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Autore: _blueebird    12/05/2013    6 recensioni
Ci vogliono pochi minuti per leggerla e altrettanti per innamorarti di loro.
Camille, una sedicenne che lotta tutti i giorni per rimanere a galla in una società di pregiudizi, ingiustizie e in continua lotta con la sua timidezza e con i suoi problemi, si innamora. Tra i banchi di scuola, tra gli amici veri e le cattiverie, troverà l'amore che la porterà a crescere, a soffrire e a combattere i suoi demoni.
Una storia che vi prenderà e che vi scalderà il cuore.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Non ci misi molto a prendere coscienza dei sentimenti che provavo per Francesco.
Nei giorni successivi alla rissa e al nostro bacio sulle scale del condominio, avevamo passato insieme tutti i pomeriggi, tra lo studio, la biblioteca e le polverose poltrone del cinema, che dopo mezzanotte costava solo qualche euro.
Ormai era la fine di un maggio lunghissimo e denso di giornate uggiose, di verifiche pesanti e di serate consumate a mangiare pop corn al burro e bere thè alla pesca. E più rimanevamo lì, a pochi centimetri l’uno dall’altra, più passavo le notti insonni a pensare al suo volto, alle risate e alla violet carson che mi aveva regalato, che si appassiva piano piano nel vaso ricolmo d’acqua sul comodino.
La verità era che mi stavo innamorando di lui.
Inesorabilmente, impercettibilmente, diventavo sempre più consapevole e presa da quel ragazzo dagli occhi e dai capelli nerissimi, dalla bocca carnosa color fragola e dai denti avorio.
E lui amava me. Come in uno dei libri più romantici o come nei film strappalacrime dove i protagonisti finalmente possono stare insieme e provano un amore così forte da spaccare le pietre e formare buchi neri, anche io potevo dire di sapere cosa si provava. Cosa significava essere davvero felici.
Così decidemmo di non dirlo a nessuno, come se dicendolo avessimo condiviso il nostro amore, l’uno dell’altra anche con gli altri. Eravamo terribilmente egoisti, ma forse era l’idea migliore.
Ci incontravamo di nascosto nel cortile dietro alla palestra della scuola per baciarci, nell’aula di fisica e nella sala conferenze dietro all’armadietto. Mi imbarazzava da morire, ma mi eccitava altrettanto violentemente.
Quegli sguardi furtivi che ci lanciavamo in corridoio, divisi dalla folla di studenti, sembravano privi di significato per tutti. Ma non per noi due.
Lo avevo detto solo a Tamara.
Quando mi ero recata a casa sua – assicurandomi che non ci fosse Gian Marco -  per dirglielo, aveva fatto un gridolino acuto e aveva fatto cigolare tutto il letto su cui era seduta. Mi aveva tartassata di domande e non la smetteva di arrossire e di verseggiare nel momento che le descrivevo dei nostri piccoli sotterfugi.
A parte le scenate nevrotiche da appassionata di libri rosa, mi sembrava maturata molto dopo la disastrosa relazione, se così si poteva chiamare, con il bufalo dai capelli castani.
Aveva assunto un’ aria di chi sa ciò che vuole e sembrava perfino che fosse diventata più sicura di quanto non lo fosse stata prima; inoltre il nuovo taglio di capelli le aveva dato una ventata di freschezza e di sensualità che le avrebbe sicuramente giovato.
Un semplice taglio per cambiare noi stesse, per eliminare il nostro passato e guardare il faccia al futuro. Noi donne siamo così, nel bene e nel male.
Anche mia mamma era allo scuro di tutto, anche perché non sapevo bene come o cosa dirgli. Mi sentivo come quando compri una costosa macchina con la carta di credito dei tuoi a loro insaputa, contando i giorni in cui lo vengano palesemente a scoprire. Mi si leggeva in faccia che ero felice quindi o mia mamma era diventata miope tutto d’un colpo o era troppo stanca per accorgersene. Probabilmente era la seconda.
Andava tutto, fin troppo bene.
 
