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Autore: francy91    02/12/2007    11 recensioni
Ambientata nella Seconda Guerra Mondiale, un amore saffico ispirato alla canzone "Cade la pioggia" di Negramaro ft. Jovanotti.
Leggete, se non pensate che possa turbarvi.
Genere: Drammatico, Erotico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Sentivo la pioggia tintinnare, ticchettare, rimbombare nella mia testa. L’aria viziata della nostra camera aveva assunto un odore autunnale, indeciso e funereo.

Mia madre ripeteva costantemente questa frase prima che si disperdesse nell’aria in un fumo biancastro, prima che i suoi capelli riempissero i cuscini morbidi e agiati dove anonime anime dalla chioma aurea e dagli occhi cerulei posavano le loro teste sicure, prima che le parti più intrinseche e carnali di lei diventassero profumate essenze con cui i bambini lavavano le loro innocenti mani: “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, Friederike. Probabilmente ora non mi ascolti, ma capirai, bimba mia. Un giorno capirai”, Patetica, inclita, reale. L’hai avuta vinta tu, mamma. Hai ragione. Ecco, era questo che volevi sentire? Ebbene sì, hai ragione.

In quel preciso momento una lacrima serpeggiò tra le mie ciglia, cercò con veemenza un passaggio… e lo trovò. Sfociò sulla mia guancia diafana, fragile. La mia pelle, come cartone, diventava sempre più morbida e friabile sotto quella solitaria ma corrosiva lacrima.

Stava passando novembre, con la sua fredda aria di superiorità, con la sua altezzosità, con la sua triste ambizione che suscitava quasi pietà. Era quasi Natale… Carmen mi aveva promesso che s Natale saremmo finalmente andate via dal nostro rifugio nel retro della biblioteca abbandonata. Così aveva detto:

“Amore, non ce la faccio più a stare sul filo del rasoio. Ormai siamo qui da due anni e mezzo, ci verrà un cancro ai polmoni con tutta questa polvere. E a me piacciono i tuoi polmoni, cara”, aveva terminato con uno sguardo malizioso. Io le avevo sorriso e lei aveva continuato:

“Andremo a Vienna… o in Italia. Dicono che a breve verranno gli Americani a liberarla. O forse è troppo pericoloso… Andremo in Islanda, a questo punto. Che ne pensi? Dicono che nevichi spesso lì e dato che tu adori la neve… Insomma, penso che l’idea ti piaccia”, aveva constatato analizzando ogni minima reazione che il mio viso esprimeva. Avevo annuito e l’avevo baciata.

E ora mancava meno di un mese a Natale.

I'm dreaming of a white Christmas
Just like the ones I used to know.
Where the treetops glisten,
And children listen
To hear sleigh bells in the snow.
I'm dreaming of a white Christmas
With every Christmas card I write.
May your days be merry and bright.
And may all your Christmases be white.

Così aveva cantata Bing Crosby l’anno prima, il 1942. Così dolci quelle note… La prima volta che la sentii fu attraverso le pareti del nostro rifugio (ogni cosa che percepivo dal mondo esterno era filtrata dalle polverose, spesse, protettrici pareti del nostro rifugio). Era stata la voce di Wolfdietrich a trapassare i muri e il mio cuore. Dolorosamente. Irrimediabilmente. Era metà dicembre e lui era il calzolaio del piccolo villaggio di Enge, vicino a Dortmund, dove io e Carmen ci eravamo rifugiate. Vagava per la strada, sconsolato e piangente, tenendo in braccio la figlioletta Fey, morta a sette anni, deflorata da un disertore dell’esercito tedesco che, per scampare la morte che sicuramente gli avrebbero inflitto i comandanti della sua sezione, si era rifugiato a Enge. La bimbetta giaceva fra le braccia del padre, fredda, umida, altisonante nel silenzio della vigilia di Natale del 1942. E Wolfdietrich, il suo papà, la cullava, la guidava verso il Paradiso con la sua amata canzone natalizia. Fey…

Sentii all’improvviso un tocco leggero all’altezza della nuca, delicato, leggiadro e velato come una striscia dolce, cotonata e candida nel cielo azzurro: Carmen mi si era avvicinata e mi abbracciava da dietro con la testa poggiata di lato sulla mia nuca.

