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Autore: Peppers    11/05/2013    2 recensioni
La storia di una ragazza che viveva nei monti della Grecia, dell'amore impossibile per un Dio e la terribile punizione a cui andò incontro. Una storia che tutti, almeno una volta nella vita, avete sentito ma interprata in un'ottica che spero vi colga di sorpresa!
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA FANCIULLA D’ARCADIA

 
 
Ero stanca, stremata e desiderosa di ritrovare la tranquillità che mi avevano sottratto con brutale ferocia. L’avevo trovato, l’avevo amato, capivo di averlo perso e temevo di smarrire me stessa. Sentivo la coscienza vacillare in mille brandelli, come strascichi fumanti di una tempesta che si era consumata troppo velocemente. Quanto tempo era passato? Un’ora? Un giorno, o forse mille.
La lucidità si offuscava, inumidendomi gli occhi e serrando un groppo sulla mia gola. Udivo risuonare nella mia testa una voce che non conoscevo. Eppure radicata com’era, non poteva non appartenere al mio animo. Ero davvero io? No, non potevo essere io. Quel gelido rancore che raspava la mia anima era un sentimento che non mi apparteneva.
Feci ritorno in quella fonte raccolta fra i monti d’Arcadia perché sentivo che mi apparteneva. Era un luogo semplice, unico punto fermo di un mondo che iniziava a girare troppo velocemente. L’acqua gorgogliava allegramente scorrendo in mille rivoli dorati sulle pietre muschiate, correva in sinuose anse scavate nella roccia e schiumava nel lago. Nei raggi dorati che filtravano fra i faggi e le betulle leggevo colori custoditi gelosamente fra le piega della mia memoria.
Riflettere non è mai stata la più acuta delle mie qualità. La bellezza si, ma non la lungimiranza. Chi non avrebbe ceduto alle lusinghe di un Dio? Il suo volto era apparso come un riflesso sfumato sulla superficie dell’acqua. Di fronte al mio sgomento, Poseidone aveva sorriso. La sua voce, profonda quanto gli oceani più impervi, mi aveva rassicurato. Non avevo mai parlato a un Dio. In verità, non ne avevo mai visto o incontrato alcuno. Era piuttosto simpatico e, ogni volta che tornava a trovarmi, amavo sedere sulla riva e perdermi in quei suoi occhi inumani. Mi parlava delle meraviglie dei mari: dei fondali corallini, dei tritoni e delle sirene. E io ascoltavo rapita, perché quella fonte era l’unico specchio d’acqua che conoscevo. Le sue parole mi schiusero nuovi orizzonti e finì, giorno dopo giorno, per attendere con febbrile impazienza il ritorno di Poseidone.
Capì di amarlo ancor prima che lui mi rivelasse i suoi sentimenti. Cosa vedeva in me, semplice ragazza greca, un Dio che poteva amare chiunque? L’Olimpo gli apparteneva, eppure sgranava i suoi giorni in un luogo senza nome né importanza. La sua proposta fu il coronamento di un desiderio che iniziava a dibattersi nel mio petto con intollerabile frenesia.
Si.
 Acconsentii a unirmi a lui.
Fu la cosa più bella della mia vita, e il più grave sbaglio della mia esistenza. Se potessi tornare indietro, penso che commetterei lo stesso errore.
Errore.
Non è forse questo che distingue gli uomini dagli Dei?
E il mio, quale era stato? Cedere ai complimenti di un giovane dai capelli azzurri, impetuosi come le tempeste che ingrossano i mari? Desiderare di imprigionare nella mia vita la felicità che solo lui riusciva a darmi?
No.
Non ho commesso alcun errore.
La mia mente non riesce a far altro che rivivere quegli istanti. Li vedo e li rivedo. E, sebbene la mia coscienza distorta aggiunga sempre nuovi dettagli, sono certa che fu il pudore a spingermi a incontrarlo nel tempio di Athena. Avevo un amico di infanzia, Kodromos, con cui avevo scoperto le prime scintille di una tiepida passione. Il sentimento che provavo per il mio compagno era forte, ma cosa rispetto all’amore di un Dio? Accolsi Poseidone nella mia intimità all’ombra della statua di Athena, certa di essere al riparo dagli occhi di Kodromos. La frescura della notte sembrava ardere, al cospetto dei brividi che le sue labbra mi donavano. Mi prese con una forza e un calore insospettabili. I suoi occhi cristallini possedevano la sfumatura dei laghi d’inverno, ma il suo cuore era torrido come gli incendi di una guerra.
Quella notte mi cambiò per sempre.
La mia vita precedente appariva scialba, persa in una vile quotidianità che offendeva il palpitare del mio corpo giovane e bello. E il mio futuro? Tradito, da Poseidone e da Athena. Il mio occhio non colse le ombre farsi più fitte, né la pietra della statua mutare in carne. La Dea parlò con voce imperiosa, pronunciando una maledizione che le mie orecchie non vogliono più sentire. L’amore che avevo consumato mi appariva come un piatto ricco e prelibato, ormai rovesciato a terra e calpestato senza pietà.
Mi ero unita a un Dio, ma Athena tornò a ricordarmi che ero una donna mortale.
