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Autore: BlackPoison    16/05/2013    0 recensioni
Il suo nome è Lucilla, Lucy. Curioso se si pensa a chi è, a ciò che rappresenta. Curioso che una creatura dal destino tanto oscuro possa essere stata chiamata così: LUCE.
Genere: Fantasy, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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"Bentornata Lucilla" . Azael se ne stava appollaiato e ridacchiante su di un'anomala ed instabile escrescenza della parete. Come ogni volta sbavava e portava una tunica lacera e sozza da fare schifo. Come ogni volta sghignazzava spudoratamente mentre io facevo il mio ingresso attraverso il Nero Cancello. Io ci mettevo sempre tutta la forza di volontà di cui disponevo per ignorarlo, davvero, avevo preso anche a frequentare delle lezioni di yoga per gestire gli attacchi d'ira ed ogni volta che vedevo Azael mi ripetevo mentalmente tutta la canzoncina agghiacciante e poco sensata che la signora Spell si ostinava a mormorare tutte le volte per un'ora e mezza ma quella volta proprio non riuscii a resistere.all 'impulso di colpirlo con un sasso. La mia mira era sempre stata particolarmente buona ma quella volta mi stupii di me stessa. Colpii quello stupido angelo del demonio dritto in faccia e lui, totalmente privo della benché minima grazia ed eleganza, cadde come un sacco di farina schiantandosi al suolo con un tonfo che provocò l’allarme in tutta la fauna infernale dei cespugli circostanti.
“Grazie Az!” Nemmeno mi sforzai di trattenere un sorriso beffardo. 
 
La totale, o quasi, assenza di luce la prima volta che avevo messo piede negli Inferi mi aveva lasciata interdetta, basita. Mi domandavo come i miei occhi potessero scorgere ogni cosa nonostante non fosse affatto illuminata. Non ero mai stata un'ineffabile geniaccia a scuola ma, e ne ero certa, era la luce a dare alle cose i colori che ci permettevano di vederle, l'avevo imparato un giorno di maggio, a sette anni, la maestra ci aveva spiegato tutta la regolina in modo che noi, bambini, potessimo comprenderla e farcela piacere. A me aveva fatto schifo, ahimè, poi avrei capito a pieno il perchè. Per l'intera settimana successiva avevo sfidato la logica spegnendo la luce ovunque mi trovassi e cercando a tutti i costi di vedere nella completa oscurità.
Ovviamente mi era stato impossibile. Ovviamente.
Qui i massi, gli sterpi, i corvi, i monti lontani che si ergevano cupi e rachitici verso l’orizzonte. Tutto, potevo vedere con chiarezza e precisione tutto.
A volte avrei preferito non potermi giodere il macabro spettacolo.
Nessuno mi aveva mai davvero spiegato la ragione di questa innaturale ‘dote’, era compreso nel pacchetto, era così e basta. Sicchè non potevo far altro che fare teorie mie, teorie che riguardavano le creature di questi luoghi, teorie che si basavano sull’odio e sul divertimento del Malvagio nei confronti dei malcapitati dispersi che si sarebbero dovuti muovere nel buio pesto condannati a smarrire per sempre la via del ritorno. 
La distanza che dovevo percorrere era minima, poco più di un kilometro tra polvere e carogne. Il fiume, la foresta. Tuttavia, la distorsione temporale dell’Inferno dava sempre l’impressione di essere in marcia da un’eternità con il palese intento di far perdere le speranze ai pellegrini, ai malcapitati o, semplicemente, ai nuovi arrivati. Sicché questi poveri disgraziati girovagavano stanchi e rassegnati, e la maggior parte di loro nella cecità totale, fino a che qualche demone non decideva che s’era divertito a sufficienza stando lì ad osservarne l’esasperazione e lo guidava verso il luogo prefissato per lui.
Non lasciavano mai nulla al caso qui. Mai. C’era sempre un qualche tipo di piano.
 
Io non ero una pellegrina smarrita, ovviamente, nemmeno un demone, per fortuna. Io ero una mortale, io ero viva. Corpo ed anima. Respiravo e provavo emozioni vere e, naturalmente,  più forti di qualsiasi abitante di questo posto. Brutta storia per gli umani le emozioni. Qui le reputavano feccia. Provare qualsiasi cosa era quasi al bando.  Qualsiasi cosa si potesse mutare in una potenziale perdita di controllo ad essere precisi.
Il mio problema era che la maggior parte delle mie emozioni nei confronti delle situazioni, delle persone, delle cose erano ‘sbagliate’ se così le si può definire, era diverse, ecco, rispetto ad un’altra qualsiasi semplice mortale. Da sempre. Da che io ricordi almeno ero sempre stata la bambina di sette anni che non accettava che la luce potesse avere un così grande potere. 
 