Eravamo sulla soglia della nostra vita e del nostro amore peccaminoso ed omogeneo, lo sapevamo entrambe. Lesbiche ed ebree, una vera e propria delizia per le SS. Senza dubbio. Ed era per questo che Joseph, cinque minuti prima, dopo aver scoperto il nostro nascondiglio, si era precipitato a cercare qualche ufficiale tedesco nullafacente che avesse bisogno di due belle lesbiche da stuprare e da trucidare. E poi? E poi il treno, ovviamente. Il famoso, leggendario treno di cui le poche persone che conoscevamo ci avevano parlato. Quello che ci avrebbe portate all’Inferno, come dicevano alcuni, o al Paradiso, come dicevano altri. Fatto sta che né io né Carmen saremmo volute salire su quel treno.

Comunque, Joseph, famoso come l’unico della città ad avere soldi per comprarsi sigari almeno tre volte a settimana, aveva scoperto la nostra esistenza. Ormai la fine era vicinissima, mancavano pochi minuti. Calcolando, cinque erano già passati e probabilmente non ci voleva molto per trovare un ufficiale disposto a fare carneficina; dieci minuti per ritrovare la strada, dato che il nostro rifugio era al centro di un’infinita intersecazione di baracche; e poi… magari cinque minuti per il senso di colpa e il pentimento.

Intanto avevo già cominciato a baciare Carmen.

“Perché non possiamo essere felici? Ce lo meritiamo, insomma…”, le chiesi mentre le mie labbra sfioravano le sue, In mente mi sovvenne una melodia strana… Non avrei saputo interpretarla.

Congiunse ancora le sue labbra livide con le mie e mi rispose con una punta di amarezza:

“Frie, tu pretendi troppo dalla vita”.

“Il giusto, solo questo”, sussurrai contro il suo orecchio, abbracciandola.

Lei mi scostò delicatamente e mi prese la mano. Cominciò a condurmi verso la porta ormai distrutta da Joseph.

“Vuoi scappare?”, le chiesi eccitata e speranzosa. Non ero disperata per il fatto che probabilmente il futuro immediato mi aspettava, bruciante e soffocante. Carmen però sembrava turbata e agitata. La capivo benissimo, ma io proprio non riuscivo a rendermi conto di ciò che stesse accadendo. Forse era meglio così.

“No, sciocca. Ci troverebbero ovunque, anche, che so, sulla Luna”. Sulla Luna! Magari… Ormai era l’unico posto su cui l’uomo non avesse partorito morte e distruzione… E speravo che rimanesse sempre vergine, che non conoscesse mai l’orma umana.

“E allora perché stiamo andando fuori?”, domandai con voce quasi ingenua.

“Se proprio dobbiamo morire”, l’uso del plurale mi rassicurò, in un certo senso, “preferisco essere pura e non sporca in quel momento e so che lo vorresti anche tu”. Parlò con un velo di rassegnazione e di soddisfazione.

L’aria era fresca, nuova, vitale rispetto allo strazio del rifugio. La pioggia cadeva come se Dio dal cielo sputasse acqua santa su tutti noi. Su noi due. Faceva freddo, ma non m’importava. Avevo capito cosa avrebbe voluto fare Carmen e aveva tutto il mio appoggio. Giungemmo, dopo due o tre svolte, alla strada principale della piccola Enge. Mi sarebbe mancata un po’, ma non ci pensai.

Quello era il giorno del mercato, il martedì, e la via era affollata, per quanto possa essere affollato un piccolo villaggio. Ormai il mercato si svolgeva solo una volta al mese anziché una a settimana a causa della mancanza di merce.

Ci posizionammo al centro della strada, una di fronte all’altra, pochi centimetri fra noi. I suoi occhi neri non erano vigili come al solito, né mobili o irraggiungibili: erano fissi su di me, ero al centro dei suoi pensieri e più nulla aveva importanza a parte questa rivelazione. Le sorrisi rassicurante e lei fece un cenno col capo. Ci avvicinammo contemporaneamente e… ci baciammo.

Le sue labbra screpolate graffiarono le mie con un effetto estremamente piacevole. I nostri occhi erano chiusi, la mia mente era alta, alta, alta. Il mio corpo era troppo limitato per ospitare tutto l’amore che provavo per lei. Carmen, il mio canto.

La pioggia ci bagnava completamente e ci benediva, mentre presso le bancarelle poste sotto i balconi pericolanti la gente probabilmente ci fissava. Tanto meglio.

