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Autore: Angeline Farewell    11/05/2013    5 recensioni
Kim Hyde (Home & Away)/Bill Hazeldine (Suburban Shootout)
Bill è un bravo ragazzo inglese, Kim il classico bello da spiaggia australiano. Bill credeva di voler studiare teologia e andare in Africa, Kim non sa più nemmeno se può immaginare un futuro. Un incontro/scontro che può far deragliare due vite o forse, semplicemente, rimetterle nel giusto binario.
[I protagonisti di questa storia sono personaggi di due diversi telefilm: Home And Away (Kim Hyde/Chris Hemsworth) e Suburban Shootout (Bill Hazeldine/Tom Hiddleston). La storia che mi accingo a raccontare è dunque una AU - o What If?, se preferite - che comincia nel 2006, ovvero all'indomani dell'inizio dell'università per Bill e della notizia della mancata paternità (e conseguente colpo di testa) per Kim.]
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Chris Hemsworth, Nuovo personaggio, Tom Hiddleston
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 10: Life's under no obligation to give us what we expect
 

Kim aveva conosciuto Emma in palestra. “Conoscere” era una parola grossa dato che s’incontravano unicamente in palestra e avevano chiacchierato solo di sport e muscoli tra una pausa e l’altra, ma si erano incrociati per la prima volta mentre lui si allenava ai pesi e lei tornava dalla lezione di aerobica che aveva appena tenuto: era simpatica, non un’amica, ma era piacevole parlare con lei. Avevano la stessa età e lei era esattamente quel che si poteva definire il suo tipo: piccola, atletica, esuberante, biondissima. Proprio come lo era stata Kit.
Dopo il disastroso Capodanno appena trascorso, Kim non aveva perso tempo a tornare a correre su un tapis roulant e sollevare pesi fino a non sentirsi più gambe, braccia e cervello, cercando di evitare di guardare il suo riflesso in uno dei migliaia di maledetti specchi di cui era disseminata la palestra: stava diventando davvero grosso e non voleva pensare a cosa avrebbe detto Bill quando si sarebbero rivisti. Avrebbe voluto strozzarlo, Bill, e soffocarlo in un abbraccio. E doveva aggiungere più peso, stava diventando troppo facile ed un’operazione automatica non gli serviva a spegnere il cervello.

“Guarda che così non metti su massa muscolare, ti strappi i legamenti delle spalle.”

Emma lo aveva avvicinato mentre aggiungeva chili senza riflettere e, dallo stato dei suoi abiti, doveva aver appena concluso la sua lezione pomeridiana. Non si era preoccupata di farsi prima la doccia, lui non era certo in condizioni migliori, era talmente sudato che la t-shirt gli si era completamente appiccicata addosso come una seconda pelle.
Lo aveva sorpreso alle spalle e poi riso del suo mezzo sussulto e della sua espressione sicuramente stupida, ma Kim non se l’era presa, perché parlare con qualcuno sarebbe stata un’ulteriore distrazione e i pesi non riempivano il silenzio né attutivano la voce di Bill nella sua testa.
E, anche in quello stato, doveva ammettere che Emma era graziosa. Molto graziosa: lo era tanto che, meno di un anno prima, ci avrebbe provato fino a rendersi ridicolo.

Invece ci aveva provato lei per prima, e Kim non si era reso conto nemmeno di come fosse successo: un minuto prima parlavano di adduttori, quello dopo lei gli chiedeva di andare a prendere qualcosa da bere insieme, quella stessa sera. E, se gli inviti del genere nascondono lo stesso significato in ogni parte del mondo, non era difficile capire cosa Emma volesse davvero.

Ma c’è Bill.

Fu tutto quel che gli passò per la mente una volta realizzato il tentativo di rimorchio. E no, non gli stava bene per niente, perché era un pensiero che gli faceva soprattutto paura. Non doveva pensare a Bill in quel modo o avrebbe finito per rovinare tutto e lui non poteva permettersi di rovinare tutto proprio con Bill. Non per quel motivo: aveva già rovinato troppe relazioni e troppe persone.

Ma Emma gli sorrideva ed era carina e non era un’amica e voleva solo divertirsi. Poteva funzionare.

