Sentivo la pioggia tintinnare, ticchettare, rimbombare nella mia testa. L’aria
viziata della nostra camera aveva assunto un odore autunnale, indeciso e
funereo.
Mia madre ripeteva costantemente questa frase prima che si disperdesse nell’aria
in un fumo biancastro, prima che i suoi capelli riempissero i cuscini morbidi e
agiati dove anonime anime dalla chioma aurea e dagli occhi cerulei posavano le
loro teste sicure, prima che le parti più intrinseche e carnali di lei
diventassero profumate essenze con cui i bambini lavavano le loro innocenti
mani: “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, Friederike. Probabilmente ora
non mi ascolti, ma capirai, bimba mia. Un giorno capirai”, Patetica, inclita,
reale. L’hai avuta vinta tu, mamma. Hai ragione. Ecco, era questo che volevi
sentire? Ebbene sì, hai ragione.
In quel preciso momento una lacrima serpeggiò tra le mie ciglia, cercò con
veemenza un passaggio… e lo trovò. Sfociò sulla mia guancia diafana, fragile. La
mia pelle, come cartone, diventava sempre più morbida e friabile sotto quella
solitaria ma corrosiva lacrima.
Stava passando novembre, con la sua fredda aria di superiorità, con la sua
altezzosità, con la sua triste ambizione che suscitava quasi pietà. Era quasi
Natale… Carmen mi aveva promesso che s Natale saremmo finalmente andate via dal
nostro rifugio nel retro della biblioteca abbandonata. Così aveva detto:
“Amore, non ce la faccio più a stare sul filo del rasoio. Ormai siamo qui da due
anni e mezzo, ci verrà un cancro ai polmoni con tutta questa polvere. E a me
piacciono i tuoi polmoni, cara”, aveva
terminato con uno sguardo malizioso. Io le avevo sorriso e lei aveva continuato:
“Andremo a Vienna… o in Italia. Dicono che a breve verranno gli Americani a
liberarla. O forse è troppo pericoloso… Andremo in Islanda, a questo punto. Che
ne pensi? Dicono che nevichi spesso lì e dato che tu adori la neve… Insomma,
penso che l’idea ti piaccia”, aveva constatato analizzando ogni minima reazione
che il mio viso esprimeva. Avevo annuito e l’avevo baciata.
E ora mancava meno di un mese a Natale.
I'm dreaming of
a white Christmas
Just like the ones I used to know.
Where the treetops glisten,
And children listen
To hear sleigh bells in the snow.
I'm dreaming of a white Christmas
With every Christmas card I write.
May your days be merry and bright.
And may all your Christmases be white.
Così aveva cantata Bing Crosby l’anno
prima, il 1942. Così dolci quelle note… La prima volta che la sentii fu
attraverso le pareti del nostro rifugio (ogni cosa che percepivo dal mondo
esterno era filtrata dalle polverose, spesse, protettrici pareti del nostro
rifugio). Era stata la voce di
Wolfdietrich a trapassare i muri e il mio cuore. Dolorosamente.
Irrimediabilmente. Era metà dicembre e lui era il calzolaio del piccolo
villaggio di Enge, vicino a Dortmund, dove io e Carmen ci eravamo rifugiate.
Vagava per la strada, sconsolato e piangente, tenendo in braccio la figlioletta
Fey, morta a sette anni, deflorata da un disertore dell’esercito tedesco che,
per scampare la morte che sicuramente gli avrebbero inflitto i comandanti della
sua sezione, si era rifugiato a Enge. La bimbetta giaceva fra le braccia del
padre, fredda, umida, altisonante nel silenzio della vigilia di Natale del 1942.
E Wolfdietrich, il suo papà, la cullava, la guidava verso il Paradiso con la sua
amata canzone natalizia. Fey…
Sentii all’improvviso un tocco leggero all’altezza
della nuca, delicato, leggiadro e velato come una striscia dolce, cotonata e
candida nel cielo azzurro: Carmen mi si era avvicinata e mi abbracciava da
dietro con la testa poggiata di lato sulla mia nuca.
Eravamo sulla soglia della nostra vita e del nostro
amore peccaminoso ed omogeneo, lo sapevamo entrambe. Lesbiche ed ebree, una vera
e propria delizia per le SS. Senza dubbio. Ed era per questo che Joseph, cinque
minuti prima, dopo aver scoperto il nostro nascondiglio, si era precipitato a
cercare qualche ufficiale tedesco nullafacente che avesse bisogno di due belle
lesbiche da stuprare e da trucidare. E poi? E poi il treno, ovviamente.
