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Autore: Blue Drake    08/05/2013    2 recensioni
"Incontriamoci a Parigi", dico io. Ma forse, pensandoci ora, era meglio se mandavo prima un invito scritto, magari con un bel "Per favore" allegato.
Ma non scherziamo! Io sono la Creatrice! (Certo, come no. Credici).
E quindi, ecco a voi, gente, la mia "dolce" creatura: Derek Marlow. Mi aspetto, come minimo, un po' di entusiasmo per il mio cucciolo assassino.
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«Ero all'interno della mia camera, meno di sessanta secondi fa. Questa...», sibila, guardandosi brevemente intorno, «NON è la mia camera».
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[Racconto partecipante al contest: "Io ti ho creato e io ti... Incontro!" indetto da Slappy]
Genere: Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[Racconto partecipante al contest: "Io ti ho creato e io ti... Incontro!" indetto da Slappy]

 

Titolo: "Derek"

Autore (su Efp e sul forum): Blue Drake (EFP) - Suzeanne la Petite (Forum)

Pairing: /

Genere: Generale, Malinconico, Sovrannaturale

Rating: Giallo

Avvertimenti: /

Note autore: Mi sento molto sconvolta perché non ho la più pallida idea di che cosa inserire nella voce "Genere" e nemmeno in quella "Avvertimenti"

Presentazione: "Incontriamoci a Parigi", dico io. Ma forse, pensandoci ora, era meglio se mandavo prima un invito scritto, magari con un bel "Per favore" allegato.

Ma non scherziamo! Io sono la Creatrice! (Certo, come no. Credici).

E quindi, ecco a voi, gente, la mia "dolce" creatura: Derek Marlow. Mi aspetto, come minimo, un po' di entusiasmo per il mio cucciolo assassino.

«Ero all'interno della mia camera, meno di sessanta secondi fa. Questa...», sibila, guardandosi brevemente intorno, «NON è la mia camera».

 

Sul Personaggio

Nome: Derek Marlow

Sesso: Maschio

Età: 19 anni

Professione/Ruolo all’interno della vostra fic: Ehrr... Spionaggio in ambito governativo. Nel suo ruolo, all'interno dell'Agenzia, è definito "Esecutore".

Riassunto molto breve della vostra fic: Mph, ok posso farcela. A sei anni, rimasto orfano a seguito di un "incidente stradale", viene prelevato dall'orfanotrofio, preso in custodia da un paio di figure (reclutatori) e portato a vivere e studiare all'interno di una struttura sovvenzionata dal governo britannico. Durante la sua adolescenza verrà creato un settore sperimentale all'interno dell'"istituto" che prenderà il nome di Esecutivo. La sua conduzione e crescita verrà quindi affidata a Derek che si occuperà di istruire i nuovi ragazzi che, presumibilmente, ne faranno parte divenendone l'organico.

Note (es. eventi passati di prominente rilevanza, abitudini, malattie, tic… Tutte le anormalità riscontrabili in lui/lei, sostanzialmente): /

 

 

 

DEREK

 

 

 

 

 

Signore – e Signori, sì -: sto per eseguire una piccola magia. Preparate rose rosse e gigli bianchi perché ora sono qui, come sempre, impegnata a scribacchiare sul mio consunto block-notes, ed un momento dopo... Puffff! Sparita.

 

 

E d'un tratto, di fronte ai miei occhi soddisfatti e sornioni, posso ammirare lo squadrato campanile dell'Abbazia di Saint Germain des Prés (1) stagliarsi sul grigio cielo parigino. Grande! Primo esperimento di trasferimento: perfettamente riuscito.

OK, piove. Molto meno perfetto. Ma, insomma, è pur sempre marzo e qui, dopotutto, è quasi la norma. Non che mi aspettassi molto altro, però... Beh, almeno per una volta, se non altro per la mia visita speciale di oggi, un piccolo aiutino dal tempo poteva anche starci. No? Oh, va bene! Fa lo stesso.

 

 

Non posso fare a meno di guardarmi intorno e sorridere. Dopo tutti questi anni, mi era mancata ben più di quanto sospettassi: la Ville Lumière. Ma non è certamente finita qui. Oh no, ovvio. Se sono arrivata in questa piazza è per un motivo preciso e quel motivo, secondo i miei complicatissimi calcoli, dovrebbe comparire non lontano dal portone principale esattamente tra cinque, quattro, tre, due, uno...

