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Autore: VenerediRimmel    16/05/2013    4 recensioni
Era notte e stava piovendo quando morii.
Tu, il mio migliore amico, il mio primo amore, la mia prima volta, il mio primo in ogni cosa… come potevo pensarlo?
Era impensabile, Gianluca.
Non avevo la minima idea che volessi uccidermi.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Storia di un tentato omicidio.

 
 
Era notte e stava piovendo quando morii.
Era notte, stava piovendo e quella sarebbe stata, dopo mesi di titubanza, la volta in cui avrei lasciato Gianluca.
Gianluca, il ragazzo che a tredici anni avevo creduto fosse l’uomo della mia vita.
Il migliore amico delle medie che aveva avuto la forza di baciarmi, nonostante il mio fastidiosissimo apparecchio.
Gianluca, il ragazzino che mi aveva strappato la verginità a quattordici anni e che l’aveva fatto nel modo più semplice e carino, senza spaventarmi e farmi sentire… inutile.
Il ragazzo con cui, a quindici anni, avevo imparato a divertirmi facendo l’amore passionale, romantico, selvaggio.
Era stato tutto, Gianluca. Il mio mondo era sempre girato intorno a lui, sempre.
L’uomo con cui ero diventata donna, era Gianluca.  L’uomo che mi era rimasto accanto mentre tutti se ne stavano andando.
La persone che avevo amato con tutta me stessa per nove anni; al quale avevo donato tutto quello che ero, per nove lunghissimi anni.
Gianluca, colui che, poi, a ventidue anni, avevo iniziato a considerare come un fratello.
L’uomo che, forse, avevo iniziato ad amare troppo e che, per abitudine, avevo cominciato a cercare soltanto quando avevo un problema… e non perché magari sentissi l’esigenza di vederlo, sentirlo, amarlo...
Gianluca, con cui non avevo più voglia di fare sesso, di farmi toccare. Perché tutto quello aveva iniziato a sembrarmi sbagliato.
L’uomo al quale avevo dato me stessa anche quando non volevo più, violandomi e trattenendo a stento le lacrime; perché avevo iniziato a credere che fossi io, quella sbagliata, quella che dovesse obbligarsi a fare l’amore con il proprio fidanzato.
Perché era così che funzionava l’amore: una volta finito o superato, bisognava portarlo avanti per inerzia.  Per lo meno erano state queste le parole di mia madre.
Gianluca era stato l’uomo che non mi capiva più con un solo gesto o che, forse, preferiva non farlo più per paura.
 
Gianluca, l’uomo che decise di uccidermi, quella sera.  
 
*
 
“Mi dispiace, Già, ma io… non posso continuare a farti questo. Sto sputando sopra nove anni di rapporto, perché non sento più il desiderio di baciarti, di toccarti, di fare l’amore con te. Ecco, l’ho detto.
Non hai notato nulla, tu? Non senti che tutto questo lo abbiamo portato avanti per abitudine? Per noia? Io ti amo, ma non più come un tempo. Ti amo come un fratello.
Sì, ecco, come se fossi il fratello che non ho mai avuto. Per te, non è così?
Tu mi ami ancora come la ragazzina di nove anni fa?
Tu mi ami ancora in quel modo?”
Te lo dissi, Gianluca. Ti dissi tutto ciò che da mesi avevo tenuto dentro, facendomi male.
 