La ragione per cui mi trovavo qui, e capitava nell’ordine di una volta al mese da oltre un anno, era per convocazione. 
Ero una ribelle.
I ribelli, i mortali infernali, coloro che si opponevano all’avvento demoniaco nel proprio distretto, venivano semplicemente convocati, nessuna creatura immortale poteva torcere loro un capello fortunatamente. Essi erano, tuttavia, ritenuti un pericolo. Persone dotate di capacità speciali, segnate dall’avvenire eterno negli inferi ma in contrasto con quest’ultimo insignificante dettaglio potevano nuocere gravemente all’equilibrio eterno bene-male. Potevano rovesciare la situazione. Potevano peggiorarla.
C’era anche questo enorme rischio.
C’è da dire che ne erano pochi. Molto pochi. Ok, io non ne conoscevo nessuno.
 
Le creature infernali che venivano mandate sulla terra a generare caos erano per lo più completi idioti sotto dotati di materia grigia, nonostante ciò nessuno, o quasi, osava mai ostacolare il loro operato. Le persone, i mortali, di norma, si limitavano ad una pacata passività. Era proprio questa passività che concedeva il piede libero a queste cose. Come dicevo i ribelli non potevano essere toccati da alcun demone, nessun mortale poteva in effetti essere toccato fisicamente da alcun demone. 
Era vietato. Un contatto fisico assiduo tra i due mondi avrebbe provocato uno squilibrio terrificante.
Il mio essere una ribelle faceva di me, troppo spesso, un’infelice ospite di questi luoghi. Per farla breve una volta morta avrei fatto parte dei ranghi alti di questo mondo. In vita mi sarei dovuta comportare come 'sostenitrice della causa infernale', se così la si può chiamare. Non lo facevo ,però, nè avevo mai avuto l'intenzione di cominciare a farlo.
Giunsi al fiume di lava dove Caronte aspettava con la sua solita faccia incazzata le anime da traghettare alla sponda opposta. La barba nera arruffata pareva mossa dal vento nonostante la completa assenza di aria.
“Lucy, che Diavolo…”
Non era stato avvertito del mio arrivo. Ciò mi lasciò intendere che sarebbero stati pochi a presiedere alla riunione che aveva lo scopo di ‘giudicare inappropriato il mio comportamento’. 
 
Salii sulla familiare barchetta e mi accomodai non guardandolo negli occhi. Non avevo affatto voglia di una ramanzina prima della ramanzina vera e propria e Caronte, annoiato, non si sarebbe lasciato sfuggire quest’occasione.
Non ne avrei mai avuto la conferma ma ero piuttosto certa che gli esseri dotati del dono della lingua o della pura e semplice capacità relazionale scarseggiassero in modo vergognoso. Non c’era da sorprendersi che Caronte tentasse addirittura di starmi simpatico. 'Lucy di qui, Lucy di lì'.Pareva quasi paterno alle volte.
“Dovresti smetterla. Accetta le cose per quelle che sono! Stupida bamboccia”
Più o meno, simpatico, insomma. Si zittì da solo e cominciò a remare sbuffando. 
 
Accettare le cose per quelle che sono.
Accettare di finire qui, con loro, di far assumere alla mia anima le sembianze di un angelo nero. 
MAI.
 
Nemmeno risposi a Caronte, mi limitai ad aspettare che l’interminabile minuto di viaggio finisse. 
Non appena la barca si avvicinò alla riva sentii le consuete urla. Strilli terrificanti ed agghiaccianti. Non ne avevo paura, non ero predisposta ad averne, vacheggiavo mentalmente nella mia solita, pacifica, tranquillità.
Odiavo quella sensazione, sapevo che era sbagliata, crudele. Odiavo la mia reazione alla sofferenza. La mia gioia al dolore. La mia apatia nei confronti di urla agghiaccianti mi costringeva a trovare me stessa quasi aberrante.
Caronte notò che mi morsicavo il labbro inferiore con insistenza nel tentativo di reprimere il corso dei miei pensieri. Mi diede, quindi, un colpettino dei suoi sulla spalla. Attraccò la barca e mi porse un braccio per aiutarmi ad alzarmi, che ovviamente non presi. Rise di gusto quando notò la mia maglietta squarciata.
“Dimmi che non è successo quel che credo!”
Nemmeno mi girai per guardarlo con disprezzo.
Chi ha letto della selva dei suicidi di Dante Alighieri di certo non aveva mai visto l’intricata foresta di anime che precedeva la Caverna. Non erano anime suicide, non erano catalogate in nessuna maniera particolare, in realtà. Per lo più si trattava di viandanti senza meta che aveva indugiato troppo a lungo fino a diventare parte dela  vegetazione dell’inferno. Le urla c’erano, c’erano eccome. Ma non erano lamenti, non erano urla di dolore o sofferenza. Erano grida e basta. Un’eco superstite di ciò che erano stati che non li abbandonava nemmeno ora. Le cortecce si stagliavano nell’oscurità rendendo il tutto più lugubre. Le foglie morte si muovevano come spinte da una brezza anche se di vento non ce n’era nemmeno uno spiffero.
Mi ero chiesta un migliaio di vole come fosse possibile anche solo respirare in questo posto.

