Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Serenity Moon    17/05/2013    3 recensioni
"L'ora che precede l'alba è sempre quella più nera, ma piano piano, i raggi del sole cominciano a far capolino. Con una lentezza dilaniante, squarciano le nubi e colorano il cielo di infiniti miliardi di sfumature. E' quello lo spettacolo più bello, l'attimo prima dell'alba. L'istante in cui il sole si fa attendere, hai paura che non arrivi più, ma sai che c'è, devi solo dargli il tempo giusto perché sorga e ti abbagli, in tutto il suo splendore.
Ed io ero così. Ero un'alba che aspettava di nascere.
E lui era la Terra che gira. Mi ha dato vita e luce e poi me le ha tolte entrambe".
Dopo tanta attesa, ecco finalmente, il prequel di 'Bitch'.
Bentornata, Jude.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Bitch '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vi avviso, non finisce mai. Spero possiate perdonare quest'assurdo ritardo. Le note in basso.

 

Dawning Bitch

 

 

# 9

 

Le donne hanno lo strano istinto di aggrapparsi al pugnale che le trafigge”.

 

Jerome

 

Everybody hurts (parte 2)

 

«NO!».

Dovevo fermare Vanessa. Non si rendeva conto del disastro che stava per combinare. Mossi un paio di passi in sua direzione ma Dave mi trattenne per il braccio.

«Se Ryan torna e non ti trova, penserà che sei andata da lui» disse.

Atterrii a quell'eventualità e mi limitai a guardare i vetri, dietro i quali si stava consumando la mia rovina.

Come poteva farmi una cosa del genere? La mia migliore amica, poi! In cuor mio ringraziavo il fatto che fossimo venute con la sua auto, perché se avessimo preso la mia, sarei montata su e l'avrei lasciata lì, senza sensi di colpa.

«Beh, a questo punto deduco due possibilità: o non lo sa, oppure lo sa e non è d'accordo».

Sospirai senza guardarlo e gli bastò quella minima reazione per capire. Era intelligente questo Dave, mi piaceva ogni secondo di più.

«Non lo sa? Davvero? Ma è...».

«La mia migliore amica, lo so» lo interruppi. Mi voltai verso di lui esasperata. «Ma hai visto? E' curiosa e ha la lingua troppo lunga. Spiffererebbe tutto al primo che capita solo per un attimo di distrazione ed io non posso permettermi di perderlo per colpa di qualcun altro, anche se quel qualcuno è la mia migliore amica».

Dave corrucciò la fronte come per valutare il peso di quelle parole che io stessa consideravo orribili e diede voce ad uno dei miei pensieri più brutti, uno di quelli che cercavo di reprimere con tutta la mia forza, giù, in basso, dove il buio lo avrebbe inghiottito e fatto dimenticare.

«Stai rinunciando alla tua migliore amica per lui» constatò.

'E non solo a lei' aggiunsi fra me e me.

Rimanemmo per qualche secondo in silenzio, mentre un'auto blu metallizzato si avvicinava e parcheggiava poco lontano da noi. Ryan chiuse lo sportello con forza e si incamminò nella nostra direzione. Sia io sia Dave lo guardavamo attraversare quel poco spazio che ci divideva, con occhi assolutamente diversi. Per lui non c'era niente di speciale. Io mi sentivo più come un cieco che vede per la prima volta un'alba e viene abbagliato dalla sua immensità, consapevole di essere un miracolato.

Dave, maledettamente perspicace, mi lanciò un'occhiata tanto intensa da farmi quasi tremare.

«Sì, ne vale la pena» risposi alla sua domanda silenziosa, ma che avevo colto in pieno, poco prima che Ryan fosse accanto a me.

Si stava guardando intorno, ispezionando ogni angolo della zona, poi inaspettatamente, mi mise un braccio attorno alla vita e con l'altro mi sollevò il mento fino ad annullare del tutto la distanza tra i nostri visi e poggiare le sue labbra sulle mie.

In un millesimo di secondo avvampai, pur senza motivo. Non c'era nessuno in quel cortile a parte lui, io e Dave, che sapeva e si era già dimostrato nostro complice. Lui, a differenza mia, sembrava molto meno sorpreso per quel gesto. Abbassò la testa e sorrise.

«La vostra amica?» chiese Ryan curioso.

Rimasi zitta, lasciando a Dave l'onere e l'onore di quella risposta, sapendo già che la mia sarebbe stata fin troppo poco educata.

