«Don't always know what I'm talkin' about, feels like I'm livin'
in the middle of doubt
'cause I'm eighteen, I get confused every day»
Alice
Cooper, “Eighteen”
Il
metronomo sul pianoforte del suo salotto continuava a ticchettare da un più di cinque minuti
, dopo che il suo gatto siamese gli aveva dato una zampata facendolo
cadere di lato. Ludovica, distratta dal suo studio, si alzò dalla scrivania e
corse a bloccarlo, facendo scendere Tabasco con un gesto stizzito.
-Si può
sapere perché mai hai paura del metronomo?- domandò scocciata, rivolta verso il
gattone che la fissava quasi sconvolto, con gli occhi azzurri fissi come pietre.
Tornò alla sua versione di greco, finendo la traduzione in meno di dieci minuti
e sistemando soddisfatta i suoi libri in un angolo. Ludovica, al contrario di
come ci si poteva aspettare, era categorica nel suo studio e persino dopo una
sbronza magistrale come quella della sera precedente (alla fine Marta l’aveva
invitata a salire da lei perché i suoi non c’erano e c’era andata di mezzo la
sua bottiglia di Martini), non rinunciava alla possibilità di prendere un bel
sette. La casa era silenziosa e vuota e, dopo aver finito di studiare l’ultimo
paragrafo di storia dell’arte, si abbandonò sbuffando sul divano di pelle.
Tutt’attorno a lei era la calma più totale, Tabasco dormicchiava ora più
tranquillo sul tappeto di fronte al pianoforte e dalla finestra aperta della
cucina adiacente proveniva un venticello tagliente e gelato che sferzava, di
tanto in tanto, le braccia nude e bianche di Ludovica. Talvolta, quand’era sola
a casa, la prendeva lo sconcerto più totale e la solitudine assumeva contorni
spaventosamente violenti, tanto che spesso era costretta ad accendersi uno
spinello o bere un bicchierino per distrarsi. Sua madre, essendo infermiera
dell’ospedale della provincia, che distava una ventina di chilometri dal loro
paesino, passava molto poco tempo a casa, nonostante cercasse di liberarsi
sempre il prima possibile per stare un po’ di tempo con lei e suo fratello
gemello. Probabilmente Enrico era agli allenamenti di calcetto e non sarebbe
tornato prima di un paio d’ore, visto che spesso gli piaceva perdere tempo in
giro a zonzo con la sua vespa nuova di zecca, così Ludovica decise di fare uno
squillo a Walter e Federico per
proporgli di passare il pomeriggio alla solita
maniera: partita alla playstation (anche quella nuova di zecca, uscita da
appena tre mesi), sigarette e un po’ di musica. Ripescò il suo Nokia dalla
sacca di tela che utilizzava come borsa, presa ad una manifestazione contro gli
OGM, e compose il numero di Dede, come adorava
prenderlo in giro da quando aveva scoperto che si lasciava docilmente chiamare
così dalla nonna novantenne, per la quale aveva un particolare debole.
-Ludofica, a che devo l’onore?- rispose
allegramente, troppo allegramente, quello dopo solo uno squillo, a
testimonianza del fatto che il nulla totale e assoluto occupava i suoi lunghi
pomeriggi “di studio” e che senza gli Elfs sarebbe stato ancora seduto in silenzio in un angolo
della 5 C, con un paio di cuffie da walkman nelle orecchie e gli ACDC sparati a
tutto volume. Non che fosse asociale, semplicemente Federico si presentava come
silenzioso e piuttosto timido e, in un paesino di provincia come quello,il suo
comportamento riflessivo e tendente alla solitudine veniva considerato sintomo
di sfigaggine.
-La
smetti di chiamarmi con quel nome del…- prese ad inveire Ludovica, subito
fermata da una replica scherzosa dell’altro.
-Andiamo,
non dirmi che non ti piace. Riflette in pieno il tuo essere- ridacchiò
sommessamente.
-Vuoi
rimanere senza band?- lo minacciò la rossa, scontrosa.
-Qualcuno
ha il ciclo oggi, eh?-
-Ma sta’
zitto! Piuttosto muovi quel culo floscio che ti ritrovi, legati i capelli in
una bella coda di pony, prendi Walter e vieni a casa- gli intimò quasi, mentre
fissava il soffitto macchiato e un po’ crepitante del salotto.
