incinta di otto mesi e non aveva l’agilità sufficiente per evitare i cavi scoperti senza pericolo, rischiava di rimanere fulminata.

Julia mi guardò la testa e sbiancò.

-Dobbiamo andare dal dottor Johnson- disse.

Il dottore era un missionario americano che aveva aperto un ambulatorio nella nostra favela.

La testa mi girava e il dolore sembrava spaccarmi in due il cranio, ma riuscii ad alzarmi e a mettermi a correre. Ci infilammo in una stradina scura e stretta e sorpassammo dei ragazzi che si picchiavano, probabilmente appartenevano a gang opposte. In ogni angolo c’erano persone che compravano o vendevano droga; uomini armati si aggiravano per le strade e i cadaveri erano gettati in mezzo alla spazzatura che ricopriva tutto.

Odiavo ogni cosa di quella città. La parte povera in cui non potevi vivere un giorno senza paura di essere ucciso e la parte ricca che continuava a vivere tranquillamente ignorando la miseria che la circondava. Quanto mi sarebbe piaciuto potermene andare via.

Arrivammo di fronte all’ambulatorio e Julia si mise a bussare insistentemente. La porta si aprì e di fronte a noi apparve il dottore. Peter Johnson era un uomo alto, biondo ed estremamente pulito in confronto agli abitanti di Rocinha.Il suo sguardo era autorevole e al contempo gentile e compassionevole. Sembrava venire da un altro pianeta rispetto a noi.

Quando ci vide sgranò gli occhi e ci fece entrare in una stanza affollata di gente malata o ferita. Mi sedetti su un lettino e il dottore si mise ad esaminare il taglio che il colpo mi aveva provocato.

-Stai perdendo molto sangue, ti devo dare qualche punto- disse col suo marcato accento americano.

Con attenzione mi rasò la testa e poi si mise a ricucirla mentre io gli spiegavo cosa era successo.

Finalmente, dopo una decina di minuti il dottore disse che con me aveva finito.

-Fate attenzione voi due, questo posto è pericoloso!- esclamò, poi ci lasciò andare.

Tornammo a casa in silenzio, osservando lo squallore che ci circondava, ma non entrammo: si sentivano delle urla provenire da dentro.

-E’ la terza volta quest’anno, Jose! Uno di questi giorni ci ammazzano!-

Era mia madre. A quanto pareva mio padre era tornato a casa.

Aprii leggermente la porta, abbastanza per guardare dentro. Non andava affatto bene: mio padre era evidentemente ubriaco.

-Stai zitta- biascicò

-Quei soldi mi servivano-

Sapevo a cosa gli servivano: per comprarsi degli alcolici. Anche mia madre lo sapeva e iniziò a urlarli contro anche peggio di prima.

Improvvisamente mio padre le si lanciò addosso con una violenza impressionante ed iniziò a picchiarla. Non era mai successo prima di allora; l’aveva insultata più volte, ma picchiata mai. Io e Julia ci scagliammo all’interno della stanza per fermarlo, ma nella foga del momento mio padre colpì anche me in pieno viso, rompendomi il naso. Diciamo che non era proprio il mio giorno fortunato.

Vedendo il sangue che mi copriva la faccia finalmente mio padre si calmò. Si allontanò da noi e si accasciò in un angolo della stanza.

Mia madre assunse un’espressione strana: era a metà tra lo sconvolto e il determinato. Iniziò a raccogliere i pochi stracci che avevamo e li mise in un sacco.

-Io me ne vado- disse con voce ferma. Mio padre la guardò con disprezzo.

-Non puoi andartene- rispose

-Sì invece e i bambini vengono con me, andremo in un posto migliore-

-E dove?-

-Non lo so, ma ovunque è meglio di qui- detto questo mia madre uscì di casa e io e Julia la seguimmo. Lanciai un ultimo sguardo a mio padre; avevo sempre odiato quell’uomo, ma vederlo così mi rattristava: infondo era solo vittima dell’ambiente in cui era cresciuto.

Gli sussurrai un ultimo saluto e poi mi chiusi la porta alle spalle, troncando definitivamente tutto ciò che mi legava a quella che fino ad allora era stata la mia vita.

-E ora che facciamo, mamma?- chiese Julia.

Lei scosse la testa. Era affranta: aveva agito di impulso e ora che l’agitazione del momento iniziava a scemare si era resa conto che non avevamo un posto dove andare.

-Perché non torniamo dal dottor Johnson? Lui saprà darci una soluzione- suggerii. In realtà non ne ero sicuro, ma era la nostra unica possibilità, quindi dovevo crederci.

     Quando il dottore mi vide si lasciò sfuggire una risatina amara.

-E’ mai possibile che tu sia sempre ricoperto di sangue Karim?- disse facendoci entrare.

-Che è successo ora?- la sua espressione era rassegnata come se avesse ormai accettato l’idea che in quel luogo era impossibile stare al sicuro.

