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Autore: dilpa93    16/05/2013    4 recensioni
Solo allora, sentendo il suo nome, la donna alzò la testa incrociando lo sguardo del nuovo arrivato.
Lui la scrutò a fondo. Nei suoi occhi verdi aveva trovato più di quanto potesse immaginare, aveva trovato la pace.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Rick Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Arrivò quando il sole aveva cominciato a calare. Sceso dall’auto, diede una rapida occhiata al palazzo. Riguardò l’indirizzo sul foglio stropicciato che, piegato in quattro parti, teneva nella tasca dei jeans. Era quello giusto.
L’edificio era abbastanza vecchio, ingrigito e cupo. Cercò il cognome sul citofono laccato in finto oro.
“Si?”
“Signora Johnson? Sono il detective Richard Castle, avrei bisogno di parlare con suo fratello Thomas.”
“Un secondo...” La udì mormorare intimorita prima di sentirla bisbigliare con il fratello. “Le apro subito. Terzo piano.”
“Molto gentile.”
Prese il piccolo ed angusto ascensore. Stretto tra quattro mura infilò la mano nella tasca della giacca cercando qualcosa.
 
“Detective Castle, mi spiace che sia dovuto venire fin qui.”
“Non si preoccupi, è stato un viaggio breve.”
“Ci sono sviluppi sul caso?”
“Veramente-”
“Scusate se vi interrompo.” Ecco di nuovo la voce femminile che gli aveva risposto al citofono. Ora più dolce e meno metallica. “Posso offrirvi qualcosa?”
“Per me nulla, la ringrazio.”
“No, grazie Rose. Stava dicendo?”
“Avrei bisogno di mostrare una cosa a Kai.”
“Vorrei tenerlo lontano da questa storia se non le dispiace. È già abbastanza difficile così.”
“La capisco, ma non glielo chiederei se non fosse importante. Cinque minuti, non di più, glielo prometto.”
“Va bene. Torno subito.”
 
Kai arrivò correndo, si catapultò da lui e gli sorrise. Un sorriso spontaneo, ingenuo, come solo quello di un bambino di sei anni può essere.
“Ciao Kai, guarda cosa ti ho portato.” Dalla tasca tirò fuori una piccola automobilina rosso fiammante.
“Grazie.” Mormorò timido.
“Senti Kai, ti ricordi quando sei venuto con me al distretto?”
Il piccolo annuì convulsamente anche se molto concentrato sul suo nuovo giocattolo.
“Mi hai descritto l’uomo che avevi visto... Facciamo un gioco, ti va? Io ti faccio vedere qualche foto, e tu mi dici se riconosci qualcuno, ci stai?”
“Si.”
“Molto bene.”
Dopo aver preso le foto dalla tracolla le posizionò sul tavolino davanti a sé. Prese il piccolo e lo fece salire sulle sue ginocchia, circondandogli il petto con le braccia per non rischiare che cadesse.
“Allora, che mi dici?”
Il bambino osservò a lungo le foto, mentre nella sua testa si formulavano pensieri come ‘troppo grasso, troppo magro, troppi tatuaggi, troppi capelli, troppo pochi, ha i baffi’. Fino a che non ebbe individuato quello giusto.
Lo indicò con l’indice, stringendosi poi di più al petto del detective.
“Grazie Kai, sei stato davvero bravo.” Commentò soddisfatto.
“Ora perché non vai a guardare un po’ di televisione con Tj?” Alzatosi si allontanò senza dire una parola. “Ehi, non si saluta?” Lo richiamò il padre.
“Ciao...”
“Ciao campione.”
“Lei sapeva già che era questo l’uomo, non è vero?” Aspettò che il figlio si allontanasse prima di porgli questa domanda.
“Corrispondeva alla descrizione fatta da suo figlio, ma non potevo esserne certo. Sono davvero dispiaciuto per quello che state passando, e mi creda, non lo avrei fatto se non fosse stato strettamente necessario.”
“È solo un ragazzo…” constatò mesto, “lo prenderete?”
“Lo spero tanto. La ringrazio per la sua disponibilità.” Si strinsero la mano e Castle poté sentire l’alone di sudore su quella dell’uomo a simboleggiare la sua ansia.
“L’accompagno.”
“Non si disturbi, conosco la strada.”
 
