Senza
tempo ~
prompt: #005, strawberry jam
Tartesso, 1890
Si riunirono tutti tra risa e
lacrime. Sanson non si rese conto di quanta paura avesse avuto finché Marie non
gli volò tra le braccia, strillando incomprensibilmente, tempestandogli il
volto di baci e il petto di pugni – aveva solo cinque anni, la piccola Marie,
cinque anni e già aveva camminato dritto attraverso la fine del mondo. Non si
rese conto neppure che piangeva finché non si sentì quell’acqua salata sulle
labbra, e allora si chiese quanto si dovesse essere adulti per poter piangere
di sollievo, quanto si dovesse aver sopportato – aveva sopportato tanto, la
piccola Marie, così piccola e già aveva perso e superato e cercato di
dimenticare così tanto. Una parte di lui avrebbe voluto cercare quel miserabile
Ayrton e annientarlo seduta stante perché non le era vicino, non aveva saputo
rassicurarla; un’altra avrebbe voluto soffiare la bella Icolina
alle attenzioni del biondino imberbe, ricominciare la sua vita esattamente dal
punto in cui l’aveva lasciata prima che il mondo impazzisse; un’altra ancora
non voleva che accucciarsi a terra con Marie e ridere e piangere con lei. Non riuscì
a far altro che stringerla e dirle che andava tutto bene, era tutto finito.
Le Havre, 1891
«Te ne vai anche tu?»
A volte Sanson dimenticava che Marie era solo una
bambina. Gli succedeva regolarmente, anche in passato, a bordo del Nautilus
quando la si sentiva biasimare gli atteggiamenti di Grandis
ed Electra, sull’isola – che non era un’isola – quando la si scopriva tutta
intenta a rammendare per l’ennesima volta il pallone del Gratan
borbottando tra sé sull’inutilità degli adulti. Ma altre volte, quando si
sentiva sola, ignorata, abbandonata, ferita, Marie metteva su quel suo
inconfondibile broncio – lo stesso broncio che adesso faceva suonare amare le
risate che riempivano quella buffa casa strampalata, il posto in cui la storia
era cominciata e oggi finiva e ricominciava di nuovo.
Sanson le sorrise, molto vicino a lei, appoggiato
alla stessa balconata dalla quale Marie guardava le stelle. «Non dirmi che ti
dispiace restare qui con Jean e Nadia. Sarete la famigliola perfetta, voi tre.»
«Quattro» lo corresse lei macchinalmente, «dimentichi
King.» Si dondolò sui piedi. «Non è questo.» Scosse tristemente la testa. «È solo
che... io pensavo che finalmente saremmo stati insieme e felici, invece se ne
vanno tutti. Il signor Nemo, nessuno mi ha spiegato bene dov’è andato. La
signorina Electra non si è vista più. E la signorina Grandis,
e Hanson, e tu»
puntò su di lui uno sguardo talmente afflitto e accusatorio da farlo davvero
sentire in colpa, «anche voi ve ne andate, venite qui per un giorno a farmi
credere che non è cambiato niente e adesso ve ne andate.» Incrociò le braccia
sul petto, come una piccola mamma arrabbiata, gonfiandosi tutta. «Dove vai, si può sapere? Perché non
resti con Marie?»
Sanson non rise, non si domandò neppure quanto tempo
fosse passato dall’ultima volta in cui Marie aveva parlato di sé in terza
persona. Si chinò al suo livello, posando le mani sulle sue piccole spalle,
parlandole da pari a pari – perché era giusto così.
«Stammi a sentire. Nessuno sta cercando di farti credere
proprio niente. Le cose sono cambiate...
Tu pensi di essere la stessa bambina che eri prima di lasciare Marsiglia, o
prima di incontrare Gargoyle?»
Gli occhi di Marie si riempirono di lacrime, ma
Sanson sapeva che non le avrebbe viste cadere, perché Marie era forte, forse
molto più forte di tutti loro messi assieme.
«Quello che abbiamo vissuto non è una cosa che ci si
possa semplicemente lasciare alle spalle. È una cosa che ti cambia, e tu te ne
accorgi. Alcuni di noi vogliono andare avanti e alcuni altri vogliono solo un
po’ di maledetta normalità – e sono sicuro che la voglia anche tu.» Sorrise
ancora, più sincero, stavolta. «Ecco perché devi restare qui con la tua nuova
famiglia, mentre io me ne torno a girare il mondo. Ho scoperto che ha molte
avventure in più da offrire, oltre che alle belle ragazze.»
