«How many years can a mountain exist
Before it's washed to the sea?
Yes, 'n' how many years can some people exist
Before they're allowed to be free? »
Bob
Dylan, “Blowin’ in the wind”
La luna piena
di fine febbraio, soda e lattea come l’occhio vacuo di un cielo cieco, si
rifletteva spigolosamente sull’insegna del locale di
fronte alla stazione ferroviaria, un piccolo pub scadente con la tappezzeria
dei divanetti strappata e macchiata d’olio e il bancone degli alcolici sempre
affollato di volti giovani e sperduti, pieni di sogni e con la speranza ridotta
all’osso. Marta se ne stava mezza accasciata su uno degli sgabelli fuori uso,
con le gambe un po’ deformi a reggerlo su e il sedile spolpato, col gomito
sottile mollemente poggiato al bordo del banco e il volto inespressivo rivolto
alla sue spalle, in direzione della saletta adiacente. Il locale era piuttosto
affollato; gli “Psyco Elfs of the Decade”, il gruppo alternative rock di cui
Ludovica, sua compagna di avventure più che amica, era voce principale e basso,
stava suonando l’ultimo pezzo della scaletta, una cover rivisitata di “Creep” dei Radiohead,uscita per
altro da poche settimane. Marta gettò un’occhiata passiva agli occhi di
Ludovica, verdi e vivi come le onde del mare all’alba, che si allargavano o si
socchiudevano a seconda se stesse cantando note acute o gravi, contornati da
una tremula linea di matita nera e messi in risalto dalla luce soffusa dei
faretti iridescenti. Accadeva spesso che, quando entrambe si sentivano prese da
una risucchiante malinconia e la solitudine le inaridiva fino a farle
sbriciolare come sabbia alla minima folata di emozione, cedessero alla lussuria
che albergava timidamente nei loro occhi e si ritrovassero a condividere lo
stesso letto, ingarbugliate l’una nei dolori dell’altra. E, per avere solo
diciotto anni, questo accadeva fin troppo spesso. Era una specie di patto, il
loro. Non erano amiche con beneficio, no. Quella definizione a Marta suonava
troppo squallida e inorridiva al pensiero di considerare le sue afrodisiache
scalate del corpo bianco di Ludovica semplici soddisfacimenti di bisogni
fisici. Era piuttosto come un antidoto alla pazzia; si chiamavano con toni
carezzevoli e incastravano le loro gambe in modo da congiungersi, come stessi
pezzi di un grande vaso di terracotta fracassato a terra per un improvviso
vento, ogni qual volta sapevano di non potercela fare da sole. Quando
raggiungeva il picco del piacere, gli occhi di Ludovica si allargavano a tal punto
da sembrare di poter contenere il verde di un’intera foresta. Marta diede un
ultimo sorso al suo bicchiere, fino a pochi minuti fa ripieno fino all’orlo di
vodka e vermut, rabbrividendo quando il sapore graffiante dell’alcol le corrose
la gola. Si diede un’aggiustatina ai capelli,
modellando con mani molli i boccoli che le cadevano sulle spalle. L’avevano
scoperto insieme, il mondo del sesso. Ludovica, col suo fare enigmatico e la
testa sempre apparentemente altrove (nel mondo delle idee platoniche, a detta
sua), lasciava a pochi la possibilità di entrare nella sua vita o anche solo di
parlarle. Era piuttosto fredda, sempre gentile con tutti, certo. Ma pur sempre
gelida. Era stata lei a farle provare l’ebbrezza della libertà, l’amarezza
dell’alba che sorge dopo una notte di oblio, l’atroce dolcezza delle droghe. E
lei, Marta, non si era pentita di niente. A quasi diciotto anni, media
dell’otto punto due al liceo classico di paese e figlia unica di due avvocati,
poteva dire di non essersi fatta mancare nulla in termini di nuove esperienze. Col suo viso sempre ben truccato e gli occhi
tanto dolci da intenerire il più incallito dei sadici, nascondeva bene il caos
che si agitava nella sua piccola testolina da aspirante scrittrice. Voleva
scrivere nella vita, raccontare le storie della buona notte che, come diceva
lei, i suoi genitori non le avevano mai raccontato. Storie che facessero
addormentare come fossero camomilla, cullando in un calore nebuloso. Storie che
sortissero lo stesso effetto rilassante e obliante della canna che una volta
aveva fumato con Ludovica e Giorgio, la figura più assimilabile ad un migliore
amico per lei, nei bagni pubblici del parco.
Federico, batterista degli Elfs dai capelli biondi e lunghi,
eternamente raccolti in una mezza coda che gli arrivava alle spalle, chiuse il
pezzo con un energico colpo di cassa, facendo vibrare le pareti e destando per
un attimo Marta dal suo sonno inerte. Qualcuno in fondo gridò, lei si limitò a
rivolgersi nuovamente verso il bancone, stanca in volto e con i capelli castani
e morbidamente ondulati che le coprivano quasi gli occhi. Chiese in un sospiro un’altra vodka e vermut
al giovane barista pieno di tatuaggi sugli avambracci. Quello alzò la sua testa
bionda e le rivolse uno sguardo interrogativo.