Di fronte a quella collera spumosa ebbi paura. Non lo nascondo, anche la Paura, come l’Errore, fa parte della natura umana.
Timore, orrore e vergogna si mescolarono in un’emozione senza nome che mi spinse a fuggire via, in una foga irrazionale che adombrò Poseidone, Athena, Kodromos e tutto ciò che mi circondava. Non so quanto tempo occorse alla mia mente per rimettere assieme i cocci di una coscienza soggiogata, che tentava inutilmente di dibattersi fra due Divinità.
Fu allora che sentii per la prima quella voce, annidata nel mio animo. Nel silenzio che accompagnava i miei passi erranti per l’Arcadia avvertivo sussurri alle mie orecchie. Parole che non riuscivo a comprendere, di cui però coglievo il significato in modo latente. Nella mia anima si svegliarono, come se fossero stati assopiti da sempre, istinti che faticavo a pensare umani. Provavo desideri che mi inorridivano.
Avevo orrore di me stessa ma al tempo stesso gioivo della mia paura, come un frutto diviso in due da un coltello ben affilato. E, ne ero certa, la spada di Athena era ben più di un coltello. Giorno dopo giorno la sua maledizione mi inquinava, mutando tanto il mio corpo quanto la mia mente.
Fu nell’estrema speranza di ritrovare me stessa che feci ritorno alla fonte d’Arcadia, lì dove tutto era iniziato.
Chiamai Poseidone, ma il silenzio fu l’unica risposta che ottenni.
Sperai nel suo ritorno, ma nessun volto divino scompose più le placide onde dello stagno.
Attesi, attesi e attesi.
Consumata nel corpo e nella mente, avvinghiata in un’impotente debolezza.
Ero testimone di cambiamenti che non riuscivo a percepire, così lenti da farmi dubitare di essere mai stata veramente bella. Affascinante? Non c’era nulla di affascinante in quella fronte troppo ampia, in quegli occhi troppo piccoli, in quella bocca dalle gengive ritratte, in quei capelli che si afflosciavano in ciocche verdastre come la pelle di un serpente.
Non c’era nulla di mostruoso nel viso che vidi nel riflesso della fonte.
Questa era la cosa che più mi terrorizzava.
Avrei preferito scorgere artigli, scaglie o zanne a quel volto che violentava ogni concetto di equilibrio e armonia.
A farsi beffe del terrore atavico che strisciava sulla mia pelle, udii il cinguettare di due passeri in amore. Li osservai, sospesa nei miei ricordi, e provai una repulsione selvaggia e feroce. Perché?! Perché perfino un uccellino poteva avere ciò che mi era stato negato? Quale errore poteva giustificare una così terribile punizione?
Accecata dall’odio feci guizzare la mano, agguantando il passero. E gioii, perché feci ciò che Atena aveva fatto con me. Capii quale infimo e perverso piacere la Dea provò nel vedermi cinguettare stretta nel suo pugno.
Portai l’animale alla bocca e ne staccai la testa con un morso.
Ebbra del tramestio con cui i denti spezzavano le ossa e dilaniavano la carne, cercai di stillare ogni goccia dell’amore che quella coppia di passeri stava consumando. Volevo appropriarmi del loro sentimento, ma fu inutile: riuscii soltanto a nutrirmi del loro corpo.
Dov’era? Dov’era?!
Dove quei piccoli mostri alati celavano il loro amore? Sembrava svanito, effimero quanto il vento, eppure era lì fino a un momento prima quando, appollaiati su un ramo, si stringevano l’uno all’altro!
Urlai, battendo i pugni sul terreno.
Strepitai, mordendo il fango della terra.
Bestemmiai, maledicendo il nome di Poseidone e di Athena.
Poi udì il mio nome.
“Medusa?”
Una sola parola, che vibrava di stupore, sulla bocca di Kodromos.
Il mio baccano lo aveva attirato alla fonte. Nei suoi occhi vidi brillare la gioia di aver trovato ciò che a aveva cercato a lungo, ma nella mascella contratta lessi uno stupore soffocato fra le spire della paura.
“Che ti hanno fatto, Medusa?”
Fece un passo, la voce tremante di dolore. Fece un passo, nonostante il mio aspetto orrendo. Fece un passo, nonostante la mia bocca sporca di sangue. Fece un ultimo passo e mi cinse. Davvero il suo amore poteva superare quello di un Dio?!
No.
Non riuscivo a comprenderlo. Non riuscivo ad accettarlo. Dov’era Poseidone? Doveva esserci lui lì a stringermi, non Kodromos. Rimasi immobile, colta alla sprovvista dal profondo sentimento del mio amico d’infanzia. Rimasi immobile e desiderai godere di quell’abbraccio ma la vergogna per ciò che ero diventata mi sopraffece.
La Maledizione di Athena era la consapevolezza.
La consapevolezza di capire che la mia natura stava mutando, nell’ossessiva ricerca dell’Amore.
Ebbi Paura.
Feci un Errore.
Non ero più un Uomo, non ero ancora un Mostro.
Ma allora, cosa ero?
Acceca dall’ira, urlai, spingendo via Kodromos. Il suo volto si pietrificò, immortalando per sempre la tristezza per ciò che sarebbe potuto essere e non era stato. Rimasi lì a fissarlo, sgomenta e offuscata per l’orribile prodigio che avevo compiuto: Davvero il mio odio poteva essere così potente da mutare la carne in pietra?
   
 
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