«Ufficialmente è andata al bagno».

«Da sola?».

Sarei volentieri scoppiata a ridere per il tono che aveva usato, un velo di scetticismo dovuto alle tante barzellette sulle ragazze che vanno al bagno sempre in coppia, però il pensiero di cosa stesse combinando quella screanzata mi innervosiva troppo.

«Ha qualcosa a che fare col fatto che l'ho vista parlare col tizio del botteghino?».

Strabuzzai gli occhi, imbalsamata dallo sgomento.

«Io la ammazzo» sussurrai affondando le mani nei capelli. «La ammazzo...».

Ryan mi strinse istintivamente. Non mi ci voleva chissà che per capire cosa gli passava per la testa. La solita lotta tra 'ciò che è giusto per Jude' e 'Jude'. Bastò un attimo. Il tempo di intrecciare le mie dita con le sue e l'ombra sul suo volto sparì.

«Pensi che si tratterrà molto da te?» mi chiese poi.

«Non credo. Ha preso l'auto di suo fratello e deve restituirgliela. Giusto il tempo di raccontarmi cinque volte di oggi».

«Cinque volte?». Dave strabuzzò gli occhi. Di che si sorprendeva? Cinque perché ero stata presente. Se non ci fossi stata sarebbero salite in maniera esorbitante.

«Vorrà sapere se ti ho contato i capelli in testa» gli risposi un po' velenosa.

Il codice delle amiche impediva di svelare trucchetti e segreti, ma visto come si stavano mettendo le cose, perché non farlo? Sapevo già che non avrei avuto altro modo per vendicarmi, dovevo approfittare dell'occasione.

«Senti Dave, fammi un favore. Invitala ad uscire. Tanto le piaci, quindi è inutile tergiversare».

«La gatta ha tirato fuori le unghie!» esclamò Ryan divertito.

«Mai pestarmi la coda» lo assecondai, fingendo una cattiveria che non era più mia da quando stavo con lui.

«Okay, la inviterò». Dave rideva quasi con le lacrime agli occhi. Chi doveva dirlo che la giornata avrebbe preso quella piega!

D'improvviso tornò serio. «Attenti» ci sussurrò e con un movimento fluido Ryan ed io prendemmo le distanze l'uno dall'altra. Vanessa si avvicinava come se nulla fosse, dondolando le braccia avanti ed indietro.

Azzardai un'occhiata verso Dave. Il sorriso che gli si era stampato in faccia la diceva lunga su quello che gli stava passando per la testa. Vanessa gli piaceva davvero. Quel pensiero, in qualche modo, mi rasserenò.

«Che avete così tanto da ridere?» urlò lei che era ancora lontana.

Aggrottai la fronte, le braccia incrociate sul petto e l'espressione più minacciosa che avessi in repertorio.

«Gli stavo raccontando di come ti avrei ammazzata».

«E perché? Che ho fatto?» chiese spalancando gli occhioni da falsa innocente.

Alzai le mani al cielo e girai i tacchi prima di combinare qualche disastro. Dave, divertitissimo, intervenne. Le mise un braccio attorno alle spalle e le bisbigliò qualcosa, talmente piano che non riuscii a sentire.

Ryan si teneva a distanza di sicurezza, osservando la scena di lato e ogni tanto mi lanciava uno sguardo veloce. Era il suo modo di tenermi d'occhio.

Io impazzivo dalla voglia di restare un po' da sola con lui. Non ce la facevo più ad aspettare. I secondi sembravano ore, le ore interi anni, interminabili. Era a meno di un metro da me, eppure allo stesso tempo, lontanissimo, impossibile da raggiungere, se non con un pensiero, ma nemmeno quello era sufficiente.

Dave fece in modo che lui e Vanessa ci dessero le spalle, così da impedirle di sbirciare verso di noi, semmai avessimo voluto fare o dire qualcosa. Entrambi i casi erano impossibili e pericolosissimi. Capivo perfettamente adesso quel modo di dire, stare con due piedi in una scarpa. I piedi in questione in quel momento erano quattro e la scarpa mezza.

Vanessa si portò una mano sulla guancia. Era segno che Dave le aveva chiesto qualcosa di imbarazzante ma che allo stesso tempo, lei desiderava tantissimo.