 

Avverto distintamente le mie labbra scattare repentinamente verso l'alto nel preciso istante in cui i piedi di colui che ho fin'ora atteso si posano, leggeri, sul lastricato umido dell'Abbazia. I suoi occhi si spostano, costernati, analizzando nel dettaglio ciò che lo circonda. Infine sbotta: «Dove cazzo sono finito?», e devo assolutamente trattenere la risata che minaccia di sgorgare dalle mie labbra, a meno che io non voglia dire prematuramente addio alla mia relativamente giovane vita.

Con cautela – con lui non si sa mai – faccio pochi passi avanti e, dopo un brevissimo sospiro, accenno rivolta a lui, «A Paris. Questa in cui ci troviamo è Place Saint Germain des Prés».

 

Uhm, devo aver detto la cosa sbagliata. I suoi occhi si assottigliano e posso ora scorgere solo un'affilata scaglia delle sue iridi trasparenti. Se ne distingue, comunque, un'inquietante sfumatura di avvertimento – o forse dovrei dire minaccia? - Non importa. Sono ancora viva, perfino discretamente in salute, e già questo è più di quanto potessi sperare, date le circostanze.

 

«Ero all'interno della mia camera, meno di sessanta secondi fa. Questa...», sibila, guardandosi brevemente intorno, «NON è la mia camera».

«No, non lo è». Mi sfugge un minuscolo sorriso, che si potrebbe benissimo scambiare per una semplice increspatura delle labbra. «È molto meglio di quella che tu chiami camera».

Ora mi ammazza, penso fra me. Perché non imparo a chiudere il becco, quando serve?

«E tu che cosa ne sai della mia camera?».

Deglutisco, nervosa. Un'orribile sensazione di disastro imminente mi artiglia stomaco e polmoni. Non ho la più pallida idea di dove io riesca a raccimolare l'improbabile coraggio per continuare a guardarlo negli occhi.

«Questa è un'ottima domanda, alla quale ho tutta l'intenzione di dare una risposta. Solo... Magari non qui, in mezzo alla strada e sotto la pioggia».

Tanto più che, a differenza della sottoscritta, non dispone di un ombrello – che io, previdente, ho deciso di portare come me – e sta iniziando a gocciolare come una grondaia sberciata sotto il diluvio universale.

Noto, con una punta di panico, il bianco dei suoi denti aggrapparsi alle sue labbra di un preoccupante bordeaux poco salutare.

«Non so chi tu sia», ringhia, visibilmente alterato, «Ma ti avverto che...».

«Sì, lo so», oso interromperlo, mettendo velocemente le mani avanti, «Mi ucciderai e il mio cadavere finirà nella Senna. Prima, però, vorrei parlare con te. È per questo che siamo qui».

 

Credo non si aspettasse questa nuova piega presa da una situazione già assurda di suo. Eppure, nonostante tutto, lo osservo sospirare, seppur visibilmente stizzito. Per un attimo serra gli occhi, sembra intento ad ascoltare qualcosa che io non sono in grado di sentire. È strano: non pensavo avrebbe mai distolto lo sguardo, né dalla sottoscritta né, tanto meno, da un luogo che, dal suo punto di vista, è qualcosa di sconosciuto e potenzialmente pericoloso. Ma lui lo fa, si perde per lunghi istanti nel buio dentro di sé, prima di tornare a fissarmi.

«D'accordo», mormora infine, «Parliamo».

 

Devo essere completamente impazzita: avverto una sensazione di assurda felicità espandersi dentro di me. Se non avessi la matematica certezza che sarebbe una follia suicida, probabilmente a questo punto mi sarei già avvicinata troppo a lui e lo avrei abbracciato – e lui mi avrebbe risposto staccandomi la testa dal collo... Sì, un'autentica follia – Invece mi limito a sorridergli, grata, e chiedergli con lo sguardo di seguirmi verso la nostra prossima destinazione.

 

 

 

«Che cos'è questo?».

Il suo tono è incerto e palesemente guardingo. Mi volto, concedendomi qualche momento per osservarlo.

«È un cafè parigino. Les Deux Magots (2). Qui è piuttosto famoso».

In premio mi regala una smorfia che sembrerebbe infastidita.

«Perché qui?».

«Preferivi, forse, che ci fossimo seduti su una panca all'interno dell'Abbazia? Farà certamente più freddo. Qui, invece, posso offrirti qualcosa da bere... Se ti va», aggiungo, onde mettere in chiaro che, da quel momento in poi, non sarà costretto a fare alcunché contro la propria volontà.