“Oh Jack, dipingimi come una delle tue ragazze francesi.” Gli dissi mentre mi ero coricata a sul pavimento dello studio mentre lo guardavo stendere il colore sulla tela. Rise forte e poi picchiettò il sottile pennello su della tempera grigia e tornò a concentrarsi sul quadro.
“Quand’è che mi insegni a disegnare?” Gli chiesi dopo qualche minuto di silenzio.
“Tu sei solo la mia musa, non devi fare altro che ispirarmi. Al resto ci penso io.” Disse tornando a stendere il colore sul dipinto.
“Cosa dovrei fare per ispirarti?” Gli domandai.
Mi misi a pancia in su e le mani in grembo ad osservare le foto che penzolavano leggere dal soffitto. Sentivo il freddo delle piastrelle invadermi tutta la zona a contatto con esse ma non mi importava. “Mi basta che respiri. A me basta che tu sia solo qui con me per ispirare il mio mondo.”
Mi alzai in piedi e mi avvicinai a lui. Sulla tela ancora incompleta si potevano notare due ragazzi abbracciati sotto la pioggia scura, protetti da un ombrello rosso. L’unica nota di colore del dipinto.
Mi sentii male perché mi resi conto solo in quel momento cosa era significato per lui quell’abbraccio, quell’istante. “Ti piace?” Mi chiese sorridendomi. “Come si chiama?”. “Non lo so, non ci ho ancora pensato.”
Gli avvolsi le braccia intorno al collo, intrecciando le mie dita in mezzo ai suoi capelli e lo strinsi forte a me, facendo congiungere le mie labbra con le sue. Un bacio paradisiaco, morbido e intenso.
Bramavo le sue labbra come lui bramava le mie. Una sua mano nell’incavo poco sopra il sedere e l’avambraccio dell’altra che mi avvolgeva la schiena, cercando di evitare di sporcarmi la maglia e i capelli con la pittura sul pennello.
Ci staccammo di malavoglia dopo un po’, per riprendere fiato.
“Pioggia?” Chiesi. “Mmh… banale.” Mi diede un altro lieve bacio.
“Ombrello scarlatto.” Provai di nuovo. Rise forte. “Troppo scontato” Un altro ancora.
“Pianto nero.” Si scostò un poco dal mio viso. “Non male. Davvero. Anche se volevo esprimere un sentimento diverso… ma non male.” Un terzo bacio.
 
Sbadigliai violentemente. L’aria ancora fredda di maggio mi faceva pizzicare gli occhi che lacrimavano incessantemente e non vedevo l’ora di tornare a casa. Ero un po’ stanca, anche se non avevo fatto un gran che; il mio unico pensiero era quello entrare in salotto, stendermi sul lungo divano in pelle nera e guardare stronzate in tv, mangiando schifezze.
Astrassi il telefono dalla tasca del giubbino e guardai l’ora. Era presto, di sicuro mamma non era ancora arrivata a casa.
Entrai in velocità nella mia via.
Le villette immobili piantate a terra venivano illuminate dalla luce rossastra del crepuscolo, increspate dalla mia ombra nera che scorreva sui muri, insieme a quella delle fronde degli alberi che squassavano in balia del vento.
Entrai nel vialetto e frenai la bici. Strinsi gli occhi e digrignai i denti: “Ma che diavolo…”. Una macchina tedesca, lucida e nera era parcheggiata davanti a casa. Non l’avevo mai vista prima.
Parcheggiai la bicicletta davanti al garage e poco prima di riuscire ad avviarmi alla porta di casa, essa si aprì facendo uscire due uomini in giacca e cravatta che stavano discutendo. Dopo poco uno di loro mi notò.
“Oh, signorina Van Housen, buonasera. Stavamo cercando proprio lei.” Disse lui con un accento tipicamente nord europeo.
Era molto alto, probabilmente quasi due metri, il viso quadrato e duro, il naso aquilino e gli occhi molto chiari. Di sicuro non era italiano. “Buonasera, posso sapere chi siete voi e che ci fate in casa mia?” Chiesi alquanto irritata, avvicinandomi ai due uomini.
“Siamo qui per lei, signorina.” Aggiunse poi l’uomo. Solo allora mi accorsi di un borsone che stringeva in pugno penzolargli dalle mani. Non capivo.
Indietreggiai. “Ma che diavolo sta succedendo?” Sentivo ogni mia singola vena irrorarsi di sangue e cominciai ad avere paura. Chi erano quegli uomini? E cosa ci facevano in casa mia?
“Non si preoccupi, signorina Van Housen, non le succederà niente.” Disse l’altro uomo in giacca e cravatta afferrandomi un polso dopo essersi avvicinati a me. Era più basso dell’altro e moro con gli occhi verdi. Questo era italiano.
“Dannazione! C-chi siete? Cosa volete da me? E lei mi tolga le mani di dosso!” Urlai fuori di me. Volevo delle spiegazioni. E subito.
“Non dovresti urlare così Camille. Nessuno ti ha insegnato le buone educazioni?” Disse una voce aimè molto familiare. Uscì dalla porta guardandomi fissa negli occhi.
Papà.
 