Aveva finto di non vedere l’occhiata stupita di Liz quando aveva annunciato che quella sera sarebbe uscito, che aveva un appuntamento, aveva finto di non vedere perché non voleva darle ragione né arrabbiarsi. Tutto quello che voleva era uscire con Emma e dimenticare il disagio che gli derivava dal non sentire Bill da tanti giorni ma averlo comunque fisso in mente come un chiodo in mezzo al cervello. Non voleva continuare a chiedersi quando sarebbe tornato né cosa avrebbero fatto.

Aveva bisogno di tornare per una sera alle vecchie abitudini.

Solo che Emma probabilmente fingeva soltanto di essere inglese, perché dove si è mai visto un inglese astemio? Persino Bill andava oltre la birra il venerdì sera.
Avevano mangiato in un fumoso pub nella parte sud della città, quella che lui e Bill frequentavano sempre poco, troppo piena di locali e priva di vere attrattive, ma il Grasshopper era uno di quei posti che valeva la pena visitare, anche solo per l’atmosfera. Erano stati sistemati in un angolino appartato e intimo, il cibo era abbondante e la birra ottima, ma Kim non era lì per badare a cibo e birra, perché Emma era più carina del solito, e divertente come non aveva davvero avuto modo di apprezzare in palestra. La serata stava scorrendo bene, Kim si sentiva bene, non aveva controllato lo schermo del cellulare – che comunque non aveva dato segni di vita – nemmeno una volta, ed Emma era abbastanza disinvolta da lasciar trasparire un deciso interesse.

“Kim, che diavolo stai facendo?”

Emma lo aveva fissato interdetta quando Kim aveva provato a prenderle la mano avvicinandosi con il suo sguardo migliore, quello che aveva convinto Hayley a dimenticare Scott per una sera dando il via al domino di eventi che lo aveva portato lì, seduto in un pub inglese con una ragazza carina che lo guardava come se gli fosse spuntata un’altra testa perché ci stava provando con lei.

“Oh mio Dio… Pensavi ci stessi provando con te!”

E che aveva da ridere, anche? Lo aveva invitato lei ad uscire!

“Cosa-No! Certo che no, io non volevo, insomma, stavo solo…”

“Ci stavi solo provando. È che non capisco perché, credevo ci stessimo divertendo.”

A quel punto fu lui a guardarla come se le fosse spuntata una seconda testa: lo stava prendendo in giro?

“Infatti! Insomma, mi hai invitato tu ad uscire e-”

“E pensavi ci stessi provando con te.”

“Invece tu non…”

“No. Io non.”

Bene. Kim non era mai stato rifiutato in quel modo, mai così nettamente. La cosa peggiore è che Emma sembrava al più delusa, non disturbata. Un’altra che l’aveva preso per una persona migliore di quanto non fosse: come avevano fatto gli inglesi a dominare il mondo per secoli? Erano dei ciechi creduloni.

“Mi dispiace, davvero. Tutto questo è molto imbarazzante.”

“E non sarebbe stato ancora più imbarazzante domani mattina, quando avresti dovuto dirmi che c’è qualcuno che ti aspetta… ovunque ti aspetti?”

“Cosa?”

“Kim, ti ho invitato ad uscire perché sei un ragazzo simpatico e mi sei sembrato giù di morale. Pensavo ci tenessi un po’ di più a questa tua ragazza che ti tiene al guinzaglio, evidentemente sbagliavo. Con la mia c’è un po’ di maretta, avevo bisogno di uscire e sfogarmi anch’io e di sicuro tu non rappresenti un ulteriore motivo di litigio. Avevo pensato di prendere due piccioni con un fava, credo di essermi sbagliata.”

“Ragazza? Quindi tu… oh.”

“Già. Oh.”

Kim non sapeva se ridere o piangere e se farlo perché una ragazza carina come Emma aveva pensato di invitarlo ad uscire per pietà, o perché era davvero così evidente per tutti fosse assicurato ad un bel guinzaglio con tanto di collare. Solo che non era una ragazza e tenere l’altro capo del laccio e sì, ci teneva fin troppo il guinzaglio rimanesse dov’era.

Si era accasciato contro lo schienale della scomoda panca di legno, completamente svuotato. Che figura di merda. Pensare non avesse avuto nemmeno tutta quella voglia di provarci con lei, non certo perché non fosse attraente o non gli piacesse, anzi: Emma gli ricordava la Kit dei tempi migliori, in circostanze diverse avrebbe davvero potuto perdere la testa per lei. Lesbica o meno.