«Ottimo» mormorai tra me e me mentre lei annuiva vigorosamente. Missione compiuta. Adesso dovevo solo starla a sentire per tutto il tragitto di ritorno. Potevo farcela. O no?

«Ti chiamo appena va via» sussurrai a Ryan anticipandolo di un millesimo di secondo. Fece un cenno col capo in risposta e i commenti finirono lì. Dave e Vanessa erano già di ritorno, lei quasi saltellando, mi prese a braccetto.

«Calmati» le dissi e di botto tornò impassibile. Mi guardò schifata come se l'avessi insultata, ma in realtà sapeva benissimo che, secondo il suo astruso ragionamento, non si sarebbe mai permessa di perdere il controllo davanti a Dave. Se ne sarebbe vergognata a vita.

Chiacchierammo ancora un po'. Infine ci salutammo. Vanessa baciò Dave sulle guance, mi sembrò, con dolcezza, attardandosi un istante più di quanto chiunque altro avrebbe fatto. Si alzò sulle punte mentre Dave le cingeva un fianco, forse automaticamente, forse perché voleva proprio farlo, toccarla, avvicinarla a sé.

I fianchi sono zone delicatissime. Se le mani giuste vi si poggiano, niente sarà più lo stesso.

Sventolai la mano in un ciao generale e facendo forza su tutta la mia volontà, diedi le spalle a Ryan. Sentivo come se fosse qualcosa di estremamente sbagliato andarmene e lasciarlo lì. Qualcosa dentro di me, all'altezza dello stomaco, spingeva prepotentemente verso la direzione opposta a quella in cui stavo camminando e mi trascinava quasi, vincendo la mia debole resistenza, con la forza di un fiume in piena che, superate le ginocchia, impedisce ogni passo in avanti nonostante lo sforzo immane.

Non mi voltai indietro a controllare se fossero ancora lì solo perché Vanessa se ne sarebbe accorta. Lei felice come una pasqua, mi prese a braccetto e mi guidò verso l'auto simulando dei mezzi saltelli allegri. Mi lasciò solo di fronte allo sportello del passeggero, poi premette un pulsante e con un lampeggiare di luci, le serrature si sbloccarono.

«Sai» disse prima di salire, guardandomi dallo spiraglio tra il tettuccio e le sbarre dei portasci montati da suo fratello, «da lontano, sembrava quasi che tu e Ryan foste abbracciati».

Mi divampò dentro il fuoco solo a sentire il suo nome e probabilmente la verità mi si stampò in faccia, più chiara che se l'avessi ammessa io stessa, pronunciandola con la mia bocca, ma feci finta di nulla. Corrucciai la fronte, sorpresa e scossi leggermente il capo.

«Sarà stata la prospettiva» risposi con un'alzata di spalle.

«Eh già, a volte fa degli scherzi». E il discorso cadde lì.

Come avevo immaginato, Vanessa passò ogni secondo del tragitto verso casa parlando di Dave. Volle che le raccontassi ogni minimo dettaglio che, secondo lei, avevo scorto, captato e registrato su di lui, con il solo scopo di capire una volta per tutte se lei gli piaceva o no.

«Ti ha chiesto di uscire. Cosa ti serve ancora?» sbuffai dopo la quinta volta che analizzava il comportamento di lui durante la partita.

Eravamo ferme sotto casa mia da almeno mezzora, chiuse in macchina come delle adolescenti in fuga. Cominciavo a sentir freddo e il cellulare che vibrava in tasca iniziava a mettermi ansia, perché sapevo di chi erano i messaggi che stavano arrivando e non vedevo l'ora di rispondere.

«Non lo so. Non vorrei lo avesse fatto solo per educazione».

La fulminai.

«Vane, i ragazzi non chiedono di uscire per educazione. Dai, è difficile che sappiano pure cosa sia l'educazione, figuriamoci usarla. Vai tranquilla. E' fatta».

Le labbra di Vanessa di allargarono a dismisura in un sorriso contagioso che mi coinvolse. Mi abbracciò, grata per l'aiuto che le avevo dato e rimise in moto.

Scesa dall'auto, la guardai allontanarsi di gran carriera. Aveva fatto tardi, suo fratello gliene avrebbe dette un bel po'.

Mentre infilavo la chiave nella toppa, mi venne in mente il tizio del botteghino. Vanessa mi aveva intontita talmente tanto, da farmi totalmente dimenticare che anche io avevo la mia parte di cose da dirle.