-Dammi
il tempo di mettere in moto il catorcio- sospirò, per poi chiudere la
chiamata. Ludovica rispose con un bel vaffanculo, che
utilizzava come intercalare o saluto ogni qual volta voleva enfatizzare il suo
dissenso, e scorrendo fra i numeri della rubrica per cercare quello di Pier
Davide, si soffermò a leggere quello segnato sotto il nome di Marta Cabassi. Si morse il labbro, gettandosi di nuovo a peso
morto sul divano. Aveva tanta voglia di vederla, di stringere i suoi fianchi e
affondare le mani nei suoi capelli scuri e mossi come le onde del mare. Adorava
sentirla fremere sotto il suo tocco, provocarla fino a farla supplicare,
giocare con i suoi desideri fino a farla cedere alla disinibizione più totale.
Ma adorava anche, e se ne rese conto con sconcerto, i momenti successivi ai
loro incontri ravvicinati;
accarezzarle il collo per farla calmare dagli spasmi del piacere, respirare
l’odore di arance che emanava il suo corpo umido e contemplare in silenzio le
sue pupille restringersi e allargarsi a seconda dell’intensità delle sue
attenzioni erano cose che la mandavano in visibilio, paragonabili in termini di
appagamento solo ai suoi solitari giri in auto al calar della sera, con in
sottofondo Alice Cooper e l’aroma del deodorante per auto alla menta a
solleticarle le narici. Marta sapeva di inesplorato, di lontano e di
irraggiungibile, tutte cose che Ludovica aveva imparato a conquistare grazie ai
suoi abili modi di seduzione. Era come se, quando la toccava o le baciava la
pelle, le barriere insormontabili che innalzava fra la sua testolina da
scrittrice e il mondo cedessero come terracotta, come se l’orizzonte dei suoi
occhi si avvicinasse per poter cogliere quanto più godimento possibile dall’abisso
a cui Ludovica sentiva di appartenere. Marta era una vetta, una cima rivolta
verso il cielo illimitato, pura, invalicabile e rischiosa, lei solo lo specchio
cristallino di un lago paludoso, melmoso e impantanato nella terra. E
nonostante tutto, quell’amicizia viziosa l’aveva attirata fin da subito come un
fiore dall’odore inebriante, pronta a risucchiarla in quel vortice di
sregolatezza e immoralità, col
fascino irresistibile delle cose che ci fanno male. Quando l’avevano stregata i
suoi occhi bruni e il suo broncio eternamente insoddisfatto, come se dalla vita
cercasse qualcosa che non le era concesso avere! Prima di lei, Ludovica aveva
provato solo con Walter (che vantava un gran numero di conquiste, sempre
sedotte e abbandonate in virtù della sua esclusiva unione con Daisy, la sua
Fender Telecaster gialla) e per di più sotto
l’influsso di un paio di canne di troppo. Ora che ci pensava era stato
terribile, in mezzo alla pineta del campeggio estivo dell’anno precedente. E non si trattava di rametti fra i capelli e
la terra nei pantaloncini, no. Quelli erano miseri dettagli. Walter, nonostante
facesse il figo con gli amici e lo spaccone con le
ragazze, era davvero un disastro in quelle
cose e la cosa più eccitante che Ludovica riuscì a ricordare riguardo
quella sera fu un bellissimo esemplare di civetta che tubava sul ramo sopra la
sua testa. Per fortuna, la loro amicizia era rimasta intatta, come quand’erano
bambini, perché sia lei sia Walter avevano ammesso che si era trattato di un
semplice incidente. Ma con Marta, dio, era tutta un’altra cosa. Nemmeno riusciva
a capire come il suo solo corpo contenesse così tanta passione. Stava giusto
pensando di chiamarla per un giro in macchina quella sera stessa (e magari una
sosta nelle zone deserte della campagna attorno al paese), quando suonarono al
campanello del suo appartamento e fu costretta a farsi mentalmente una doccia
fredda. Non appena aprì la porta, Federico e Walter si catapultarono sul
divano, abbandonando per terra rispettivamente zainetto e custodia della
chitarra.
-Daisy?- chiese Ludovica, prendendo
posto sul bracciolo accanto a Dede.
-Erin- precisò il ragazzo dai capelli
neri, sistemandosi una chitarra acustica color nocciola sul ginocchio. Walter,
d’aspetto, era simile ad uno di quei principi nordafricani di cui sono piene le
soap opera di bassa qualità: i suoi occhi, neri come le pietre del deserto,
ipnotizzavano col loro calore esotico e straniero la maggior parte di quelli
che lo guardavano e la sua pelle, simile al colore della sabbia al tramonto, trasudava
quella sensualità raffinata tipica degli spiriti imperturbabili. La camicia di
jeans che portava, sfilacciata ai bordi delle maniche, aderiva morbidamente ai
suoi pettorali quasi evidenti e le sue converse all stars nere, seminascoste dalle falde del pantalone a vita
alta verde petrolio, battevano a tempo sul tappeto, alzando un po’ di polvere.