Ma tu non rispondesti. Ti limitasti a guidare il tuo stramaledetto fuoristrada, accelerando furiosamente e ignorando i lampi e i tuoni sopra di noi e la pioggia che incessante ostruiva la visuale sulla strada.
Non apristi bocca, con la tua mascella quadrata, che un tempo avevo trovato buffa sul tuo viso innocente, e che, ora, era serrata per la rabbia e che quasi detestai.
Io ti capii ancora, ascoltai qualcosa anche nei tuoi silenzi.
E per quanto mi sforzassi di ragionare sulla tua più che dovuta rabbia… Non lo immaginai, Gianluca. Non avevo la minima idea che volessi uccidermi.
Non notai nemmeno quanto stessi accelerando.
Ero tranquilla, perché di te mi ero sempre fidata. Perché pensavo di conoscerti meglio delle mie tasche. Perché eravamo cresciuti insieme, non potevi… non potevi…
Perché c’eravamo amati – seppur in un modo tutto diverso, almeno per me. Perché non potevi, punto.
Tu, il mio migliore amico, il mio primo amore, la mia prima volta, il mio primo in ogni cosa… come potevo pensarlo?
Era impensabile, Gianluca.
Tu, che avevi visto la morte fin troppo da vicino; tua madre e la sua battaglia contro il cancro.
Tu, che avevi realizzato troppo presto quanto ti avessero portato via, ingiustamente. Una madre.
Come si poteva anche solo provare a crescere a diciassette anni senza una madre? Come si poteva tentare di andare avanti con un padre depresso che non riusciva nemmeno a parlarti, figuriamoci a crescerti? Come si poteva tirare avanti con un fratello più grande che, pur di non pensarci, aveva iniziato a drogarsi?
Tu, Gianluca, eri stato l’unico a sopravvivere. Eri stato l’ancora che manteneva il ricordo di tua madre intatto. Eri stato il miracolo della tempesta.
Per questo non potevo nemmeno pensarlo.
Tu e la morte eravate nemici, ancora. Perciò non potevi stringere un patto con lei, che decretava me come merce di scambio.
Tu, adesso, tacevi, mentre soffocavi dentro la morte. Quella che in un colpo solo aveva portato via tua madre, tuo padre e tuo fratello. E che ora stava portando via anche a me. La morte, non solo fisica, ma anche psicologica.
Questo era quello che non potevo e non riuscivo a pensare. Che la morte ti avesse soggiogato.
Perché ti eri sempre stato ostinato ad affermare che ero stata io la tua forza, quando non era mai stato così: la forza ce l’avevi avuta dentro di te, nel sangue, nelle ossa.
Tu eri diventato come tua madre, la donna che aveva combattuto fino all’ultimo con la speranza di poter crescere i suoi due meravigliosi figli.
Io mi ritenevo una spalla, non una forza. Quella, te lo ripetei più volte: eri tu.
Ma tu ti ostinavi spesso, tra le lacrime, soprattutto quando andavamo a trovarla al cimitero e io te lo lasciavo credere.
“Tu sei stata la mia forza. Senza di te avrei fatto la fine di mio padre o di mio fratello” Che sbaglio, Gianluca. Che sbaglio averti fatto credere che fossi io, la tua forza.
Ti resi dipendente a qualcosa che non esisteva. Io non ero la tua colonna, tu eri la mia.
 
Ma ti avevo amato, Gianluca. Ogni giorno di più. Ero stata orgogliosa della tua forza, del tuo coraggio, del modo in cui avevi tentato in tutti i modi di far curare tuo padre e far uscire dal giro di quella maledetta dipendenza, tuo fratello.
E, forse, Gianluca, iniziai ad amarti troppo e dirti sempre meno quanto non c’entrassi nulla, io, con la tua forza spontanea e il tuo coraggio vigoroso.
Io avevo iniziato ad amarti in altro modo senza nemmeno rendermene conto.
 
“Ti prego, ferma la macchina. Non vedo più dove stiamo andando...” Ti dissi, mentre la paura iniziava a giostrare il mio corpo. “Torniamo a casa.” Senza sapere il motivo, piangevo. “Ne riparliamo a casa, Gianluca! Ti prego, fermati. Ho paura!”
Tu, invece, accelerasti ancora, facendoci allontanare ancora di più dal paese.
Forse lì, per la prima volta, pensai che volessi fare qualcosa di avventato. Ma non pensai ancora che volessi uccidermi.
 
Così iniziai ad avere paura di te, mentre piangevo.
Di te, che mi avevi sempre protetta, che la sera, davanti al telegiornale, avevi sempre insultato quei maledetti che uccidevano mogli e fidanzate senza motivo.
 
Di te, Gianluca, io mi fidavo. Di te, che avevi deciso di uccidermi.
 