Il famoso, leggendario treno di cui le poche persone che conoscevamo ci avevano
parlato. Quello che ci avrebbe portate all’Inferno, come dicevano alcuni, o al
Paradiso, come dicevano altri. Fatto sta che né io né Carmen saremmo volute
salire su quel treno.
Comunque, Joseph, famoso come l’unico della città ad
avere soldi per comprarsi sigari almeno tre volte a settimana, aveva scoperto la
nostra esistenza. Ormai la fine era vicinissima, mancavano pochi minuti.
Calcolando, cinque erano già passati e probabilmente non ci voleva molto per
trovare un ufficiale disposto a fare carneficina; dieci minuti per ritrovare la
strada, dato che il nostro rifugio era al centro di un’infinita intersecazione
di baracche; e poi… magari cinque minuti per il senso di colpa e il pentimento.
Intanto avevo già cominciato a baciare Carmen.
“Perché non possiamo essere felici? Ce lo meritiamo,
insomma…”, le chiesi mentre le mie labbra sfioravano le sue, In mente mi
sovvenne una melodia strana… Non avrei saputo interpretarla.
Congiunse ancora le sue labbra livide con le mie e mi
rispose con una punta di amarezza:
“Frie, tu pretendi troppo dalla vita”.
“Il giusto, solo questo”, sussurrai contro il suo
orecchio, abbracciandola.
Lei mi scostò delicatamente e mi prese la mano.
Cominciò a condurmi verso la porta ormai distrutta da Joseph.
“Vuoi scappare?”, le chiesi eccitata e speranzosa.
Non ero disperata per il fatto che probabilmente il futuro immediato mi
aspettava, bruciante e soffocante. Carmen però sembrava turbata e agitata. La
capivo benissimo, ma io proprio non riuscivo a rendermi conto di ciò che stesse
accadendo. Forse era meglio così.
“No, sciocca. Ci troverebbero ovunque, anche, che so,
sulla Luna”. Sulla Luna! Magari… Ormai era l’unico posto su cui l’uomo non
avesse partorito morte e distruzione… E speravo che rimanesse sempre vergine,
che non conoscesse mai l’orma umana.
“E allora perché stiamo andando fuori?”, domandai con
voce quasi ingenua.
“Se proprio dobbiamo morire”, l’uso del plurale mi
rassicurò, in un certo senso, “preferisco essere pura e non sporca in quel
momento e so che lo vorresti anche tu”. Parlò con un velo di rassegnazione e di
soddisfazione.
L’aria era fresca, nuova,
vitale rispetto allo strazio del rifugio. La pioggia cadeva come se
Dio dal cielo sputasse acqua santa su tutti noi. Su noi due. Faceva freddo, ma
non m’importava. Avevo capito cosa avrebbe voluto fare Carmen e aveva tutto il
mio appoggio. Giungemmo, dopo due o tre svolte, alla strada principale della
piccola Enge. Mi sarebbe mancata un po’, ma non ci pensai.
Quello era il giorno del mercato, il martedì, e la
via era affollata, per quanto possa essere affollato un piccolo villaggio. Ormai
il mercato si svolgeva solo una volta al mese anziché una a settimana a causa
della mancanza di merce.
Ci posizionammo al centro della strada, una di fronte
all’altra, pochi centimetri fra noi. I suoi occhi neri non erano vigili come al
solito, né mobili o irraggiungibili: erano fissi su di me, ero al centro dei
suoi pensieri e più nulla aveva importanza a parte questa rivelazione. Le
sorrisi rassicurante e lei fece un cenno col capo. Ci avvicinammo
contemporaneamente e… ci baciammo.
Le sue labbra screpolate graffiarono le mie con un
effetto estremamente piacevole. I nostri occhi erano chiusi, la mia mente era
alta, alta, alta. Il mio corpo era troppo limitato per ospitare tutto l’amore
che provavo per lei. Carmen, il mio canto.
La pioggia ci bagnava completamente e ci benediva,
mentre presso le bancarelle poste sotto i balconi pericolanti la gente
probabilmente ci fissava. Tanto meglio.