Il problema era proprio quel guinzaglio che gli toglieva il respiro, ma a cui si aggrappava disperatamente ogni volta lo sentisse allentarsi. Aveva paura di quel che avrebbe potuto fare una volta che Bill fosse tornato a casa ed il problema non era nemmeno il sesso perché, insomma, un po’ non avrebbe saputo dove mettere le mani, un po’ perché Bill non aveva certo la scollatura di Emma. Non era attratto da lui in quel senso, ecco.
Però voleva stare con lui e non aveva senso così e aveva bisogno di un’altra birra anche per digerire il fatto di non essere stato abbordato da un’attraente lesbica con il corpo scolpito dallo yoga.

“Se vuoi vado via, non c’è bisogno mi riaccompagni a casa, chiamo un taxi.”

Emma aveva fatto per alzarsi, ma Kim l’aveva fermata con un gesto.

“No, per favore, rimani. Non ci hanno nemmeno portato il dolce, ancora.”

“Sei sicuro? Non devi sentirti obbligato, sul serio, è stato un errore mio, avrei dovuto dirtelo subito.”

“Be’ sì avrebbe aiutato, ma non avevo alcun diritto di saltare subito a certe conclusioni, no? Colpa mia.”

“Nessun problema. Quindi niente fidanzata? Se vuoi posso presentarti io qualcuna carina. Niente lesbiche, promesso.”

Kim aveva riso di gusto suo malgrado, Emma aveva tentato di spezzare la tensione e ci era riuscita nel modo migliore: proprio come aveva pensato, la sua donna ideale. E l’aveva incontrata che lei aveva già ben chiaro di essere lesbica e lui passava le giornate in attesa di un messaggio da parte del suo migliore amico che non voleva più fosse solo un amico: il senso dell’umorismo inglese faceva proprio schifo, poco da fare.

“Sicuro che va tutto bene? Hai una faccia…”

“Perché pensavi avessi una ragazza?”

“Cosa?”

“Prima, hai detto pensavi ci tenessi un po’ di più alla ragazza che mi teneva al guinzaglio. Come facevi ad essere sicura fossi impegnato?”

“Non lo so, intuito femminile? E non guardarmi così, è un sesto senso importante.”

Emma aveva ordinato una disgustosa crème brûlée che le era finalmente stata servita ed aveva preso a rimestare nella sua tazza con gusto, mentre lui sbocconcellava un’altrettanto disgustosa mince pie: buon cibo, buona birra, pasticceria carente. Forse però era tutta colpa di Posh e Liz che lo avevano abituato fin troppo bene in fatto di dolci.

“Il cellulare.”

“Uh?”

“L’ho capito per via del cellulare. Ci stavi sempre incollato in palestra e lo tenevi a vista durante le pause. E quando arrivava un sms lo leggevi con quella faccia.”

“Che faccia?”

Quella. Insomma, la faccia di uno cotto e rosolato a puntino: sorridevi come uno scemo.” Aveva preso un’altra cucchiaiata di quella broda giallastra assaporandola lentamente prima di puntargli contro il cucchiaino. “Hai fatto venire il diabete a tutti in palestra e hai spezzato i cuori di parecchie mie allieve, te l’assicuro.”

Oh. Era cosa nota a tutti, a quanto sembrava. Splendido.  Di colpo la sua mince pie sembrava essere diventata tremendamente interessante.

“Allora? Avete litigato anche voi? Natale porta male.”

“Natale è uno schifo. Non abbiamo litigato, comunque.”

Kim si sentiva a disagio. No, non avevano litigato, forse. Non sapeva, in realtà se Bill fosse arrabbiato con lui, messaggio di auguri o meno: l’aveva ignorato per giorni senza alcuna spiegazione, al suo posto Kim si sarebbe arrabbiato e anche tanto.

Kim aveva inspirato in profondità ed esalato un “E’ il mio migliore amico.” talmente veloce che non era riuscito a sentirsi lui stesso.

“Scusa?”

“E’ il mio migliore amico.”

“…”

“…”

“Oh.”

“Già. Oh.”

“Non posso crederci, una lesbica che fa da ultima spiaggia ad un gay confuso, è da barzelletta!”

Emma stava tentando eroicamente di non scoppiare a ridere, era evidente.

“Cosa? No! Io non… Non sono gay! E tu non ce l’hai scritto in fronte che sei lesbica, ero sicuro che stasera avrei concluso!”