“Che diavolo stai facendo? Fermati, Gianluca! Sta piovendo troppo forte, così usciremo fuori strada!”Urlai a quel punto in preda al panico.
E tu mi rispondesti con un sorriso. Un sorriso che mi ghiacciò il sangue nelle vene.
Lì, in quel preciso momento, capii che qualcosa dentro di te si era rotto.
Mi agitai, picchiettando spasmodicamente contro il finestrino della tua auto.
Tu tentasti di fermarmi, strattonandomi per un braccio, mentre io continuavo a urlare.
Lì mi era tutto chiaro, Gianluca.
Stava succedendo qualcosa di brutto. Il mio corpo me lo stava urlando a gran voce.
L’istinto di sopravvivenza mi stava dicendo che ero in pericolo.
Gianluca e pericolo, due parole che mai avrei accostato l’una all’altra.
 
Aiuto. Un suono sordo.
Aiuto. Una richiesta vana.
Aiuto. Silenzio.
 
Nessuno mi avrebbe sentito.
Non fu d’aiuto nemmeno quell’auto che superammo prima della curva in cui tu, Gianluca, tirasti dritto per sprofondare irreversibilmente nel lago.
 
Nessuno mi avrebbe salvato. Nessuno ci avrebbe tolto dalle mani della morte.
 
Poi le tue parole… mentre cadevamo giù, nel buio terso della notte di quel venerdì maledetto.
 
“Così non potrai mai lasciarmi, Caro. Così resteremo per sempre insieme”
 
Allora mi fu tutto chiaro. Troppo tardi.
Sapevi già che ti avrei lasciato, lo realizzai in un istante. Troppo tardi.
Avevi già ponderato su ciò che dovevi fare, avevi già programmato quella fine.
La nostra fine.
Capii che avevi mollato, che tua madre e la sua forza erano svanite; che la tua mente, già martoriata dal tuo crudele passato, aveva uno squarcio irreparabile.
E che tuo padre e tuo fratello avevano avuto la meglio su di te.
E che il dolore, il panico e la paura avevano fatto breccia sulla tua razionalità.
Capii che avresti voluto morire piuttosto che perdere anche me.
Capii che mi avresti portato con te anche oltre la morte, piuttosto che lasciarmi la possibilità di abbandonarti. Troppo tardi.
Tu mi stavi già uccidendo.
Cistavi già uccidendo.
Era troppo tardi, ormai.
 
Cademmo giù nel lago, situato poco distante dal paese dove eravamo cresciuti. L’impatto mi fece male, ma la cintura evitò il colpo contro il parabrezza.
Tu, invece, avevi perso i sensi. Probabilmente, sbattendo contro il manubrio.
Andai nel panico. Non ero pronta a morire.
Chi mai lo era, dopotutto?
Saremmo morti, affogati.
Saremmo morti in silenzio, durante una torbida tempesta, all’interno di un lago.
Saremmo morti, insieme. Nessuno c’avrebbe mai ritrovato.
Soltanto in quel momento, mentre l’auto si riempiva inesorabilmente d’acqua, tornai a guardarti.
Nonostante stessi per morire, non riuscii ad odiarti. Non ci riuscii, nemmeno con tutta la buona volontà. Mi facevi pena, Gianluca. Perché ti capivo, ti comprendevo.
Ti amavo, troppo.
 
Avevo sognato spesso di cadere nel vuoto, di morire soffocata.
Tuttavia, quello non era affatto un incubo. Quella era la realtà.
Sarei morta da sola, perché un uomo, pur di non perdermi, aveva preferito condurmi con sé a morire.
Ti accarezzai i capelli, alzandoti il capo per stenderti sul sedile, l’acqua arrivava fin sopra alle ginocchia di entrambi.
Ti osservai, accorgendomi che perfino le lacrime bagnavano le mie gote e le tue.
Sulla fronte i segni di una ferita e il sangue che ti colava leggermente a rivoli. 
“Gianluca…
Gianluca…
Gianluca…” Dissi, sospirando e urlando senza fiato.
Non ti svegliasti, Gianluca. Forse eri già morto. Prima di me, senza soffrire.
 