Non ha l'aria di volersi muovere, i suoi piedi sono piantati a terra e dubito sarebbe facile forzarlo a spostarsi. Tuttavia non è ciò che desidero, quindi torno lentamente sui miei passi e attendo, paziente, che prenda la sua decisione.

«Non dovrei essere qui».

La sua voce è bassa, le parole hanno una sfumatura di tristezza al loro interno. Mi mordo un labbro mentre sento salire uno spiacevole e fastidiosissimo senso di colpa.

«Lo so». Mio malgrado, sono piuttosto spaventata mentre mi avvicino ancora di qualche passo. «È... un posto sicuro. Non succederà niente, qui. L'ho scelto apposta».

Mi osserva, stranito ed incerto. «Come lo sai? Come sai che... ? Sembra che tu conosca tante cose. Troppe. Com'è possibile?».

Mi verrà un infarto prima che tutto questo finisca. Sono troppo agitata: finirò per mandare tutto a puttane. Alzo gli occhi, osservando il cielo plumbeo, carico di nubi marmorizzate che lasciano cadere la pioggia fredda su questa città.

«Derek...», bisbiglio, tornando sulla sua figura che, al suono del suo nome sulle mie labbra, si è irrigidita ed ora sembra sul punto di spezzarsi.

«Tu... C-come...».

«Andiamo dentro, ti prego».

Non so esattamente in che modo sia successo, ma si direbbe che abbia deciso di accontentarmi, almeno per questa volta. Così, seppur digrignando i denti e stringendo i pugni, si avvia spedito fino all'ampio tendone verde che circonda l'entrata del cafè e, nervosamente, attende sulla soglia che anche io lo raggiunga. Poi, prima che io abbia il tempo di raccapezzarmi, con un gesto brusco del braccio spalanca l'uscio ed un suo sguardo gelido mi intima di entrare – in fretta, prima che l'ultimo barlume di pazienza se ne vada alla malora -

 

 

 

«Chi sei?».

Ho appena il tempo di accomodarmi sul divanetto in pelle vicino alla vetrina, prima di essere raggiunta dal sibilo inquietante della sua voce. Piano, alzo lo sguardo su di lui e, mio malgrado, sussulto. Li ricordavo azzurro ghiaccio i suoi occhi, ma l'ombra delle sue ciglia li fa sembrare grigi, proprio come il cielo che ci siamo da poco lasciati fuori. Osservo brevemente l'incrocio trafficato oltre il vetro freddo e, nel momento in cui torno su di lui, noto che non ha ancora smesso di fissarmi e che sta apparentemente cercando di nascondersi al di là delle tende in organza, immagino nella speranza che nessun passante lo noti.

«Non... vuoi qualcosa di caldo? Un tea, della cioccolata, magari un...».

«No. Voglio solo sapere chi sei tu, e perché non sono più...», inspira bruscamente, sgranando di poco gli occhi. Si direbbe che si sia appena reso conto di qualcosa di importante. Qualcosa che, forse, pensa non dovrei conoscere.

«A Londra?», gli vengo in aiuto a quel punto, notando la sua pelle già pallida di suo perdere ulteriormente colore fino a sembrare di gesso.

«Che cosa vuoi? Io non ho niente, non so niente!».

Mi chiedo se, dopotutto, la mia sia stata una buona idea. Trascinarlo fin qui, nelle sue condizioni e senza che ne fosse minimamente preparato. Probabilmente ho agito d'impulso e con un tempismo decisamente pessimo.

«Lo capisco», mormoro, «Tu non puoi sapere. Ma io sì».

 

 

 

Nonostante le sue proteste, la maggiorparte delle quali non verbali, ho insistito – a mio rischio e peridolo, evidentemente – nell'ordinare un cappuccino per lui ed un tea per la sottoscritta. Forse sarebbe stato più saggio da parte mia prendere un paio di camomille, visto il preoccupante stato dei nervi di entrambi. Ma ormai il danno è fatto. Sono stata avventata e non mi sono assolutamente disturbata pensando al possibile effetto della caffeina sul suo già precario sistema nervoso.

Nel frattempo Derek mi fissa in cagnesco, studiando con diffidenza – ed a tratti allarme – ogni mia singola mossa. Sorrido. Oddio, ci provo se non altro, per quanto in questo momento non sia esattamente semplice. Infine decido che è ormai giunto il momento di mettere le carte in tavola, di fatto nell'avventuroso tentativo di finire di scavare la mia bella fossa di tre metri per tre.