Le mie braccia circondarono la vita della mia Madonna e le sue accarezzarono i miei capelli, poi il mio collo scendendo in una forma a V. Mi strappò con due o tre strattoni quella parvenza di maglione che portavo e io feci lo stesso con la sua leggera camicia di cotone. Eravamo mezze nude nel centro del mercato. Niente vergogna, niente imbarazzo. La solita confusione si era acquietata, ma non era del tutto terminata: c’era un brusio sommesso e oppressivo.

Carmen staccò la bocca dalla mia; il suo viso era così solare nella pioggia, così raggiante. Mi baciò la pelle dietro l’orecchio e poi tornò avanti, mentre già un desiderio delizioso e distruttivo serpeggiava nei meandri della mia mente e del mio corpo. La fermai e contemplai il suo corpo un po’ rotondetto, il suo seno tondo e morbido che sembrava quasi sorridermi. Affondai il viso in quel caldo e sicuro riparo, baciandola dolcemente. Lei intanto mi accarezzava la schiena, sensuale e delicata.

Non mi interessava ciò che stesse accadendo intorno a noi: c’eravamo solo io, lei e la pioggia.

Arrivata alla pancia le tolsi anche gli indumenti strappati che le coprivano la parte inferiore del suo bel corpo. Lei mi fece stendere a terra e sfilò anche i miei vestiti.

“Ti amo”, sussurrò piano al mio orecchio. E lì, nel fango, nacque il Paradiso.

“Ti amo anch’io”, mormorai con le lacrime agli occhi per la felicità. Quindi mi fece aprire le gambe e si concentrò sulla parte più sensibile di me…

Raggiunsi il culmine del piacere dopo pochissimo tempo: tutto, se fatto essendo consapevoli che è l’ultima volta, è più bello e vivido. Non cercai di fermare i gemiti come facevo di solito, non provai a controllare gli ansiti e l’espressione sognante che mi appariva sul viso ogni volta che facevamo l’amore. La pioggia avrebbe lavato tutto… o forse l’avrebbe sporcato ancora di più.

Volevo viverla fino alla fine, fino a quando la pioggia non fosse più caduta, fin quando il fuoco potesse essere estinto.

Finalmente attorno a noi avvertii il silenzio. Non voltai la testa, ma percepii gli occhi di tutti addosso a noi.

Poi un grido, un anziano che urlava:

“Arrivano le SS!”.

Non pensavo sarebbero arrivati così presto. Probabilmente avevo fatto male i conti… niente senso di colpa, lo sapevo. Avrei dovuto immaginarlo. Il settimo giorno Dio avrebbe dovuto creare il pentimento.

Fu come un lampo, un tuono e uno sbattito d’ali: la confusione fu totale. Tutti corsero per raggiungere le proprie case, fredde, glaciali.

Io e Carmen restammo nel fango.

“Quando morirò, voglio diventare fango”, bisbigliai mentre lei mi baciava la clavicola.

“E io voglio essere pioggia, così cadrò su di te dolcemente e quando ci sarò io ci sarai sempre tu. Farò l’amore con te per tutta l’eternità. Sarò pioggia sporca”.

La mia pelle è carta bianca per il tuo racconto
scrivi tu la fine
io sono pronto
non voglio stare sulla soglia della nostra vita
guardare che è finita
nuvole che passano e scaricano pioggia come sassi
e ad ogni passo noi dimentichiamo i nostri passi
la strada che noi abbiamo fatto insieme
gettando sulla pietra il nostro seme
a ucciderci a ogni notte con rabbia
gocce di pioggia calde sulla sabbia
amore, amore mio
questa passione passata come fame ad un leone
dopo che ha divorato la sua preda e abbandonato le ossa agli avvoltoi
tu non ricordi ma eravamo noi
noi due abbracciati fermi nella pioggia
mentre tutti correvano al riparo
e il nostro amore è polvere da sparo
e il tuono è solo un battito di cuore
e il lampo illumina senza rumore
e la mia pelle è carta bianca per il tuo racconto
ma scrivi tu la fine
io sono pronto

(“Cade la pioggia”, Negramaro feat. Jovanotti)

Ciao lettore. Probabilmente penserai che è una storia ridicola.

Sono d’accordo.

Ma ciò non significa che questa storia non sia vera. Persino la vita è ridicola, non sei d’accordo?

Ma caro lettore, scrivi tu la fine, io sono pronta.

Per Faffy: quello che ho pensato non era esattamente così, dato che sull’agenda si esauriva in tre righi. Spero che la tua attesa sia valsa a qualcosa, ti voglio bene.

Francy

   
 
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