I vari ciondoli d’argento e le collane dal filo di cuoio che gli cingevano il
collo tintinnavano ogni qual volta avvicinava il suo petto alla chitarra per
poterla accordare meglio. Federico tirò fuori dalla tasca dei jeans la sua
armonica mezza arrugginita e prese a lucidarla in silenzio, strofinandola
contro il tessuto della maglietta grigia.
-Cos’è tutto ‘sto silenzio?- domandò
la rossa, stiracchiandosi e dando un colpetto sul polpaccio di Walter con il
piede. Quello alzò le spalle, avvicinando l’orecchio alle corde per sentire
meglio.
-Dede è ancora arrabbiato con te per
come lo hai trattato al telefono, razza di strega crudele- borbottò,
cominciando a strimpellare qualche accordo. Federico, piegato com’era sulle
ginocchia, soffiava tranquillo nella sua armonica per rimuovere gli ultimi
residui di polvere, fingendo di ignorarli.
-Che
bambinone!- ridacchiò Ludovica, alzandosi per andarsi a sedere sulle sue gambe
e scompigliargli i capelli biondi, che ora erano sciolti, quasi come un’aperta
provocazione alla sua precedente richiesta telefonica. Federico sbuffò, facendo
il sostenuto.
-Andiamo,
Dede- lo pregò con sguardo carezzevole e modi da
ruffiana, passandogli una mano sulla guancia.
-Per
favore, sembra che tu voglia sedurmi- rise quello dopo un minuto buono passato
in silenzio a subire le sue attenzioni, facendola scendere con uno spintone
dalle sue ginocchia e tirandola a sedere vicino a lui.
-Lo sai
che Miss Rossa qui presente non gradisce il tuo gingillo, calma gli ormoni- sghignazzò Walter, riprendendo a
suonare sconnessamente accordi di canzoni random, fra
i quali si potevano scorgere gli incipit di “Smoke on
the water” dei Deep Purple,
“Sweet child of mine” dei Guns ‘n Roses e “With a little help from my friends” dei Beatles. Ludovica
grugnì contrariata, lanciandogli addosso un plettro che giaceva abbandonato sul
tavolino da tè.
-Assassina!
Stavi per graffiarmi Erin!- gridò quasi il
chitarrista, rivolgendole uno sguardo truce coi suoi occhi neri, lasciando a
metà l’intro di “Woman from
Tokyo”.
-Stronzo-
mugugnò e ora fu il suo turno di fingersi offesa.
-Dai,
amico, lasciamola copulare in pace con la Cabassi.
Non possiamo biasimarla, ha proprio un culo da paura- scherzò Federico,
beccandosi un altro scappellotto dietro la nuca.
-Non no-mi-na-rla, capito? Né lei, né il suo culo- sillabò piano
Ludovica, prima di lasciargli un altro pizzicotto sul braccio.
-Scusa,
scusa. Giuro che sto zitto, basta che la smetti di torturarmi- piagnucolò Dede, traendo il braccio, orami rosso per i segni, al
petto. Ludovica gli rivolse un’ultima occhiata intimidatoria, prima di sedere a
terra con le gambe incrociate, giocherellando coi lacci delle sue Adidas
modello Stan Smith nere.
-Ah,
quasi dimenticavo… ho portato i biscotti- saltò su Walter, indicando lo zaino
abbandonato all’ingresso. La rossa allargò gli occhi, stirando le sue labbra
chiare in un sorriso genuino. Solo di rado la si vedeva così naturale,
spontanea e sincera come una bambina. Ludovica aveva sempre pensato che
sensibilità, creatività e spontaneità andassero di pari passo, ma aveva
imparato a sue spese che si verificava esattamente il contrario. Col passare
degli anni, a causa del disagio che percepiva venendo a contatto con persone che
non la capivano, aveva imparato a calcolarsi, a dosare la sua parte fantasiosa
ed eclettica, fino a diventare una macchina, pressata e sballottata dentro la
posa che aveva assunto per proteggersi. Afferrò ridacchiando il pacco di
biscotti al cioccolato e fece una capatina in cucina per tirare fuori dal frigo
una bottiglia di succo alla mela verde, la loro bevanda ufficiale. Ci avevano brindato alla loro prima serata,
circa cinque anni prima, quando avevano ancora poco più che dodici anni e si
chiamavano Ametist Vessels, dopo
un’esibizione amatoriale per la famiglia di Walter. Tornò in salotto con tre
bicchieri dal collo allungato, di quelli che davano in omaggio con tre pasti ai
fast food, colmi fino all’orlo e il pacco di dolciumi
già mezzo svuotato.
-Proviamo?-
chiese Federico, finendo si masticare i biscotti e buttando giù l’ultimo sorso
di succo di mela.