Decisi di lasciar perdere. Probabilmente non aveva combinato nulla e potevo stare tranquilla. O perlomeno era quello che mi auguravo mentre prendevo il cellulare e componevo il numero di Ryan in fretta.

La sua voce meravigliosa non si perse in stupidi preamboli senza senso.

«Cinque minuti e sono lì» disse soltanto.

Contai 289 secondi ed ecco i fari della sua auto illuminare la strada di casa mia. Entrai, lasciando la porta socchiusa. Mi sbottonai il giubbotto e, sfilatomelo, lo poggiai sullo schienale di una sedia. La borsa giaceva a terra, scomposta.

La serratura schioccò nello stesso istante in cui le sue braccia mi cinsero i fianchi e la solita scossa elettrica pervase ogni mia terminazione nervosa.

Le mani giuste... Le mani giuste erano le sue, ne ero certa.

Ci baciammo. Finalmente un bacio vero, disperato e gioioso allo stesso tempo. Un bacio da soldato tornato dal fronte.

«Mi sei mancato» sussurrai. «Ti amo».

E le mie ginocchia di piegarono, i miei piedi si staccarono da terra. Mi ritrovai fra le sue braccia e poi sul letto, circondata da coperte disordinate e peluche immobili, da cuscini in un attimo spiegazzati e lenzuola calde.

In un attimo esplose il noi.

 

Io e la musica avevamo sempre avuto dei problemi. Cioè, io l'adoravo con tutta me stessa, era lei ad avercela a morte con me. Era un altro dei miei amori non corrisposti. Su suo esplicito invito, Madre Natura mi aveva resa una delle creature più stonate di questo mondo e andava bene, poco importava. Bastava chiudere il becco ed impedirmi di emettere il minimo suono che non fosse una parola normale. E' impossibile però evitare di canticchiare quando si è felici. A maggior ragione se si è felici e si sta preparando la colazione.

Quella mattina non riuscivo proprio a trattenermi. Sbattevo le uova con energia mentre mormoravo le note di una canzoncina allegra che avevo sentito chissà dove. Aggiunsi la farina mescolando per bene ed infine gettai un mestolo di impasto nella padella calda. Il composto si mise subito a sfrigolare mentre la cucina si riempiva del profumo dolce dei pancake caldi.

Sotto il mio naso, un altro odore, centinaia di migliaia di volte più buono di qualunque delizia, mi solleticava le narici e mi faceva sorridere. Avevo addosso la camicia di Ryan, ovviamente troppo grande, tanto che avevo dovuto arrotolarne le maniche fino ai gomiti per non macchiarle, ovviamente perfetta per il semplice fatto che era sua. Al mio polso, tintinnava il braccialetto che mi aveva regalato per il mio compleanno.

Con una spatola rivoltai il pancake perché cucinasse anche sull'altro lato e nell'attesa sgranocchiai un po' di cioccolato. Un paio di minuti dopo la frittella era pronta. Ripetei l'operazione per altre tre volte. Preparai il caffè e per la prima volta mi resi conto di quanto fosse poco sana la mia dieta. Non avevo nemmeno un'arancia da spremere per Ryan. Non c'era l'ombra di un frutto o di qualcosa che potesse avere anche solo una parvenza di genuinità in casa mia. La dispensa era piena di merendine al cioccolato, biscotti alla crema, barrette al mou e porcherie varie. Il latte, lo avevo chiesto alla mia vicina. Che vergogna!

Un rumore di passi mi fece voltare.

Ryan, teneramente insonnolito, si era fermato sulla soglia della porta ed osservava la scena con gli occhi non del tutto aperti.

Era una visione celestiale.

Aveva addosso solo i jeans, tenuti su da una cintura nera e l'elastico dei boxer grigi spuntava per almeno un paio di centimetri dall'orlo. Per poco non mi cadde il mestolo a terra.

«Buongiorno» dissi avvampando. Lui se ne accorse e sorrise. Si avvicinò, mi cinse la vita e mi posò un bacio leggero come un soffio, sulla guancia.

«Che stai combinando?» chiese con la voce impastata dal sonno.

Il ripiano della cucina assomigliava ad un campo di battaglia, tra ciotole, padelle e posate sporche.

«Ti preparo la colazione». Fu stupefacente osservare i suoi occhi illuminarsi per un attimo di una scintilla di felice sorpresa. Non se lo aspettava. Non era abituato a ricevere gesti simili?