 

 

Anche questa volta, però, non mi lascia sufficiente tempo per organizzare un discorso sensato. Invece sembra deciso a farsi avanti per primo.

«Non vuoi dirmi chi diavolo sei», soffia Derek, senza preavviso. «Pretendo almeno di sapere per quale maledetto motivo sono qui».

Avrei bisogno di un poco d'aria. Stare così vicina a lui inizia a farmi sentire un po' troppo esposta, sebbene ci troviamo in un luogo pubblico e pertanto costantemente frequentato.

«Avevo bisogno di... vederti».

Deglutisco ansiosa, improvvisamente schiacciata da una delle sue famigerate occhiate omicide. Tento di farmi piccola piccola, magari di eclissarmi in qualche anfratto del locale, forse nella farneticante speranza di diventare io stessa una figurina del cafè.

«Mi prendi per il culo? Non sono un idiota e non credo che tu mi abbia trascinato fin qui per vedermi».

Il suo tono sarcastico ha, in qualche modo, il potere di irritarmi. Mi agito sul divanetto, indecisa se sputargli o meno in faccia un po' di quella verità che va cercando. Sospiro poi, rammentando a me stessa la necessità di essere cauta con lui. Forse, soppeso, sarebbe stato più saggio scegliere qualcuno di più trattabile, di meno suscettibile e problematico, di più... equilibrato. D'un tratto, però, mi sovviene l'effetivo problema: non ho mai creato alcunché di equilibrato in tutta la mia vita. Ecco, lampante, la triste ed ineluttabile realtà che si apre crudelmente di fronte a me.

«Che tu ci creda o no, Derek, è esattamente questo il motivo per cui ora sei qui, con me. Non desidero nient'altro da te, non voglio che tu faccia assolutamente niente per me. Ho solo bisogno di un po' del tuo tempo. Tutto qui».

Le palpebre calano lentamente sui suoi occhi increduli. Inspira, emettendo un basso sibilo. «Capisco perché hai voluto a tutti i costi entrare qui dentro». Mi fissa, ora, inchiodandomi per tutta la durata di quella breve ed intensa ispezione sul divanetto che, d'un tratto, è diventato veramente scomodo. «Troppa gente. Preziosi testimoni che mi dovrebbero impedire di ucciderti, immagino». Inclina appena la testa di lato ed i suoi occhi si assotigliano. «E dimmi, chiunque tu sia: pensi di conoscermi davvero? Abbastanza da avere la certezza che io non trovi comunque il modo di prendermi la tua vita, fregandomene delle probabili conseguenze?».

Cazzo... Deglutisco, i miei processi mentali momentaneamente in avaria, mentre lo guardo sconvolta e, devo pur ammetterlo, giusto un filino terrorizzata. In qualche oscuro modo riesco comunque a ritrovare un po' di voce per mormorare, incerta, «Davvero lo faresti?».

Mi osserva, apparentemente interessato, forse perfino incuriosito. «Perché non dovrei?».

Già, bella domanda. Perché no? Che cosa glielo impedirebbe? Cambierebbe qualcosa se sapesse ciò che io già conosco? Può darsi. Quindi: dovrei rischiare? Mi sfugge un inopportuno e rapido sorriso riflettendo che, dopotutto, è proprio questo il motivo per cui mi trovo qui, di fronte alla sua espressione seria, glaciale e vagamente allucinata.

«Perché io ti ho creato».

 

 

 

 

FINE

 

 

 

 

NdA:

 

Questo racconto si colloca, in linea temporale, circa due giorni dopo la fine del 27° capitolo di “Sale sulla pelle”. Se mai dovessi riuscire a dare un seguito (e magari anche una conclusione) a quella storia, questa nostra piccola avventura parigina dovrà decisamente trovare il modo di sparire dalla memoria di Derek. Mi servirebbe uno di quegli aggeggini sparaflashanti che usa James in MIB (e anche l'incoscienza di avvicinarmi di nuovo a Derek abbastanza di farlo funzionare).

 

(1) Abbaye de Saint-Germain-des-Prés → http://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_Saint-Germain-des-Pr%C3%A9s

 

(2) Cafè Les Deux Magots → http://www.lesdeuxmagots.fr/fr/ambiances.php#/ambiances.php , http://lesitaliens.wordpress.com/2010/04/13/i-posti-de-les-italiens-i-deux-magots/ , «Le Due Figurine»

 

 








 

   
 
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