Cacciai nel mio angolo più remoto l’immancabile e naturale sensazione di piacere che mi dava quell’atmosfera. Non volevo fosse così. Non doveva essere così. Era sbagliato.
Io in quella foresta, in quel luogo così triste, così oscuro mi sentivo a casa.
Deglutii.
La prima volta che ci ero stata ricordo lo stupore, lo stupore per qualcosa che in un modo o nell’altro riuscivo a trovare spettacolare. Una serie di grossissimi ed altissimi alberi, imponenti e maestosi, con le foglie arricciate, sì, quasi a segnalare una sorta di costante autunno. Sopravvissuti alla completa mancanza di luce del luogo.
Avanzavo senza timore prestando attenzione a non calpestare le radici che mi tagliavano la strada. Molto probabilmente non avrebbero provato davvero dolore, le anime non soffrono di mali fisici. Ma rendendosi conto della presenza di un mortale l’avrebbero annunciata con ululati ben più forti di quelli consueti che non avevo intenzione di provocare. Non ora.  
 
La Caverna si trovava al termine della foresta. Annunciava la sua presenza una sorta di monte acuminato e sottilissimo che sembrava un edificio esploso in aria fino a diventare un netto cumulo di sassi minuscoli. All’esterno poteva apparire un luogo angusto e disarticolato ma la sontuosità di quel palazzo lasciava a bocca aperta. Una volta entrati si poteva benissimo pensare di essere in uno di quei castelli delle antiche storie orientali con tanto di arazzi, tappeti, cuscini e profumo d’incenso. Ovviamente il clima era quello esteriore, regnava oscurità, gelo. Ma non si poteva paragonare la ricchezza ostentata del castello del re infernale a ciò che spettava ai suoi sudditi ed ai dannati.
 
Non bussai né trovai qualcuno ad accogliermi. 
Una volta all’interno mi accomodai come tutte le volte su di una delle sei grigie sedie imbottite all’ingresso. Crizia, la segretaria, se così la si può chiamare, mi guardava al di sopra dei suoi occhialetti di corno accertandosi che non mi muovessi da dove ero. Non mi rivolse parola, non lo faceva mai in realtà. Le davo un gran fastidio e la ragione era la sua invidia. Per lei ero una stupida, un’ingrata al dono che la natura mi aveva fatto. Lei si accontentava del suo ruolo di dannata di alto grado, accolta nella Caverna per via del fatto che anche da viva si era impegnata in modo pressoché spasmodico come seguace di Satana come se non fosse dotata di quella cosa che sulla terra la gente è comunemente solita chiamare ‘coscienza’.
Aveva passato in carcere una gran parte della sua vita mortale fino a morire suicida nella cella 892 del nono distretto. Avevano trovato tagli superficiali che formavano disegni rituali sul suo corpo al momento del ritrovamento. Il suo nome non era nemmeno Crizia, nessuno lo conosceva sul serio quello reale. Si era chiamata così da sola una volta morta memore di quelle che erano le vicende di Criziano. Demone di alto rango che aveva raso al suolo città intere con lo schiocco delle semplici dita.
Il suo telefono rosso trillò, si appuntò qualcosa su un foglietto adesivo dopodiché alzò lo sguardo verso di me.
“Sala grande. Celermente”
Sorrise mostrando una fila di denti dritti e bianchi in netto contrasto col rosso acceso del rossetto.
‘Celermente’, lo diceva tutte le volte. Tutte. Lo trovavo snervante.
 