Mia madre gli raccontò tutto e lo implorò di darci una soluzione.

-Beh, ci sarebbe un modo per andarsene di qui, ma è pericoloso. Molte persone muoiono- disse. Si vedeva che non era convinto di volercelo dire.

Ma noi non avevamo altra scelta. Se c’era una possibilità di andarsene dovevamo coglierla o saremmo morti comunque per le strade di Rocinha.

Il dottore ci raccontò che c’era un barcone. In realtà era stato costruito per trasportare delle merci, ma veniva usato dalle persone che volevano scappare dalle favelas.

Era diretto in Florida,  negli stati uniti, dove le condizioni di vita erano migliori.

-Non vi assicuro che troverete una vita migliore là, ma di sicuro la criminalità è minore rispetto a qui- disse. Prese un foglietto e ci scrisse sopra qualcosa.

-Ora è meglio che andiate, non avete molto tempo. In ogni caso questo è l’indirizzo di mio fratello, vive nella zona in cui sbarcherete. Lui potrà aiutarvi per un po’. Buona fortuna- detto questo abbracciò me e mia sorella e strinse la mano a mia madre.

Uscimmo dall’ambulatorio in silenzio. Non mi sembrava vero che stavamo per andarcene. Ci dirigemmo verso la spiaggia, dove ci attendeva il barcone. Mentre camminavamo vidi alcuni bambini che giocavano, si rincorrevano e facevano finta di spararsi. Quel gioco, così innocente all’apparenza era la metafora di quel luogo: niente era al sicuro. Perfino qualcosa di puro e semplice come il gioco nascondeva una verità tragica. Quella che ora era finzione per quei bambini presto sarebbe diventata realtà. Quelle dita messe ad “elle” sarebbero divenute vere pistole e quelle risate, grida di terrore.

 

     Il barcone era peggio di quanto ci aspettassimo. Poteva contenere al massimo 50 persone, eppure ci stavamo sopra in 150. Si faticava anche solo a respirare. Ora capivo perché il dottore era così riluttante a parlarcene: non avevo idea di come saremmo sopravvissuti per giorni in quelle condizioni.

Lentamente la barca si staccò dal molo e iniziò ad inoltrarsi in mare aperto. Quando ci fummo allontanati abbastanza, mi girai e osservai la riva. C’era Rocinha, la baraccopoli, il luogo dove ero nato e cresciuto, con le case in lamiera e mattoni addossate l’una sull’altra, con la sua miseria e la sua desolazione. Poi c’era Rio de Janeiro, la parte ricca, così diversa da ciò che la circondava da sembrare estremamente fuori posto.

Mi sentii invadere da una tristezza spiazzante per quanto inaspettata: avevo sempre odiato quella città, ma era la mia città e lasciarla era più dura di quanto immaginassi.

Mentre guardavo l’enorme statua di Cristo Redentor farsi sempre più piccola, non riuscii a trattenere una lacrima. Una lacrima di tristezza, di nostalgia, di amarezza. Una lacrima di speranza.

 

     Il viaggio fu lungo quanto terribile. C’era del cibo a bordo, ma non era abbastanza per tutti, perciò bisognava razionarlo. Con l’acqua era ancora peggio. Ogni giorno c’erano delle vere e proprie lotte per ottenere qualche bottiglietta in più.

Ogni tanto qualcuno moriva. In genere erano anziani o bambini, le persone più deboli. Quelle che non riuscivano a guadagnarsi l’acqua. Fortunatamente anni di taccheggio avevano reso me e mia sorella piuttosto abili nell’ottenere ciò di cui avevamo bisogno, perciò riuscimmo a sopravvivere fino all’arrivo in Florida.

Qui la barca fu fermata dalla polizia e tutti fummo costretti a scendere. Degli uomini in divisa ci fecero dei controlli per assicurarsi che non fossimo malati. Io, Julia e mia madre eravamo relativamente sani, anche se piuttosto denutriti, così ci lasciarono liberi di andarcene. E così eravamo tornati al punto di partenza. Eravamo soli, poveri e senza un posto in cui andare. Ma almeno qui avevamo una speranza di sopravvivere.

Mi guardai intorno e rimasi un po’ deluso. Quel posto era innegabilmente meraviglioso, ma era così simile a Rio! Avevo paura che la nostra vita non sarebbe cambiata, ma poi mi resi conto di una differenza sostanziale tra le due città: qui non c’erano favelas. I poveri non erano emarginati ai lati della città per permettere ai ricchi di vivere bene. C’era un posto per tutti e magari ce ne sarebbe stato uno anche per noi.

Era notte, così ci rifugiammo in un vicolo e presto ci addormentammo.

 

     Mi svegliai di soprassalto. Un grido aveva lacerato l’aria, spezzando il silenzio della notte. Assonnato cercai di guardarmi intorno per capire cosa fosse successo e mi accorsi di essere steso su qualcosa di bagnato. Iniziai a spaventarmi e mi girai di scatto verso mia madre e mia sorella; a quel punto tutto fu chiaro.