“Kim, guarda che non c’è niente di male, non è-”

Non è così terribile, lo so. Ed è una cazzata, perché io non sono gay e, sì, è terribile mi sia preso una cotta da ragazzina per il mio migliore amico, va bene? Per tutta la vita ho avuto casini perché mi scordavo il preservativo e rischiavo di mettere incinta questa o quella ragazza a caso, ora ho casini perché tengo i pantaloni abbottonati e mi piace il mio migliore amico. Se è uno scherzo, non lo trovo divertente.”

“Cavolo, in effetti non lo è. Soprattutto perché rischiare di diventare padre a vent’anni dev’essere un incubo. Non voglio nemmeno pensarci.”

“Emma…”

“Lo so, non è quello il punto. Ma è comunque un punto importante su cui riflettere. Il tuo amico deve essere uno in gamba se ha messo il guinzaglio ad uno come te.”

“Bill non sa niente.”

“Oh, andiamo!”

“Bill non sa niente. Non ha idea di quello che sta succedendo, muore ancora dietro alla sua ex ragazza e pensa sia fortunato ad aver trovato un amico come il sottoscritto. È la persona migliore e più ingenua conosca.”

“Allora sei nei guai.”

“Lo so.”

Avevano finito il dessert in silenzio e senza più molta voglia, Kim aveva aiutato Emma a rimettersi il cappotto e poi l’aveva riaccompagnata a casa nel freddo di quella notte d’inizio gennaio. Avevano preferito tornare a chiacchierare del più e del meno, della probabile tresca tra la receptionist della palestra e l’istruttore di pilates, persino dei piani per il futuro. Emma lo aveva salutato davanti al portone di casa con un bacio sulla fronte e un in bocca al lupo, ma lei era un’ottimista e non conosceva Bill, poteva ancora sperare per lui andasse tutto per il meglio, no? Kim le aveva sorriso ed era tornato a casa imboccando la strada più lunga, quella che costeggiava il bosco intorno alla città: non aveva voglia di chiudersi in camera da solo.

Liz lo aveva svegliato la mattina seguente come al solito, alle sei e mezzo, perchè aveva il primo turno al locale e lui non era più il suo nipote preferito. O forse era solo paranoico e il suo bacon era croccante esattamente come tutte le mattine precedenti, non mezzo crudo e molliccio.
Aveva servito tè e cappuccini, e scones al cioccolato e mirtilli, lemon curd e ciambelle, fette di torta e crostate, tutto come al solito, aveva aiutato Posh con le consegne prima di tornare a casa all’ora di pranzo con Ed che non gli aveva fatto domande sulla serata appena trascorsa, ma che dall’espressione che aveva sembrava aver capito tutto. E non sembrava turbato per niente.

Aveva disertato la palestra.

Non aveva molta voglia di rivedere Emma così presto e forse era immaturo da parte sua, ma si sentiva comunque un po’ deluso per la storia del non essere stato rimorchiato: il suo orgoglio ne aveva risentito più di quanto fosse disposto ad ammettere.

Aveva optato per la piscina ed era alla sua settima vasca corta quando aveva deciso che poteva anche prendersi una pausa prima di abbandonare il riscaldamento e passare all’olimpionica. Aveva scientemente evitato di guardare lo schermo del cellulare lasciato accanto al suo asciugamani e si era fermato a chiacchierare con un paio di atleti dello Swimming Club, finendo per perdere il suo turno in corsia, ma non aveva problemi ad aspettare, non aveva nient’altro da fare.

Nuotare lo faceva sentire bene, l’acqua era decisamente il suo elemento ideale, ogni bracciata lo liberava di un pensiero molesto e nell’acqua era tanto leggero che sentiva di volare. A differenza di molti atleti, lui non aggrediva l’acqua con fendenti decisi, l’accarezzava con movimenti morbidi e si lasciava guidare. Non badava al cellulare e a quel che significava quell’attesa, non pensava a Bill e non si logorava aspettandolo come un cane alla catena.
Erano trascorsi alcuni giorni da capodanno, Bill sarebbe rientrato entro tre giorni e per quel momento sarebbe riuscito a trovare una scusa plausibile per il suo comportamento: alle brutte avrebbe sempre potuto dirgli che aveva litigato con suo padre e aveva bisogno di sbollire la rabbia per conto suo. Era plausibile, Bill ci avrebbe creduto. D’altro canto, Bill si fidava sempre di quel che gli veniva detto, lui non mentiva mai a nessuno e non capiva perché altri avrebbero dovuto ripagarlo con qualcosa di meno della verità. Bill era certo il mondo fosse buono come lui o che potesse diventarlo. Credeva anche Kim fosse un bravo ragazzo coraggioso e il suo migliore amico: era un povero illuso, insomma. Era la persona migliore del mondo e non se lo meritava proprio di aver incontrato uno come lui. Kim scivolò meno elegantemente di quel che avrebbe voluto in posizione supina, avrebbe percorso la decima vasca sul dorso; poteva farcela.