Le mie braccia circondarono la vita della mia Madonna
e le sue accarezzarono i miei capelli, poi il mio collo scendendo in una forma a
V. Mi strappò con due o tre strattoni quella parvenza di maglione che portavo e
io feci lo stesso con la sua leggera camicia di cotone. Eravamo mezze nude nel
centro del mercato. Niente vergogna, niente imbarazzo. La solita confusione si
era acquietata, ma non era del tutto terminata: c’era un brusio sommesso e
oppressivo.
Carmen staccò la bocca dalla mia; il suo viso era
così solare nella pioggia, così raggiante. Mi baciò la pelle dietro l’orecchio e
poi tornò avanti, mentre già un desiderio delizioso e distruttivo serpeggiava
nei meandri della mia mente e del mio corpo. La fermai e contemplai il suo corpo
un po’ rotondetto, il suo seno tondo e morbido che sembrava quasi sorridermi.
Affondai il viso in quel caldo e sicuro riparo, baciandola dolcemente. Lei
intanto mi accarezzava la schiena, sensuale e delicata.
Non mi interessava ciò che stesse accadendo intorno a
noi: c’eravamo solo io, lei e la pioggia.
Arrivata alla pancia le tolsi anche gli indumenti
strappati che le coprivano la parte inferiore del suo bel corpo. Lei mi fece
stendere a terra e sfilò anche i miei vestiti.
“Ti amo”, sussurrò piano al mio orecchio. E lì, nel
fango, nacque il Paradiso.
“Ti amo anch’io”, mormorai con le lacrime agli occhi
per la felicità. Quindi mi fece aprire le gambe e si concentrò sulla parte più
sensibile di me…
Raggiunsi il culmine del piacere dopo pochissimo
tempo: tutto, se fatto essendo consapevoli che è l’ultima volta, è più bello e
vivido. Non cercai di fermare i gemiti come facevo di solito, non provai a
controllare gli ansiti e l’espressione sognante che mi appariva sul viso ogni
volta che facevamo l’amore. La pioggia avrebbe lavato tutto… o forse l’avrebbe
sporcato ancora di più.
Volevo viverla fino alla fine, fino a quando la
pioggia non fosse più caduta, fin quando il fuoco potesse essere estinto.
Finalmente attorno a noi avvertii il silenzio. Non
voltai la testa, ma percepii gli occhi di tutti addosso a noi.
Poi un grido, un anziano che urlava:
“Arrivano le SS!”.
Non pensavo sarebbero arrivati così presto.
Probabilmente avevo fatto male i conti… niente senso di colpa, lo sapevo. Avrei
dovuto immaginarlo. Il settimo giorno Dio avrebbe dovuto creare il pentimento.
Fu come un lampo, un tuono e uno sbattito d’ali: la
confusione fu totale. Tutti corsero per raggiungere le proprie case, fredde,
glaciali.
Io e Carmen restammo nel fango.
“Quando morirò, voglio diventare fango”, bisbigliai
mentre lei mi baciava la clavicola.
“E io voglio essere pioggia, così cadrò su di te
dolcemente e quando ci sarò io ci sarai sempre tu. Farò l’amore con te per tutta
l’eternità. Sarò pioggia sporca”.
La mia
pelle è carta bianca per il tuo racconto
scrivi tu la fine
io sono pronto
non voglio stare sulla soglia della nostra vita
guardare che è finita
nuvole che passano e scaricano pioggia come sassi
e ad ogni passo noi dimentichiamo i nostri passi
la strada che noi abbiamo fatto insieme
gettando sulla pietra il nostro seme
a ucciderci a ogni notte con rabbia
gocce di pioggia calde sulla sabbia
amore, amore mio
questa passione passata come fame ad un leone
dopo che ha divorato la sua preda e abbandonato le ossa agli avvoltoi
tu non ricordi ma eravamo noi
noi due abbracciati fermi nella pioggia
mentre tutti correvano al riparo
e il nostro amore è polvere da sparo
e il tuono è solo un battito di cuore
e il lampo illumina senza rumore
e la mia pelle è carta bianca per il tuo racconto
ma scrivi tu la fine
io sono pronto
(“Cade la
pioggia”, Negramaro feat. Jovanotti)
Ciao lettore. Probabilmente penserai che è una storia ridicola.
Sono d’accordo.
Ma ciò non significa che questa storia non sia vera. Persino la vita è ridicola,
non sei d’accordo?
Ma caro lettore, scrivi tu la fine, io sono pronta.
Per Faffy: quello che ho pensato non era esattamente così, dato che sull’agenda
si esauriva in tre righi. Spero che la tua attesa sia valsa a qualcosa, ti
voglio bene.
Francy