-Non è possibile, è ancora troppo presto- dissi, la voce spezzata dalla sorpresa. A mia madre si erano rotte le acque, stava per partorire. In un vicolo, al buio col solo aiuto di due dodicenni inesperti e spaventati… non andava affatto bene.

-Dobbiamo trovare un medico!- esclamò Julia scattando in piedi, ma mia madre la trattenne per un braccio.

-Non c’è tempo! Dovete aiutarmi voi a far nascere il bambino!- aveva ragione, era pressoché impossibile trovare un medico a quell’ora della notte in una città a noi completamente sconosciuta, perciò non c’erano alternative.

Aiutammo mamma a stendersi e a rilassarsi; le contrazioni si facevano sempre più vicine e Julia, che aveva assistito il dottor Johnson in qualche parto esortava mia madre a respirare nel modo giusto.

Ci mise parecchio tempo, ma finalmente il bambino riuscì ad uscire. Mia madre però non sembrava stare affatto bene.

-Karim taglia il cordone ombelicale in qualche modo e poi portalo da qualcuno perché lo curi- mi ordinò con voce ferma. In preda al panico iniziai a cercarmi nelle tasche: fortunatamente avevo l’abitudine di portarmi un coltellino sempre dietro.

Julia legò il cordone in due punti e io lo tagliai al centro. Il bambino però era strano.

-Perché non piange? Dovrebbe piangere!- urlai, sempre più spaventato. Julia era più calma, afferrò il bambino per i piedi e gli diede qualche colpetto leggero tra le spalle.

Ci fu qualche attimo di silenzio, ma poi il piccolo iniziò ad urlare e io ripresi a respirare.

-E’ una femmina!- esclamò Julia soddisfatta, ma il pericolo non era certo finito: la bimba rischiava di morire da un momento all’altro e così anche mia madre, che aveva iniziato a perdere parecchio sangue.

-Tu stai qui, io vado a cercare aiuto- ordinai a mia sorella, poi presi in braccio la bambina e mi misi a correre più veloce che potevo verso la zona abitata.

Raggiunta una casa, mi misi a bussare insistentemente e a urlare. Mi aprì un signore in pigiama che mi guardò con un’espressione sbigottita.

-Mi aiuti! Mia sorella a bisogno di cure, è appena nata!- urlai. Lui fece una faccia strana.

-W-what?- cavolo, mi ero dimenticato che non ero più in brasile e io non conoscevo neanche una parola di inglese. Così gli misi la bimba in braccio e lui sbiancò.

-Oh my god- sussurrò. Corse in casa, prese un telefono e chiamò qualcuno.

Pochi minuti dopo arrivò un camioncino a tutta velocità, accompagnato da una sirena assordante. Degli uomini vestiti di bianco scesero e portarono la bimba sul mezzo, attaccandole dei tubi al naso e alla bocca. Non avevo idea di cosa stesse succedendo, ma capii che la piccola era al sicuro ormai. Non mi ero certo dimenticato di mia madre però.

Afferrai l’uomo per un braccio e iniziai a correre, conducendolo nella stradina in cui avevo lasciato Julia e mamma. Potevo salvarla, dovevo essere ancora in tempo. Arrivato all’imbocco del vicolo mi fermai: Julia era seduta per terra, le braccia strette attorno alle ginocchia e il volto coperto dai capelli.

-J-Julia, cosa è successo, perché non sei con mamma?- chiesi, la voce tremante. No, non poteva essere vero, semplicemente non poteva. Julia alzò la testa, aveva gli occhi gonfi e le guance arrossate: aveva pianto.

Mi crollò il mondo addosso. Caddi in ginocchio, privato di ogni forza.

Era morta, mia madre era morta e noi eravamo soli.

Non riuscii più a trattenere le lacrime, piansi. Piansi a lungo. Nemmeno io so esattamente quanto. Tutto ciò che conoscevo mi era stato portato via e ora volevo solo sfogarmi. Per tutta la vita ero stato costretto a comportarmi da adulto, ma ero solo un bambino e in quel momento volevo la mamma.

 

     In seguito io e Julia riuscimmo a trovare il fratello del dottor Johnson. Poiché parlava portoghese potemmo spiegargli tutto e questo ci accolse in casa sua. Col tempo riuscì ad ottenere il permesso di adozione e diventò ufficialmente nostro padre. A diciotto anni io e Julia ottenemmo la cittadinanza e diventammo finalmente cittadini americani.

Ormai sono passati dieci anni da quella notte. La piccola Clara, la chiamammo come mia madre, è ormai una bambina delle elementare e scoppia di salute; Julia invece ha iniziato l’università e studia per diventare medico. In quanto a me, non ho ancora deciso cosa farò della mia vita, ma non importa perché grazie a mia madre, che è morta per donarci una vita migliore, ho tutto il tempo di costruire il mio futuro.

  
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