Salì in macchina e guidò di fretta. Aveva una terribile voglia di vedere sua figlia. Quando succedono cose del genere, quando ti avvicini troppo a certe realtà, tanto che riesci in qualche modo a rimanerne scottato, qualcosa si muove dentro di te. Lui aveva visto il modo in cui Thomas avrebbe potuto perdere il figlio, e in lui era scattata una molla. Ne aveva sentito il chiaro ed indiscusso clic, si era innescata quella parte di carattere che lo faceva diventare  iperprotettivo. Si era innescata la paura di poterla perdere e la consapevolezza che senza di lei sarebbe morto anche lui.
 
La radio accesa stava trasmettendo le news delle ultime ore. Stava ancora pensando ad Alexis quando una notizia gli fece tendere l’orecchio. Con un gesto automatico alzò il volume.
 
‘Rilasciato oggi l’identikit dello Sgozzatore di Boston’, ogni volta che lo appellavano così sentiva una morsa terrificante alla bocca dello stomaco. La trovava un’assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle vittime e dei loro cari. Lo vedeva come un modo di allentare la tensione, ma il tono con cui veniva pronunciato quel nominativo… sembravano volerci scherzare sopra. ‘Il serial killer sarebbe stato identificato. Si tratterebbe di Peter Tisdale, recluso per anni in una clinica psichiatrica e rilasciato lo scorso anno. Il portavoce dell’FBI, che ha tenuto la conferenza stampa poche ore fa, ha sottolineato l’impegno della squadra nel catturare l’assassino.’
Era quasi arrivato a casa, fece bruscamente inversione e, accompagnato dallo stridore degli pneumatici, si diresse di volata al distretto.
 
“Che cos’è questa storia Tobias?”
“Buona sera Richard.”
“Allora?” Intimò sbattendo entrambi le mani sulla scrivania.
“Di cosa parli?”
“Non fare finta di nulla! Come ha fatto la stampa a sapere di Peter Tisdale?”
“Non ho avuto altra scelta Rick.”
“Si ha sempre una scelta. Patricia non avrebbe dovuto…”
“Patricia non c’entra nulla. L’FBI è venuto qui, non ho potuto fare niente.”
“Ancora non eravamo certi fosse lui il nostro uomo. E se mi fossi sbagliato?”
“Ma non è così non è vero?”
“Non avevano il diritto di-”
“Lo avevano invece. Il caso è loro. Non mio, non tuo… loro. Ho sbagliato io a lasciarti andare in quella casa.”
“Se non ci fossi andato a quest’ora quel bambino sarebbe ancora dentro al ripostiglio!”
“È vero, ma ormai non puoi farci nulla. Sono andati a penderlo.” Disse rassegnato il capitano.
“Cosa? Devo andare.”
Tobias scosse la testa; non sarebbe mai cambiato.
 
Arrivò alla casa. La rete intorno alla proprietà e il cancelletto erano arrugginiti, l’erba del prato inaridita.
Infilò il giubbetto avvicinandosi agli agenti. Fortunatamente sembrava non fossero ancora intervenuti.
Non voleva che per sfuggirgli si facesse uccidere, o peggio, si uccidesse. Doveva pagare per il male commesso, non poteva scamparla con un atto estremo.
 