Guardai fuori dal finestrino, non si vedeva nulla.
Ebbi paura. Paura di non saper morire, paura di morire soffrendo.
Avevo sempre desiderato morire chiudendo gli occhi.
Un attimo c’ero e l’attimo dopo ero scomparsa.
Invece stavo morendo nel peggiore dei modi: soffocando.
I miei polmoni si sarebbero presto gonfiati d’acqua e, lentamente e atrocemente, avrei abbandonato questo mondo.
Allora tornai a urlare. Tentai di rompere il finestrino… Fu tutto vano.
Mi slacciai la mia cintura di sicurezza e la tua, Gianluca, e continuai a sferrare i colpi sul finestrino.
L’acqua era arrivata fino al petto, quando persi le speranze.
Volevo combattere ancora, ma mi mancavano le forze.
Ti guardai nuovamente e singhiozzai.
Dovevo accettare di morire.
Perché dovevo morire così? Chi aveva deciso di farmi fare quella fine?
 
Gianluca…
 
No, tu non avevi colpe. La tua vita era stata fin troppo crudele con te, non potevo incolparti ancora.
Mi rimproverai, mentre morivo, perché avevo deciso di affrontare il discorso di lasciarti superficialmente. Quando non mi ero mai concessa nella vita di essere superficiale.
Ero stata una stupida a parlarti in quel modo.
Avrei dovuto cercare altri modi e altro luogo soprattutto. Meritava la giusta fine la nostra storia.
 
Non che fossi un santo, stavo morendo per te. Però… le colpe erano da parte di entrambi.
 
Le colpe…
 
Quando l’acqua ci inondò totalmente pensai a quelle: Le nostre colpe, le stesse che ora mi stavano torturando, insieme all’acqua fangosa del lago.
Trattenni il respiro, nonostante sapessi quanto fosse inutile avevo ancora delle speranze di farcela. L’istinto di sopravvivenza fu più forte delle mie forze già dissipate.
Poi, però, la scorta d’aria terminò… E iniziò l’agonia.
Era come credevo: morire in quel modo era davvero straziante.
Volevo respirare e avevo solo acqua.
Volevo ossigeno e avevo soltanto acqua.
Volevo vivere e avevo solo morte.
Non ti guardai, faceva troppo male…
Mi muovevo per inerzia, spasmodicamente, afflitta e torturata.
Volevo la pace e avevo solo strazio.
Volevo la fine e continuavo a sentire dolore.
Poi, però, arrivò lentamente. Mi bloccai, come fossi una fotografia, afflosciandomi appena sul sedile insieme alle mie speranze inutili.
E quando chiusi gli occhi, la mente annebbiata dall’acqua che, dopo pochi minuti, aveva avuto la meglio, lo feci con l’immagine di due occhi estranei che mi osservavano spaventati dall’altra parte del finestrino.
Eccola lì, la morte.
Aveva occhi verdi, la morte.
 
Poi, abbandonai il mondo con lei. Non sentii più dolore.
*
Inaspettatamente, aprii gli occhi.
Era stato solo un sogno, fu il primo pensiero che mi accolse.
Era stato soltanto un incubo.
Non ero morta.
Non ero caduta in un lago…
Il bianco di una stanza, però, mi fece ricredere.
Con la vista ancora piuttosto annebbiata mi guardai attorno. Ero in un ospedale e fu la macchina che continuava a segnalare con un bip fastidioso i miei segni vitali a suggerirmelo.
Era successo, allora. Non era stato affatto un sogno.
Non sapevo quanti giorni fossero trascorsi, se di giorni si potesse parlare. Ma quando mi voltai verso la mia sinistra vidi quegli stessi occhi verdi che avevo visto poco prima di morire.
Allora, pensai, non dovevano essere trascorse nemmeno un paio d’ore. Forse non eravamo caduti in un lago, forse ci eravamo schiantati contro un albero e la mia mente mi aveva giocato dei brutti scherzi…
Ma poi… Agonia. La sensazione di rimanere senza respiro. Il panico di essere in procinto di morte... Fu un attimo quando ricordai che cosa era accaduto, davvero. Ricordai tutto quanto.
Mi girai verso quegli occhi che ora mi sorridevano stanchi, incerti, meravigliati. E riuscirono a calmarmi; e forse ci riuscirono soltanto perché appartenevano a colui che mi aveva riportata alla vita.
Quelle iridi, pensai, non erano più spaventate, come avevo pensato fossero dietro un finestrino nel buio del lago.
E, soprattutto, non appartenevano alla Morte.
Ero ancora lì, viva. Doveva essere un miracolo.
 