-Sei
sicura? Questo è il terzo- la avvertì Grisha, con
quell’ accento slavo così marcato che a Marta ricordava ogni volta il suono di
una lama che fende la delicata brezza mattutina. Dalla piccola folla che si era
radunata nella saletta provenivano schiamazzi e urla di approvazione. Probabilmente, pensò, Walter
sta di nuovo spezzando tutte le corde della chitarra, perché le ragazzine lo
adorano quando fa il duro. Uno schiocco metallico, simile ad un colpo di
frusta, raggiunse il suo udito al di sopra di tutto quel chiasso, a confermare
la sua tesi. Lei e Walter erano addirittura usciti assieme, per un certo
periodo. Certo, avevano tredici anni e
lui suonava ancora sulla vecchia chitarra di suo padre, quella con la cassa
acustica scollata e gli adesivi di Mazinga ancora attaccati su, e lei ancora
baluginava in un universo ovattato fatto di libri da leggere prima di andare a
letto e tranquilli pomeriggi in giardino con la nonna. Poi si erano lasciati, in modo quasi anestetico,
come solo i ragazzini sanno fare, dando poca importanza al sentimento che si
impadroniva di loro quand’erano assieme ad ascoltare i Queen nella soffitta di
Walter, seduti a gambe incrociate e con i mignoli intrecciati. Marta scorse il
profilo di Giorgio in fondo all’unico corridoio che portava al cortile sul
retro, i suoi capelli neri erano dorati dalla lieve luce che proveniva dalla
lampada a neon a forma di bottiglia di Heineken fissa sopra il bancone. Teneva
per mano una ragazza, una biondina dall’aria svampita, che lo guardava come un diabetico
di fronte ad un succulento muffin al cioccolato. Li vide entrare nei bagni e
chiudersi frettolosamente la porta alle spalle. Probabilmente quella sera lei e
Ludovica l’avrebbero di nuovo dovuto salvare dalle grinfie delle sue
pretendenti, fingendo di essere ragazze sedotte e abbandonate da lui in modo da
allontanare tutte. Una tecnica che funzionava ogni volta, per il gran piacere
di Giorgio, che otteneva i vantaggi di
storie della durata di una serata senza nemmeno doversi sentire in obbligo a richiamare.
-Sicurissima-
affermò, tirando su col naso. Ora che il gruppo aveva finito di esibirsi, il
proprietario aveva alzato il volume della tv, che era sintonizzata su un canale
radio di soli classici anni sessanta, settanta e ottanta. In sottofondo, coperto
dai brindisi festosi al buon proseguimento della carriera degli Psyco Elfs e il rumore di bicchieri che si accostavano,
Marta riuscì a distinguere “Stawberry fiels” dei Beatles. Grisha le
rivolse un ultimo sguardo ammonitore, ma poi prese un bicchiere pulito e le
versò la vodka e il vermut con gesti sicuri ed esperti da vero barman. Le aveva
raccontato di aver viaggiato parecchio, prima di trovarsi a far il barista in
quel piccolo paesino. Aveva lavorato in un pub a Parigi, ma era stato cacciato dopo
che si era diffusa la notizia della sua tresca col proprietario; poi ad
Amsterdam, dove però spendeva subitaneamente tutto ciò che guadagnava in
marijuana, addirittura a Dublino.
-Ti
porta lei a casa stasera?- chiese, ammiccando a Ludovica, che stava trangugiando
la sua birra bionda, seduta ad un tavolino con tutti gli altri membri della
band. Marta si girò, per guardare meglio a chi si stesse riferendo. Ludovica le
fece un occhiolino, rivolgendole un sorriso seducente.
-Spero
di si- si lasciò scappare, poggiando una guancia sulla mano e portandosi il
bicchiere alla bocca.
-Siete
proprio carine, voi due- ridacchiò Grisha, lucidando
alcuni boccali appena lavati. Lei rispose con un grugnito, dondolando i piedi
sullo sgabello troppo alto.
-Guarda
che non è come credi- smentì, fulminandolo con lo sguardo.
-Si sta
avvicinando- la avvertì divertito e, quando Ludovica si accostò a Marta per
sussurrarle qualcosa e la fece arrossire, fece finta di star sistemando le
bottiglie di birra vuote in una cassa, dando loro un po’ di privacy.
-Io e
te, in bagno. Subito- mormorò con voce strascicata al suo orecchio, lasciandole
un bacio umido sulla guancia. Marta si attorcigliò una delle sue ciocche rosse
attorno al dito, guardandola maliziosa. Lo vedeva da come erano rilassati i
suoi lineamenti che era lievemente brilla, di solito Ludovica aveva sempre il
volto tirato in un broncio scontroso. I suoi capelli emanavano un inebriante
odore di muschio e menta e la strana sfumatura dei suoi occhi, ora color
palude, attirava Marta come una calamita.
- C’è Giorgio- riuscì a stento a mormorare, visto che quella
aveva preso ad accarezzarle piano la schiena, coperta solo da una camicetta di
seta semi trasparente. Grisha tossì imbarazzato,
ricordandole che erano in un luogo pubblico.