«Ti sarai svegliata prestissimo...».

Feci spallucce. Per lui avrei fatto quello e altro. Perdere un'ora di sonno non mi sembrava più un gran sacrificio se lo facevo per lui, anzi, sarei rimasta sveglia per tutto il resto della mia vita, se solo avessi avuto in cambio la possibilità di guardarlo, ogni secondo di ogni minuto di ogni giorno, per sempre.

«Le mie occhiaie sono così brutte?» scherzai.

Ryan mi prese il viso fra le mani e mi passò i polpastrelli dei pollici sotto gli occhi, per cancellare quelle ipotetiche macchie nere dovute alla stanchezza. Abbassai le palpebre e mi lasciai trasportare da quel gesto così dolce.

«Sei bellissima» sussurrò e mi mancò il fiato.

Non mi ero mai sentita bella, carina forse, ma dopo ore di preparativi. Altri in passato me lo avevano detto, amiche, amici, fidanzati, ma mai da nessuno mi era sembrato così sincero, vero. Non era neanche la prima volta che me lo diceva, eppure ogni volta era come se non lo avesse mai fatto, come se mi stesse confessando qualcosa che non aveva il coraggio di dire apertamente e che io dovevo capire da sola.

«Se me lo ripeti ancora, finirò per crederci».

«E' la verità».

Non desideravo altro.

 

Sgranocchiavo cereali, seduta sulle gambe di Ryan. Avevo accettato di buon grado i complimenti per i pancake, a suo dire i migliori che avesse mai mangiato e approfittavo di quella mattinata da pubblicità dei biscotti. Un idillio perfetto catapultato nella realtà.

Avevo ancora solo la sua camicia addosso, mise che aveva gradito tanto quanto la colazione e di tanto in tanto lo imboccavo, alternando baci e cereali al miele, felice come una bambina sull'altalena in una giornata di sole.

«Che programmi hai per oggi?» chiese.

«Nulla, pomeriggio vado a lavoro, poi libera, tu?».

«Ho appuntamento con il carpentiere allo studio e poi devo comprare il colore per imbiancare le pareti».

Mi raddrizzai sorpresa. Era già ora di imbiancare? Mi sembrava passato così poco dall'ultima volta che ci ero stata. Avevano fatto in fretta. Tra pochissimo il suo sogno si sarebbe realizzato. Sorrisi entusiasta a quel pensiero.

«Amore, ma è meraviglioso!» esultai.

Teneva una mano sul mio fianco, come ancora di sicurezza semmai fossi caduta e l'altra intrecciata alla mia sulle mie cosce. Col pollice ogni tanto accarezzava i piccoli ciondoli del braccialetto.

Abbassò il capo, concentrandosi del tutto sulla sottile catenina dorata. Se la rigirava tra le dita, la attorcigliava, la annodava e poi snodava, come faceva di solito coi miei capelli. Non mi guardava.

Calò il silenzio. Volevo chiedergli se gli andava che lo aiutassi, ma avevo paura di sembrare troppo soffocante, di volergli rubare quel momento magico in cui si appropriava del tutto del suo sogno. Non volevo che si sentisse obbligato a condividerlo con me. Mi costrinsi a tener chiusa la bocca mentre disegnavo cerchietti sul suo collo.

Di scatto, raddrizzò la testa e mi fissò intensamente.

«Ti va di aiutarmi?» chiese.

Forse avrei dovuto cogliere quella nota di incertezza che colorava la sua voce. Forse me lo stava chiedendo solo perché sapeva che desideravo me lo chiedesse. Forse avrei dovuto dirgli no, grazie e lasciarlo godersi da solo i frutti del suo impegno.

«Mi piacerebbe molto» risposi senza pensarci su.

Il senno di poi è una gran fregatura.

 

Poco dopo andò via. Rassettai casa ed uscii a fare la spesa. Per la prima volta nella mia vita comprai della frutta. Dovetti farmi aiutare dalla commessa, visto che non avevo la più pallida idea di quello che stavo facendo. Matura, acerba, per me quelle cose erano tutte uguali e ugualmente disgustose. Ma a Ryan piacevano...

Feci scorta di quei famosi alimenti genuini che la mamma mi costringeva a mangiare da bambina 'perché facevano bene' e tornai a casa.