Quando si era finalmente deciso ad abbandonare la vasca, erano rimasti in pochi a popolare il centro sportivo. Aveva i muscoli delle spalle e del bacino piacevolmente indolenziti, gli addominali tesi e i polpacci duri come pietre, nulla che una doccia ristoratrice non potesse sanare. Si era tolto la cuffietta con uno schiocco bagnato e aveva preso a frizionarsi i capelli lanciando suo malgrado un’occhiata al cellulare sulla panca.

Tre messaggi. Bill.

Bill stava tornando a casa. Aveva deciso di prendere il primo treno disponibile da Londra un’ora prima e gli chiedeva se potesse andarlo a prendere in stazione. Un’ora prima.

Il treno da Londra impiegava esattamente cinquanta minuti per arrivare alla stazione di Cambridge.

“Scusa, sei sicuramente impegnato, tranquillo torno da solo : )”

Era stato il suo ultimo sms quando non aveva ricevuto risposta. Quasi trenta minuti prima, mentre lui era impegnato ad umiliare Joeffrey Campbell e la sua spilletta del club con un crawl da Olimpiade.

“Sto arrivando.”

Aveva digitato senza pensarci, si era asciugato alla buona ed infilato la tuta sul costume bagnato senza nemmeno badare agli sguardi perplessi – e un po’ anche schifati – degli atleti rimasti.

Aveva parcheggiato l’auto che Ed gli lasciava per andare in palestra nel parcheggio della stazione centrale di Cambridge appena dieci minuti dopo aver letto i messaggi, non avrebbe saputo dire come avesse fatto ad arrivare così in fretta: certo aiutava la cittadina fosse un buco.

Non c’era molta gente che defluiva verso l’esterno e Kim riusciva solo a sperare contro ogni previsione di non essere arrivato troppo tardi, che il treno fosse ancora fermo sui binari.
il treno in realtà non c’era già più, ma qualcuno ancora s’attardava sulla pensilina, qualcuno con un bagaglio ingombrante, qualcuno per una sigaretta. Qualcuno perché aspettava lui.

Bill era infagottato in un cappotto che gli ricordò di quanto facesse freddo e della sciarpa che aveva lasciato in macchina, ma non se ne preoccupò: finalmente era tornato e al diavolo il resto.

Lo aveva abbracciato senza rendersene conto e contro ogni suggerimento del buon senso, si era ripromesso che avrebbe mantenuto le distanze, ma la sua granitica determinazione era andata in pezzi come l’aveva visto sorridere sulla distanza.

“Mi sei mancato”

Solo quello, Bill non si vergognava di volergli bene, e perché avrebbe dovuto, lui?

Era fregato, mille volte fregato, se la distanza gli aveva dato la flebile illusione di poter riacquistare il controllo, le braccia di Bill si erano premurate di mandarla in frantumi. Gli aveva affondato il viso nei riccioli che erano cresciuti bel oltre le orecchie e lo aveva stretto più forte per non cedere alla tentazione di baciarlo su una brutta pensilina male illuminata e farsi odiare per sempre.

“Kim?”

“Hm?”

“Puzzi di cloro. Mi stai asfissiando.”

Ma il suo tono era leggero e non aveva fatto nulla per allontanarlo. Kim aveva cominciato a ridere soffocando le risate nella sua sciarpa enorme e lo aveva stretto a sé ancora di più. Ed era terrorizzato, ma anche felice, perché in quel momento era il suo migliore amico che lo prendeva in giro.

“Dio Bill, mi sei mancato tantissimo anche tu.”

E mentre si ride, chi potrebbe mai prendere sul serio un innocente bacio sulla fronte? Fu l’unica variante Kim riuscì ad imporre alle sue labbra. 

   
 
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