-Tesoro,
io sono frocio, ma loro no- rise,
indicando due ragazzi coi dread che le guardavano
imbambolati. Ludovica alzò le spalle, dando un sorso al bicchiere di Marta e
vuotandolo tutto in un solo colpo.
-Che si
fottano, Marta la posso avere solo io- ringhiò, passandole un braccio attorno
alle spalle. Sentì Pier Davide, il secondo chitarrista, sussurrare a Federico
qualcosa che suonava molto come “Ma
quelle due stanno assieme si o no?!” e quello rispondergli, con un
atteggiamento da santone, che le ragazze erano tutte strane.
-Ce ne
andiamo?- sussurrò Marta, tirando un pizzicotto al fianco della rossa per farla
voltare verso di lei. Ludovica annuì e per un attimo sembrò che le stesse
sorridendo in modo dolce,ma poi riprese a scherzare con quelli del suo gruppo,
tenendo testa a tutti in fatto di insulti e battutine sconce nonostante fosse
l’unica ragazza. Salutarono Grisha e gli
raccomandarono di controllare Giorgio quanto bastava per farlo tornare a casa
sano e salvo e, soprattutto, senza nessuna ragazzina sprovveduta al seguito.
Quando uscirono dall’ “Hurly Burly”
si era alzato un lieve venticello e Marta, tutta infagottata nel suo cappotto
rosso, attraversò tremando la strada.
-Dimmi,
quant’hai bevuto, eh?- chiese Ludovica, brusca. Lei alzò le spalle e si accostò
al muretto oltre il quale si potevano scorgere i treni fermi sui binari.
-Tre
vodka e vermut, anzi… due e mezzo, per colpa tua- gracchiò, cercando di
rimanere in equilibrio sui suoi tacchi di dieci centimetri. La rossa la guardò
bieca, giocherellando con le chiavi della
Volkswagen di sua madre, presa, a detta sua, in prestito.
-Non
devi bere così tanto, può essere pericoloso per te, lo sai- la rimproverò dura,
continuando a fissare il movimento circolare delle chiavi attorno al suo dito
indice. Marta rispose con un grugnito di disappunto.
-Io bevo
quanto voglio, Ludo. Il cardiologo non mi ha dato nessuna raccomandazione- si
inalberò, ma per il brusco gesto che fece col braccio rischiò di rovinare sul
marciapiede. Ludovica accorse a tenerla su, prendendola per i fianchi. I suoi
lunghi capelli rossi luccicavano come bronzo alla luce della luna e sulle sue
orecchie quasi diafane spiccavano come stelle tre piercing d’argento. Si accese
una sigaretta, tenendola fra il pollice e l’indice, come i maschi, e
avvicinandola con calma alle sue labbra rosee. Marta, non appena si fu
stabilizzata, si rivolse col busto verso la stazione ferroviaria che, silente e
invasa da una leggera nebbiolina, appariva quasi come un miraggio.
-Mi
piacerebbe andarmene, sai? Prendere un treno per chissà dove, senza salutare
nessuno- mormorò, più a sé stessa che a Ludovica. Quella annuì, come se avesse
capito esattamente a cosa si riferiva. Prese una boccata di fumo e guardò anche
lei la stazione.
-E’
perché vuoi essere libera, vero?- chiese. Quando non era nervosa o arrabbiata,
il che accadeva molto di rado, la sua voce suonava melodiosa e vellutata come
il cinguettio di un canarino. Marta adorava sentirle dire cose banali come buongiorno, che cazzo combini, domani vieni
a scuola? Quando parlava aveva l’impressione che tutto il mondo si fermasse
ad ascoltarla.
-E’
perché voglio sentirmi libera. Liberi
non lo si è mai davvero, secondo me-
Ludovica
le circondò le spalle con un braccio, per tenerla al caldo. Le soffiò un po’ di
fumo in faccia e la fece ridacchiare per il solletico. Marta le sorrise
riconoscente, strofinando una guancia contro la sua sciarpa di lana grigia.
-Vieni,
andiamo a casa- le sussurrò la rossa, facendo per dirigersi verso la sua auto.
- Ma non
volevi…?- chiese l’altra, allusiva. Ludovica scosse la testa in un modo che a
Marta sembrò quasi rassegnato. I suoi occhi ora erano miti e tranquilli come il
fondo di un lago. Gettò la cicca sul marciapiede, calpestandola con la suola
dei suoi stivali neri.
- Mi è
passata la voglia- la sentì mormorare semplicemente, mentre una folata di vento
scompigliava i capelli di entrambe. Restarono qualche minuto in silenzio, poi,
dopo aver chiuso la sua portiera e aver infilato la chiave nel quadro
dell’auto, Ludovica si voltò verso di lei.
-Marta?-
-Uhm?-
-Ti
voglio bene, lo sai questo?-
Marta
sorrise, nel buio dell’abitacolo. La stazione sfilava in tutto il suo squallore
fuori al suo finestrino e, pensò, neanche se fosse partita con uno dei treni
del mattino sarebbe mai stata libera dalla sensazione di calore e pace che
provava in quel momento.