Si schiarì la voce alle spalle di un uomo corpulento, intento ad impartire ordini senza, almeno per Castle, avere la minima idea di quello che stava facendo.
“Mi scusi, agente Fallon, giusto?” Quando si voltò verso di lui, Richard vide due occhi scuri, torvi, scrutarlo perplessi.
“Si, lei è…?” Domandò storcendo il naso.
“L’uomo senza il quale non avreste mai scoperto la sua identità.” Disse sicuro indicando la proprietà.
“Bene. Presuntuoso il ragazzo.” Suggerì ai colleghi voltandosi verso di loro. Quando tornò ad incontrare gli occhi di Castle li vide lanciare fiamme.
“Mi ascolti bene. Il ragazzo è mentalmente instabile, sarà arrabbiato, spaventato, non potete permettervi che faccia sciocchezze.”
“Vorrebbe insegnarmi a fare il mio lavoro?”
“È anche il mio di lavoro. Il fatto che faccia parte di un’agenzia governativa non la rende migliore o superiore. Volete prenderlo vivo? Fateci parlare me, saprò convincerlo.”
“Non se ne parla. Vuole stare qui? Faccia pure, ma non intralci me o i miei uomini.”
“Sbruffone…” sibilò Richard a denti stretti. Sarebbe rimasto lì, nessuno lo avrebbe mandato via. Non ci sarebbero riusciti neanche con la forza.
 
 
Quando finalmente mise piede a casa albeggiava appena.
Lanciò la giacca sul divano mancandolo, ma, senza scomporsi, la lasciò a terra ed andò a prendere qualcosa di forte da bere. Poco gli importava se il suo turno sarebbe cominciato tra poco più di tre ore.
L’azione intrapresa era durata a lungo ed era stata un completo fallimento.
Era stato costretto a rimanere in silenzio, a guardare mentre se lo facevano scappare da sotto il naso.
Il tentativo di farlo uscire non aveva funzionato. Peter, come previsto da Castle, era impazzito, si era terribilmente spaventato, convinto di essere intoccabile e che nessuno lo avrebbe mai scoperto. La sua psicopatia era tornata ad invaderlo dal profondo. Aveva minacciato di uccidersi, poi di uscire e sparare a tutti.
‘Chi cazzo mi ha scoperto, chi?!’
Aveva urlato nascosto dallo stipite della porta. Erano partiti un paio di colpi che avevano scheggiato la porta di ingresso.
‘Basta o sparo, sparo e mi ammazzo, giuro che lo faccio!’ era nevrotico oramai; si era torturato il viso, gli occhi iniettati di sangue, aveva perso ogni controllo. ‘voglio sapere chi!’ aveva ripetuto.
E dalla bocca di Fallon, attraverso il megafono, era uscito quel nome.
“Il detective Richard Castle.”
Castle non aveva detto nulla. In quel momento probabilmente anche lui avrebbe fatto il nome che gli era stato richiesto, ma, ripensandoci ora, non poteva fare a meno che essere infuriato, amareggiato… preoccupato.
Ricevette una chiamata, il telefonino aveva vibrato estendendo il tremolio lungo il suo corpo.
Si era allontanato di qualche passo prima di rispondere “Pronto?”
“Richard? Sono Patricia. Ho scoperto qualcosa che credo possa esserti utile visto dove sei ora.”
“Come fai a sapere dove mi trovo?”
“Ho le mie fonti, ho orecchie ovunque. Ora ascoltami bene. Peter divide la casa con un ragazzo, Samuel Hunt. Potrebbe essere dentro in questo momento.”
“D’accordo. Devo andare.”
“Rick… sii prudente.”
“Non lo sono sempre?”
Era tornato indietro correndo e il giubbotto antiproiettile aveva sfregato contro la parte superiore delle cosce.
“Agente Fallon. Mi hanno appena comunicato che Tisdale divide la casa con un suo coetaneo, un certo Samuel. Potrebbe averlo come ostaggio.”
“Un ostaggio? Ne è sicuro?”
“No, ma…”
“Questo mi basta.”
“Non può ignorare questa possibilità.”
“Non la ignorerò, ma lei si faccia da parte.”
 