“Papà… tu… cosa ci fai qui?” Chiesi. Non sapevo se fossi più arrabbiata o schioccata dopo averlo visto. Di sicuro volevo prenderlo a pugni, questa era la mia unica certezza.
“Sono venuto a prenderti, Camille.”
“COSA? Mi stai prendendo in giro?” Mi sembrava di vivere un sogno, anzi un vero e proprio incubo. Non sapevo se credere seriamente alla scena che stavo vedendo oppure fingere che tutto questo fosse semplicemente irreale, frutto di una mia fantasia. Ma sapevo già che quello che stavo vivendo era la pura realtà.
“No. Ho pensavo sul serio alle parole che mi hai detto quel giorno, quando ho dovuto ripartire nuovamente. La tua solitudine Camille. Non sono stato un bravo padre in tutti questi anni… ma è ora di rimediare. E’ ora di prendermi le mie responsabilità e di rimediare agli errori passati.”
 
“E’ tardi!” Gridai. Lo osservai trasalire, ma il suo visto tornò velocemente come prima, tanto che mi chiesi se aveva avuto veramente quell’espressione smarrita sul volto, un attimo prima.
Non fa niente. Carl, metti la borsa in macchina.” Disse all’uomo altro facendogli un canno. Questo annuì, affrettandosi ad aprire il bagagliaio dell’auto.
Avevo davvero un terribile presentimento. La sensazione che quella borsa non contenesse i vestiti di mio padre.
Indietreggiai e poi mi voltai di scatto, pronta per raggiungere la bicicletta, ma l’uomo moro, che aveva previsto una possibile fuga mi afferrò saldamente per le braccia e poi mi sorrise. Un sorriso falso e meccanico.
“Signorina, adesso deve venire con noi.”
“No!” urlai cercando di divincolarmi, ma la presa dell’uomo era troppo forte e mi indirizzò con facilità verso la macchina. “Lasciatemi stare! Che cazzo state facendo! Se mia madre lo verrà a sapere…”
“Quando lo verrà a sapere sarà troppo tardi.” Si affrettò ad aggiungere mio padre, completando la frase ma non nel modo in cui volevo io. Un lieve sorriso gli increspava le labbra. “Dopotutto sei mai figlia. Non potrà fare nulla per impedirlo.”
“Sei un fottuto pezzo di merda! Lasciami andare!” Urlai, cercando di divincolarmi con più forza. L’uomo dai capelli scuri mi spinse nella macchina nera parcheggiata nel vialetto e poi lasciò che l’altro uomo altro si sedesse vicino a me, nei sedili posteriori.
 
Si sedettero tutti in macchina, l’uomo moro al posto di guida; dopo aver introdotto la chiave nel cruscotto si affrettò ad uscire in retromarcia. La mia bici era ancora là, davanti al garage di casa.
 
“Allora, si può sapere dove mi state portando?” Chiesi con un filo di voce.
“Pensavo che sarebbe stata una bella idea tornare dai nonni. Insomma, dopotutto da quando è che non li vedi, 10 anni? Hanno una casa davvero graziosa in cui stare.” Rispose mio padre senza voltarsi.
Sul parabrezza, l’ombra degli alberi scorreva veloce, simili a mani, tentavano di frenare la folle corsa dell’auto, impedire che si muovesse. Ma ancora una volta l’egoismo degli uomini era stato più forte.
“I nonni? Quei nonni? Stai-stai scherzando?” Ero completamente distrutta. Sbiancai tra la pelle nera dei sedili nell’auto.
Rise piano e poi si voltò a guardarmi, tornando poi a sprofondare nel suo sedile.
“Questo è il suo biglietto signorina.” Aggiunse l’uomo vicino a me porgendomi un biglietto d’aereo.
Utrecht.
 
Utrecht.
Utrecht.
Utrecht.
 

Rimasi per tutto il tragitto a fissare fuori dal finestrino. Pensai a mia madre, agli ombrelli rossi e ai ragazzi che si abbracciano sotto alla pioggia.
A una rosa su un comodino, che in una stanza tetra sfioriva e perdeva i petali, silenziosa. Senza fare rumore.
 






*Angolo dell'autore*
Questo capiloto avrei dovuto chiamarlo "Pezzo di merda" ma ho cambiato idea. Diciamo che era il nome più azzeccato per descriverlo.
La prima parte è un po' il sommario degli ultimi avvenimenti (ho ritenuto che fosse superfluo fare un capitolo su i loro comportamenti a scuola, anche se adesso che ci penso, probabilmente, se lo avessi scritto, sarebbe saltato fuori qualche cosa di intrigante... ma non fa ninete :3).
Il pezzo fondamentale è, come avete sicuramente immaginato, il secondo. 
La partenza. Beh. Diciamo che
 ho architettato questa cosa vari capitoli fa, ma non ho mai pensato a come farla tornare a casa.
SE TORNERA' A CASA.

Hahahahaha aspettatevi un sacco di colpi di scena, perchè ce ne saranno. Yo.
-Sel-

 
  
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