Questa era la prima volta che avevo il permesso di procedere da sola. Difatti la guardai un po’ interdetta indecisa tra il chiedere spiegazioni o semplicemente avviarmi. Crizia aveva già abbassato lo sguardo sulle sue scartoffie e non mi degnava della benchè minima considerazione. 
Di norma qualche strano sgherro unto e bisunto o qualche demone inferiore vestito dalla consueta, lacera tunica nera mi scortava nella sala dove Satana mi attendeva col capo tra le mani e la faccia rassegnata. Non mi andava di allungare la mia permanenza in questo posto. Non mi piaceva l’effetto che aveva sul mio stato d’animo. 
Mi induriva il cuore di odio, di rabbia, di voglia di potere. 
Non credo riuscirò mai davvero a descrivere come ci si sente quando si ha la più completa consapevolezza di essere potenzialmente tanto potente da incutere il timore dello stesso re degli inferi.
I corridoi procedevano intricati per ogni direzione in perfetto stile anticeleste. Un angelo qualsiasi in questo posto, ammesso che non gli si fossero rimaste bruciate le ali all’ingresso stesso, si sarebbe smarrito alla prima strada imboccata, sarebbe stato condannato a vagare per sempre come una trottola fino ad arrivare alla totale perdita del proprio io, di solito dopo tanti millenni, e quindi alla perdita dell’aureola, alla perdita della protezione celeste e via dicendo. Sarebbe diventato una creatura senza nome obbligato alla presenza a palazzo in qualità di servitore o qualche altro degradante ruolo nei bassifondi.
Ero stata accompagnata talmente tante volte al luogo dove ero diretta che avrei potuto benissimo percorrere il tragitto bendata. Non indugiai, tuttavia, al contrario, aumentai il passo fin quasi a correre. 
 
Me ne dovevo andare.
 
La sala grande era la più spoglia dell’intera Caverna, forse l’unica stanza spoglia. Adibita al ricevimento dei ribelli o di coloro ai quali doveva essere inflitta una punizione l’idea di partenza stava proprio nel renderla il più scomoda possibile. Per sino per un demone. Buia come nient’altro e fredda, che dico, gelida. L’unica cosa presente erano dei quadri immensi di tutti gli angeli demoniaci del più alto rango a mo’ di celebrazione. Creature citate nella bibbia. Immonde, senza pietà. Fra loro Belial, Legione, il demone possessore di Caino o di Giuda o di Nerone. Se avessi accettato il mio destino. Se non fossi riuscita nel mio intento un giorno la mia immagine sarebbe stata affissa immensa e sontuosa in questa sala. Ciò che mi si era predisposto nel sangue fin dalla nascita era questo. Già le prime foto che mi erano state scattate lo rivelavano senza ombra di dubbio e così tutte le altre, un’inconfondibile aura nera, maligna, una sorta di presenza costante che rendeva l’aria attorno a me di un gradevole colore scuro, quasi fossi avvolta in un gas nocivo. Ancor prima del tatuaggio che portavo sul retro del collo coperto dai capelli biondo cenere che in tutta la vita non avevo mai legato, neppure da bambina.
Distolsi lo sguardo dall’immagine del Serpente che tentò Eva nel paradiso terrestre cercando di ignorare la sensazione di ammirazione e rispetto che mi ribolliva dentro.
Una parte di me voleva essere lì. Voleva far parte di quei grandi, dovevo ignorarla, dovevo…
 
“Devi essere tu!”

Una voce del tutto nuova mi distolse dalle forzature alla mia volontà. Un ragazzo che non doveva essere più grande di me se non di qualche anno si avvicinava a grandi passi dal capo opposto della stanza. Non riuscivo a scorgerne nitidamente la figura a distanza. Rimasi impalata nell’attesa che si avvicinasse ulteriormente per farmi almeno un’idea su chi fosse ma lui si fermò al centro esatto e si infilò le mani nelle tasche dei jeans con disinvoltura.

“Una.. ragazza?”

Disse la parola ‘ragazza’ come prendendola con le pinze, come se ne avesse schifo e la stesse soppesando per crederci lui stesso, per convincersi che sì, ero una ragazza. Strizzai gli occhi nel tentativo di abituarli meglio alla luce scarsissima ma con nessun risultato. Incrociai le braccia al petto con fare difensivo.

“Appurato che io sono una ‘ragazza’ chi saresti, di preciso, tu?”

Il ragazzo rise. Una risata squillante, accesa, melodiosa. Una risata cattiva oserei dire ma allo stesso tempo incantevole.

“Sospettosa. Bene" si schiarì la voce tossendo " forse sarà molto più semplice del previsto. Eppure ti hanno descritto come un osso duro da modellare”.
Si avvicinò ancora di più.
“Ci sanno fare con le similitudini” il ragazzo rise ancora.

Notai che aveva i capelli scuri.
 
“Mi chiamo Lucas”

Rimase in attesa come se si aspettasse un commento o la mia prestazione, forse.

“Non te l’hanno detto?”

Disse alla fine con più incredulità di quanta ne avesse mostrata per il fatto che fossi donna.

“Detto cosa?” Ecco, la domanda più stupida che potessi fare. Zero furbizia, Zero bluff.

Dovetti sbarrare gli occhi. Lo facevo sempre quando ero interdetta o sconvolta. Era una cosa che non controllavo e che, mi avevano sempre detto, mi rendeva bizzarra.

“Sei proprio buffa”

Non riuscii a capire come potesse vedermi in quella luce così scarsa, da così lontano.
Il ragazzo, Lucas, cominciò a ridere di nuovo, a ridere sinceramente divertito.
  
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