Seguirono colpi, altre urla, ed infine uno sparo dentro la casa che arrivò alle loro orecchie acuto come lo stridore delle unghie su di una lavagna.
Castle si era catapultato all’interno, ignorando il divieto impartitogli da una voce roca, ma energica.
Il cadavere di Samuel giaceva riverso sul pavimento accanto ad una botola socchiusa.
Non ci aveva pensato due volte e l’aveva aperta, ma neanche un passo era riuscito a fare prima di sentire l’imponente mole dell’agente Fallon contro il suo corpo. Gli aveva impedito di intervenire, lo aveva bloccato, letteralmente, e lui non aveva voluto mettersi a discutere in quel frangente. L’unica cosa che gli importava, a quel punto, era riuscire a fermarlo.
Era l’unica cosa che contava, e l’unica che, invece, non erano riusciti a fare.
 
Si domandava ancora come fosse riuscito a scappare, come avessero fatto a perderlo lì, in quel cunicolo che sbucava sul lato opposto della strada.
Peter era scomparso, dileguato nell’oscurità della notte.
 
 
Si scolò un paio di bicchieri di whisky; si incamminò verso la camera della figlia e rimase un po’ guardarla dormire. Rigirandosi nel letto si scoprì, a coprirle le gambe c’erano solo i corti pantaloncini che usava come pigiama, e per un attimo le sembrò di rivederla bambina. Si avvicinò cauto, per non turbare il suo sonno, le tirò su il lenzuolo e le lasciò un bacio tra i capelli ramati.
Stava crescendo in fretta, e più il tempo passava, più si convinceva che somigliasse alla madre, soprattutto esteriormente.
Nei suoi occhi rivedeva lei.
 
La mattina dopo si svegliò con un forte mal di testa. Lanciò una distratta occhiata intorno a sé. La camicia e i pantaloni che si era tolto la sera prima erano appesi alla maniglia della porta, le scarpe erano all’ingresso della camera, le aveva lasciate lì con particolare non curanza.
La giacca doveva essere ancora sul pavimento in salotto.
Prese il cellulare accendendolo; 4 chiamate perse dal distretto. Per ultima diede una scorsa all’orario constatando di essere in ritardo.
Alzatosi, corse in cucina per farsi un caffè tentando così di svegliarsi il più possibile prima di andare al lavoro e la trovò intenta a preparare la colazione.
“Alexis, cosa ci fai a casa?”
“Ieri ti ho aspettata alzata, alle tre non vedendoti tornare sono andata a dormire, ero preoccupata.”
“Mi dispiace.”
“Non fa nulla”, disse sorridendogli angelica, “ad ogni modo…” proseguì dopo aver assaggiato le uova, “quando mi sono svegliata ho controllato se ci fossi, e visto in che stato eri, e in che condizioni era la stanza, ho creduto che ti avrebbe fatto piacere una bella colazione. Se salto un girono di scuola non succede nulla. Più tardi chiamo Julia e mi faccio dare i compiti.”
“Te l’ho mai detto quanto sei straordinaria e quanto ti voglio bene?”
“No, non nelle ultime ventiquattro ore almeno.” Scherzò.
“Ti voglio bene tesoro. Non dimenticarlo mai.” Disse con tono improvvisamente serio.
“È successo qualcosa?” Chiese mentre si sentiva stringere nel suo caldo e confortevole abbraccio.
“Attacco di genitorite acuta.” Mentì dandole poi un bacio sulla guancia.
 
Come avrebbe potuto dirle che temeva che quel pazzo lo avrebbe trovato e ucciso?
Non poteva, non doveva.
 
Se solo avesse saputo quanto la sua teoria fosse stata sbagliata forse… forse gliene avrebbe parlato, forse l’avrebbe mandata via per un po’, magari dalla nonna.
Forse l’avrebbe protetta.
 
Erano un grande Forse e un grande Se. Ed entrambi ora gli bruciavano dentro come fuoco divampato in un bosco.
  
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