“Bentornata” La sua voce limpida, carezzevole, mi cullò nel dormiveglia in cui ero caduta da…
 
“C-cosa è successo?” Bofonchiai, la voce inaridita mi graffiò la gola arsa. Feci una smorfia di dolore e lui, il mio salvatore, se ne accorse, sorridendomi e affrettandosi a porgermi un bicchiere d’acqua.
Sapevo benissimo cosa era successo. Soltanto che non volevo accettarlo. Era troppo difficile anche solo provarci.
 
“Te ne parlerò più avanti…” Mi sussurrò, mentre alcuni medici e alcune infermiere si frapponevano fra di noi, fra me e lo sconosciuto.
 
Il dottore mi informò della mia situazione: ero rimasta priva di coscienza per un giorno.
Mi disse che senza l’aiuto del ragazzo dagli occhi verdi non sarei stata così fortunata e che il suo intervento, repentino, non mi aveva causato nessun danno celebrale.
Nessuno, però, accennava alle condizioni di Gianluca.
E nemmeno io, in un primo momento, ci pensai.
Poi fu come un fulmine a ciel sereno; squarciò l’atmosfera serena che tutti avevano contribuito a creare affinché mi svegliassi tranquillamente.
Perfino i miei genitori, che mi avevano abbracciata con le lacrime agli occhi, non mi parlarono di Gianluca.
Nessuno, nessuno osava chiamarlo in causa.
Aveva tentato di uccidermi. Lo sapevano, loro, oppure ne ero a conoscenza soltanto io?
Non aspettai molto per cercare le mie risposte.
D’altronde, oltre a voler essere informata su come il mio salvatore fosse riuscito a salvarmi, volevo sapere dell’unica persona della quale mi importava sul serio.
Sì, Gianluca, lui… Anche se aveva tentato di uccidermi, mi importava sapere che fosse ancora vivo, che fosse ancora tra di noi, miracolosamente, come me.
Perché nemmeno lui, dopotutto, meritava di morire. Perché l’amavo troppo, per desiderare la sua morte.
Anche se mi aveva quasi ucciso.
 
“Gianluca…Gianluca dov’è? Come sta?” Chiesi celermente ai miei genitori, poco dopo l’uscita dei dottori.
Mi circondavano di mille attenzioni, stazionandosi attorno al letto ma non parlavano. Perché non parlavano?
Il ragazzo dagli occhi verdi seduto accanto a me, senza la minima intenzione di andarsene, abbassò lo sguardo. Sconfitto.
 
“Caro… Gianluca…” Quel tentennamento mi fece sussultare sul posto. Ero debole, perciò fu appena accennato e nessuno se ne accorse.
Solo lui, l’angelo che mi aveva salvato – e che speravo ci avesse salvato – notò la mia paura. E quello che vidi riflesso nei suoi occhi, mi spaventò notevolmente.
Lui, a differenza dei miei, sapeva.
 
“Ho preso prima te” Sbottò atono, guardandomi severo.
Sapeva, sapeva che quello era stato un tentato omicidio. Sapeva che Gianluca aveva cercato di ammazzarsi e ammazzarmi.
Ma come? Come poteva anche solo pensarlo?
 
“E lui?” Ululai senza voce, esasperata. Nei suoi occhi lampeggiò qualcosa di indecifrabile.
 
“Davvero ti interessa saperlo?” Tagliò corto, insieme alla mia ultima speranza di essermi sbagliata.
 
“Non sono affari che ti riguardano!” Urlai, questa volta con un po’ di voce. Lo sconosciuto sbarrò gli occhi inorridendo.
 
“Caro, calmati… Federico sta solo cercando di…”
 
“Calmarmi? Perché dovrei calmarmi?” Stavo decisamente esagerando. Ma la mia sensazione si stava intensificando: nessuno voleva dirmi la verità.
E Federico, il mio salvatore, sapeva.
 