Marie si ritrasse da lui e si strofinò il naso con
il dorso della mano, ancora imbronciata, ma con le guance asciutte. Poi lasciò
emergere un sorrisetto.
«Va bene. Basta che alla fine torni sempre da me.»
Sanson scoppiò a ridere. «Ma come, adesso sono io
tuo marito? E il povero King?»
Marie gli mostrò la lingua e in un attimo scappò
dentro, verso quelle risa che risuonano sempre alla vigilia di un addio, quando
si rievocano i vecchi ricordi appena prima di lasciare spazio alla costruzione
di quelli nuovi.
Sanson si alzò e riprese la stessa posizione, gomiti
sul parapetto, occhi tra le stelle, per chiedere a un cielo tutto umano se
avrebbe mai rivisto la bimba che per prima gli aveva insegnato a essere una
persona migliore.
Parigi, 1897
Aprì gli occhi e batté le
palpebre un paio di volte. La stanza era buia, ma al chiarore della finestra
aperta sulla luna riuscì comunque a distinguere una figuretta in piedi accanto
alla porta. Represse un gemito istintivo, sostituendogli appena in tempo un
verso impastato che avrebbe voluto essere una domanda.
«Non riesco a dormire» giunse dall’ombra la vocina
di Marie.
Sanson si sollevò su un gomito e si passò una mano
sulla faccia, rimuginando – non per la prima volta – sulle colpe inammissibili
di Jean. Guardò di nuovo verso la porta e cominciò a vagliare ogni possibilità –
non era più tanto piccola da addormentarsi con un libro di favole, doveva
inventarsi qualcosa alla svelta, l’aveva
detto a Jean che stava sbagliando persona – ma la fatica di mettere in moto
il cervello gli fu risparmiata dalla vista della figuretta che chiudeva la porta,
si avvicinava al suo letto e senza tanti complimenti si accoccolava sotto le
coperte al suo fianco. La fissò, attonito.
Sentì distintamente la voce di Grandis
che gli gridava nell’orecchio qualcosa a proposito di indecenza e immoralità.
Era tutta colpa di Jean, anzi, a pensarci bene era sempre colpa di Jean. E no, una luna di
miele non era affatto una giustificazione sufficiente.
«Sanson, non
ti chiedo altro che di farle compagnia. King verrà con noi perché Nadia vuole
trovargli una compagna, e lei si annoierebbe a morte, sola nella nostra casa
piena di invenzioni incomplete e potenzialmente pericolose...»
«Ti rendi
conto che il vero problema non sono le invenzioni incomplete e potenzialmente
pericolose, ma il fatto che chiudere un’adolescente e un uomo maturo in una
casa per due mesi può sembrare una situazione disdicevole? Specie se l’uomo
maturo sono io.»
Jean aveva
riso. «Disdicevole? Marie ha appena dodici anni. È una bambina... E ha chiesto
espressamente di te.»
Sanson aveva
sputacchiato un tè che il disagio e la distrazione avevano reso troppo dolce. «Chiedilo
a Grandis. O magari a Electra. Ha già un figlio suo,
è sicuramente più pratica di me in queste cose, non osare negarlo.»
«Oh... Non ci
avevo pensato.» Jean aveva assunto un’aria sinceramente perplessa. Tipico. Grande
acume per i quadri generali, pessima attenzione sui dettagli – proprio come Hanson. «Perciò... devo dire a Marie che non hai voglia di
stare con lei?»
L’aveva
guardato con quegli occhioni tondi che l’età adulta non aveva cambiato, e
Sanson aveva pensato a quelli di Marie e si era sentito in trappola.
Era stato così improvviso e inaspettato che non si
era neppure accorto dell’oggetto che si era portata dietro fin sotto le
coperte: fu il tintinnio del metallo contro il vetro a scuoterlo dall’inerzia.
«Stai... mangiando?»
Non distingueva il suo viso, ma la sentì trattenere
il fiato.