-Si,
vai. Dopo ho bisogno di una sigaretta- concesse Ludovica, pulendosi le mani sui
jeans e tirandosi su le maniche del maglioncino verde. Si alzò per andare a
recuperare il suo basso, lasciato sul letto della sua camera, e poi tornò a
sedersi di fronte a loro. Walter fece un cenno con la testa, cominciando con i
primi arpeggi di “California dreamin’” dei The Mamas & Papas, seguito poi
dalle percussioni del basso di Ludovica e le prime note melodiose della sua
voce. Federico li seguì a tempo con un suo piccolo adattamento all’armonica,
mentre anche il chitarrista prendeva a cantare sommessamente la seconda voce,
mescolando il suo timbro gutturale e profondo con quello acuto e morbido
dell’altra.
-You know the preacher
likes the cold, he knows
I'm gonna stay- cantò
Ludovica, muovendo a ritmo la testa.
-California dreaming, on such
a winter's day – seguirono Walter e Federico, che ora che aveva terminato il suo assolo
si era unito, con le loro voci che ben si armonizzavano. Dalla porta che dava
sul balconcino Ludovica poteva intravedere le prime gocce di pioggia di quello
che sembrava preannunciarsi un bell’acquazzone. I tuoni tutt’ad un tratto
coprirono lo strimpellare della chitarra e i colpi ritmici del basso, invadendo
la stanza e spezzando l’atmosfera, come una palla di cannone che squarcia la
vela di un vascello in navigazione verso terre remote e immaginarie. La rossa
smise subito di suonare, con le mani molli e il fiato improvvisamente corto
lasciò cadere il basso sulle sue gambe. Federico sembrò accorgersi della sua
preoccupazione, perché si alzò immediatamente dal divano e si avvicinò per
guardarla in volto. Tremava e teneva gli occhi fissi sul tappeto, con le mani
chiuse a coppa sulle orecchie.
-Hey, folletto, è solo un temporale- sentì Dede che la tranquillizzava ma, con i rumori sordi dei
tuoni e i flash improvvisi dei lampi ad illuminare a sprazzi il tavolo coi
libri e la teca dove sua madre teneva i bicchieri di cristallo, riuscì a
sentire solo un flebile fischio nelle orecchie. La luce era andata
improvvisamente via, Walter si era precipitato a controllare il quadro
dell’elettricità nell’altro corridoio. Federico le mise le mani sulle spalle,
scuotendola leggermente. Non capiva cosa stava succedendo, tutto era immobile
davanti a lei, solo i capelli biondi del ragazzo si illuminavano d’argento di
tanto in tanto. La luce della luna si rifletteva nell’acqua piovana che
grondava sul balcone e i lampi si susseguivano aritmicamente e senza che
Ludovica potesse contare e calcolare quand’è che sarebbe giunto il successivo.
Un ultimo tuono rombò più forte degli altri e, al buio, cominciò a piangere
sommessamente, gemendo e mugolando come un cucciolo.
-Ludo, guardami- la
chiamò Federico, mettendole una mano sotto il meno e tenendole ferme le
ginocchia tremanti con l’altra. Ludovica si sforzò di alzare lo sguardo dal
pavimento e respirare più regolarmente, mentre sentiva la scia bollente di una
lacrima farsi strada sul suo collo ghiacciato. La luce si riaccese, dopo un
paio di imprecazioni da parte di Walter, che in quel buio non riusciva a
trovare la leva giusta, così si tolse le mani dalle orecchie per sentire meglio
Federico.
-Dov’è Marta?- si sentì di domandare, quasi
inconsciamente, ingoiando un’ultima lacrima. L’amico la guardò dubbioso,
aggrottando le sopracciglia.
-A casa sua immagino-
rispose con calma, sedendosi accanto a lei per terra e passandole un braccio
attorno alle spalle, per calmare i suoi ultimi spasmi di panico.
-Anche lei ha paura dei
temporali- mormorò, poggiando la testa sulla sua spalla. Walter li raggiunse,
sedendosi alla sinistra di Ludovica e cominciando ad accarezzarle il braccio in
modo goffo.
-Davvero?- si informò il
moro, cercando di distrarla. Ludovica annuì, prendendo un respiro profondo.
-Una volta eravamo
assieme, era dicembre e stavamo per addormentarci. E’ scoppiato un temporale ed
eravamo sole in casa, sole e mezze andate. Così mi ha svegliata in lacrime e mi
ha supplicato di dormire abbracciata a lei-
Federico annuì,
stringendo di più la presa attorno alle sue spalle, che ora sembravano così
esili ed indifese.
-Vuoi che la
chiamiamo?- propose Walter, tastandosi le tasche alla ricerca del suo Motorola.
-Si, per favore. Avrà
paura, ne ho anche io. O forse no, sono confusa ogni giorno di più-