Aveva detto la realtà dei fatti anche ai miei genitori o aveva atteso lasciandoci il beneficio del dubbio?
 
Rabbrividii. Gianluca non meritava questo.
No, solo io avevo il diritto di giudicare ciò che aveva fatto.
E io, per quanto assurdo fosse, lo avevo perdonato fin da subito. Perché l’amavo, troppo.
“I tuoi genitori stanno soltanto cercando di dirti che Gianluca, il tuo fidanzato, è in coma. I medici stanno temporeggiando, ma affermano che ci sono pochissime speranze per lui. Soltanto un miracolo può salvarlo” Abbozzò Federico, tagliente. Bastava aggiungesse: “Merita di morire” e il suo discorso, ciò che pensava veramente, era completo.
Mi fece male.
Sapeva e, ancora prima di poter dire la mia, mi stava giudicando.
Ero confusa, probabilmente da tutti quei cocktail di medicinali, ma sentii di odiarlo. Sì, nonostante mi avesse salvato la vita. Nonostante ci avesse salvato la vita.
 
“Voglio vederlo.” Dissi, serafica. Il volto di Federico si aprì ancora di più in stupore.
 
“C-certo. Più tardi, quando ti riprenderai.” Aveva balbettato mio padre, sorridendomi.
No, i miei genitori non sapevano nulla. Mi voltai a guardare Federico, rincuorata ma scettica.
Forse la mia era soltanto una brutta sensazione, nei suoi confronti. Forse lo stavo giudicando troppo in fretta.
Per un attimo mi ricredetti su di lui.
Mi sbagliavo.
 
“No, adesso. Devo stargli vicino, deve svegliarsi…Quando…quando aprirà gli occhi deve sapere che ci sono. Devo stargli accanto, adesso.” Mi lamentai, contorcendomi nel letto.
Federico e i suoi occhi verdi si pararono davanti al mio viso. “Calmati” E lo feci, immobilizzata sotto il suo sguardo. “Vado a parlare con il dottore, se si può fare ti accompagnerò io, di persona. D’accordo?” Annuii solamente, avviluppata dalla sua voce inflessibile.
Era un ragazzo della mia età, Federico, e l’avevo visto di sfuggita in giro per il paese; ma non mi ero mai soffermata maggiormente a osservarlo. Dopotutto ero fidanzata. Avevo Gianluca, da sempre.
E mi ripetei che ero sotto farmaci e completamente intontita, perciò quelle strane reazioni erano causate soltanto da questo.
Non perché fossi irreversibilmente legata a chi mi aveva salvato. Sarebbe stato l’impeccabile cliché che mancava a quella situazione. La mia vita, a quel punto, era piena di cliché… Non ne avevo bisogno di uno in più.
 
Federico comparve pochi minuti dopo, scuro in volto. Immaginai che il dottore avesse dato il suo consenso e che, palesemente, nessuno fosse d’accordo con lui: né i miei genitori né Federico.
Ma, poi, chi era Federico? Nessuno. Mi aveva soltanto salvato la vita. Era un estraneo.
Io dovevo vedere Gianluca, dovevo stargli accanto e aspettare che si svegliasse, dirgli che lo avevo perdonato, che avevo sbagliato a parlargli in quel modo, che l’avremmo affrontato piano quel problema, perché l’amavo troppo… E non l’avrei mai abbandonato.
Fu sempre Federico, una volta sistematami sulla sedia a rotelle con la flebo e i vari aggeggi fastidiosi, poche ore dopo, a condurmi da Gianluca.
Era in prognosi riservata. L’accesso esclusivo ridotto a pochissime persone.
Federico dovette perfino cambiarsi e indossare quella bruttissima tuta verde per accompagnarmi.
Dietro il vetro che dava sulla stanza, dove Gianluca sostava privo di sensi, sdraiato sul letto, Federico mi tolse ogni dubbio.
 
“Lo sai quello che ti ha fatto oppure ti ostini a non voler accettare la realtà?” Sbottò alle mie spalle, raggelandomi.
 
“N-non so di cosa tu stia parlando” Tentennai. Lo sentii sbuffare.
 
“Opto per l’ostinazione.” Continuò.
 