«Marmellata di fragole» sussurrò, sollevando il
barattolo e il cucchiaino con fare colpevole; «l’ho presa in cucina, mi era
venuta fame. Ti dispiace?»
Sanson imprecò mentalmente contro Jean, di nuovo,
come aveva preso a fare ogni volta che non sapeva cosa dire a Marie. Casa sua
era piccola e disordinata, non era il posto adatto per una ragazzina... Era
piuttosto questo a dispiacergli. Lui non poteva sperare di divertirla con
incredibili macchine come Jean o Hanson, né certo con
aneddoti romantici come Grandis, né con spettacoli e
numeri di agilità come Nadia. Non aveva la pazienza di King e non possedeva la
quantità di giocattoli che ormai dovevano riempire la casa e la vita di
Electra. Eppure, Marie voleva stare con lui.
Ricadde sul cuscino con uno sbuffo. «Dormi.»
Un rumore diverso, di vetro su legno, gli disse che
Marie doveva aver abbandonato il barattolo di marmellata a un destino
solitario. La sentì muoversi ancora un po’, forse in preda all’insonnia, forse
chiedendosi cosa stessero facendo Jean e Nadia e King in quel momento. Infine, ancora
la sua voce nel buio.
«E il bacio della buonanotte?»
Già con gli occhi chiusi, Sanson si girò sul fianco
e alla cieca trovò i suoi capelli. Le posò un bacio da qualche parte tra la
fronte e il naso. Marie ridacchiò.
«Che scemo che sei, Sanson. Non si fa così.»
Il sapore di fragola lo colse del tutto impreparato –
persino la voce scandalizzata di Grandis gli arrivava
attutita, adesso. Mentre Marie gli si stringeva addosso e finalmente si
addormentava, lui restò immobile senza più alcuna traccia di sonno, a
riflettere sul fatto che a volte Jean
dimenticava che Marie aveva smesso già da molto tempo di essere una bambina.
Le Havre, 1901
Contro ogni buonsenso era tornato
a trovarla ogni anno, e ogni volta l’aveva trovata più bella e più donna. Il tempo
aveva avvolto la vivacità della ragazzina nella naturale dolcezza di una
giovane dama; non aveva la misteriosa sensualità di Nadia alla sua età, non
aveva nulla delle donne che l’avevano attratto entro i confini del suo vecchio
mondo di ladro gentiluomo – era solo la sua piccola Marie e al tempo stesso non
lo era più.
Sanson non seppe mai quale fosse stato il momento
esatto in cui si era innamorato di lei, né quando, come e perché lei si fosse
innamorata di lui. Sapeva che era così e basta.
I lunghi capelli di Marie si mescolavano all’erba e
ai fiori, il suo bel vestito si era macchiato di terra e della voglia di
correre, ma gli occhi erano fissi nei suoi, come in ascolto di tutti i suoi
pensieri.
«Potrebbe essere un errore.»
«Non me ne importa.»
«Potresti aver confuso un sentimento con un altro.»
«Non l’ho fatto.»
«Potrei essere tuo padre.»
«Non lo sei.» Marie lo prese per mano e lo accolse
nell’erba piena di sole. «Una volta ho detto a Jean che mi sarei sposata prima
di lui. Vedi di non farmi aspettare ancora.»
Sanson la baciò. Le sue labbra sapevano ancora di
fragola, il tempo non esisteva più, il mondo non era mai impazzito.
Marsiglia, 1902
La stanza in cui ogni giorno
sedeva a scrivere era la più calda e la più luminosa di tutte, anche se era lei
la luce più intensa. Lei che ogni giorno sedeva poco lontano, cantava, cuciva,
gli portava la colazione – e c’era sempre della marmellata di fragole.
«Quindi è qui che sono finite tutte le avventure che
sognavi?»
La penna tracciò un punto fermo alla fine di un
brano in cui un uomo e una bambina sfrecciavano lungo una fila di binari a
bordo di un vecchio carrello, verso un orizzonte ancora da scoprire. L’uomo
chiuse il libro, si stiracchiò e abbracciò sua moglie alla vita, per sentire il
calore del suo ventre direttamente sulla guancia.
«Di cosa stai parlando? Le sto ancora vivendo. Sono così
tante che è tempo di raccontarle tutte...»