“Smettila, chi sei tu per giudicare?” Affermai a denti stretti, le lacrime sul punto di scendere e riversarsi sulle mie gote.
 
“Sono quello che te l’ha salvata, la vita. E quello lì è quello che ha tentato di togliertela” Sbottò, sincero. Guardandomi con astio.
Era arrabbiato, esausto. Ma perché, se nemmeno mi conosceva?
 
“Tu non sai niente. Siamo andati fuori strada, Gianluca non avrebbe mai tentato di ucciderci…” Mentii.
E me ne stupii, perché nella mia vita non avevo mai mentito. Mai.
 
“Non ci sono segni di frenata, Carolina. E io ero dietro di voi, mi avete superato poco prima del... salto. Ripeto, forse il concetto non ti è chiaro: quello si è gettato dal dirupo volontariamente.”
 
Rimanemmo in silenzio. Federico era il ragazzo che Gianluca aveva sorpassato poco prima di gettarsi. Federico aveva visto tutto. Federico si era buttato dal dirupo e ci aveva salvati.
 
“Se la pensi così, se pensi che Gianluca meritasse di morire, perché erano queste le sue intenzioni, perché l’hai salvato? Perché?” Urlai, squarciando il silenzio che ci aveva avvolto cercando la solita calma dell’ospedale.
 
“Perché tu non me l’avresti mai perdonato…” Affermò, prima di abbandonare la stanza. Prima di abbandonarmi con la bocca aperta, stupita.
 
Perché avevo come la sensazione di conoscerlo, quel ragazzo?
 
*
Non rividi più Federico dopo il mio risveglio.
E Gianluca si svegliò un mese dopo, miracolosamente.
Ogni dì, di quei 31 lunghissimi giorni, ero andata nella stanza in cui dormiva e lo avevo guardato, sperando nel suo risveglio.
Ogni dì avevo letto per lui, avevo parlato con lui, sperando di vederlo tornare a vivere.
 
“Svegliati, Giangi, perché io ti ho perdonato e tu devi saperlo. Perché meriti di vivere, meriti di essere felice. Tua madre ti vorrebbe ancora qui, tra di noi, perché non è egoista, lei, perché non ti vuole con lei. Perciò svegliati, io ti ho perdonato. Te lo giuro.
Torna da noi, non ti succederà nulla. Parleremo ancora, rideremo ancora e dimenticheremo. Dimenticheremo tutto, Giangi. E ho bisogno di te come tu hai bisogno di me. Svegliati, Giangi… Tuo padre e tuo fratello hanno bisogno di te. Dimenticheremo tutto… Tutto… E affronteremo le cose con calma, insieme…” Ogni volta, poi, avevo finito col piangere.
 
Le speranze, però, di rivedere i suoi occhi e il suo sorriso… Non vennero mai meno.
 
Così, un giorno, mentre gli stringevo la mano, ancora piena di speranze, Gianluca esaudì le mie preghiere: si svegliò.
La prima cosa che mi disse, quando mi mise a fuoco fu: “Mi dispiace, Caro. Perdonami”
 
L’avevo sentito solo io. Sapevo soltanto io la verità di quelle parole – e Federico – ma l’avevo già perdonato. Fin da subito, ancor prima di morire.
Perciò piansi a dirotto, abbracciandolo e ringraziando il cielo, Dio, e la madre di Gianluca che me l’avevano riportato indietro.
 
“Ti avevo già perdonato, ti avevo già perdonato…” Farfugliai.
 
L’avevo perdonato, subito, senza ripensamenti.
Però le cose non sarebbero mai state facili dopo il giorno in cui Gianluca aveva tentato di uccidermi, lo sapevamo entrambi.
 
 
 
 
Fine.
 
 
 
Questa notte ho fatto questo sogno. In realtà finiva diversamente, ma scrivendo mi sono sentita di cambiare un po’ le cose.
Premetto che è la prima volta che tento di scrivere qualcosa di drammatico e… non so se ci sono riuscita, perciò se vi va e avete voglia, scrivetemi ciò che ne pensate!
 
Grazie in anticipo.
 
Un abbraccio,
DolceVenereDiRimmel
   
 
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