Un panino dopo ero già a lavoro, accerchiata da Christie e Sarah che mi aggiornavano sulle ultime novità. A sentir loro mi ero persa delle scene epiche durante la mia assenza per motivi di studio. Non mi ci volle chissà che cosa per essere certa che la scusa dei libri non se l'erano proprio bevuta.

Fortunatamente una frotta di clienti si riversò in negozio, lasciando poco spazio a minacce ed intimidazioni da parte delle mie adorate colleghe. Il lavoro ci sfinì. Passammo l'intero pomeriggio a correre da una parte all'altra del negozio, senza un attimo di riposo, tra adolescenti isteriche alla ricerca della maglietta perfetta per la festa del tizio di cui erano follemente innamorate e finte giovani dagli scandalosi pantaloni a vita bassa.

Mi stavo finalmente allacciando il giubbotto. Avevo imbracciato la borsa ed aspettavo che Strawberry desse tutte le mandate alla porta di vetro ed abbassasse la saracinesca a grata. Le avrei dato io un passaggio fino a casa. Le chiavi della mia auto tintinnavano fra le mie dita mentre digitavo un sms a Ryan. Era stato tutto il giorno in giro ed era esausto. Diceva che sarebbe andato a letto presto, dato che l'indomani la sveglia avrebbe suonato ad un orario a dir poco osceno. Povero tesoro mio.

«Possiamo andare».

Strawberry si alzò con fatica, il palmo della mano appoggiato sulla schiena, neanche avesse novant'anni. Salimmo in macchina e ci avviammo verso casa sua.

Quando squillò il cellulare sul cruscotto, trasalii. Poteva essere Ryan. E se Strawberry lo avesse visto? Si sarebbe insospettita. Avrebbe fatto domande? Cosa mi sarei inventata per giustificare una telefonata del genere? Che nesso poteva mai esistere fra me e Ryan? Lei lo conosceva? Sapeva chi era e come viveva la sua vita?

Le domande mi affollarono la mente ormai nel panico. Cercavo di mantenere l'attenzione sulla strada, onde evitare di andare a sbattere da qualche parte, ma ero troppo preoccupata. E il cellulare continuava a squillare.

«E' Vanessa» disse mia cugina, il volto illuminato dalla luce bluastra del display. In un attimo mi sentii una perfetta imbecille. Ero pronta a scattare in meno di un secondo ed inventare chissà che assurdo film senza capo né coda. Era il classico atteggiamento di chi ha qualcosa da nascondere, ne ero consapevole e non andava per niente bene.

«Metti in vivavoce, per favore?» chiesi.

Strawberry rispose ed attivò l'altoparlante del telefono. La voce entusiasta di Vanessa si sparse per tutto l'abitacolo.

«JUDE!».

«Ehi Vane, c'è anche Strawberry, sono in macchina».

«Ciao Vanessa» disse mia cugina per farsi sentire, un modo carino per avvertirla, 'se devi raccontare cose private, sappi che c'è qualcun altro che ascolta'.

«Ciao Strawberry! Da quanto tempo...» e Vanessa si perse in chiacchiere con mia cugina. Le raccontò un paio di aneddoti divertenti, sentii pure nominare un paio di volte Dave e alla fine, dopo una lunga risata su una certa coppia che entrambe conoscevano e a parer loro era assolutamente inguardabile, Vanessa si ricordò del perché aveva chiamato. Nel frattempo eravamo arrivate a casa di Strawberry.

«Jude, ti va di uscire domani sera? Facciamo un giro e poi ceniamo insieme, che ne dici?».

Ci pensai su un minuto abbondante, incerta se accettare o meno per paura di dover rinunciare ad un eventuale serata con Ryan per stare con lei.

«Non saprei, così su due piedi. Dovrei studiare» balbettai insicura pure della scusa da inventarmi. Per di più se le avessi detto che sarei rimasta a casa, sarebbe pure stata capace di venire lei stessa a controllare che fosse vero.

«Ma dai!» insistette lei e Strawberry accanto a me, fece un gesto eloquente.

«Non farti pregare» sussurrò. Lei era un'altra di quelle del partito 'Vai Jude, trova marito', cosa impossibile da fare restando chiusa in casa, col naso ben ficcato fra i libri.

«Vane, ti faccio sapere più tardi. Dammi il tempo di organizzarmi».

Vanessa sbuffò rumorosamente, alla fine si arrese, emettendo uno sconfortato 'okay', salutò e riagganciò.

Anche Strawberry mi salutò con due sonori baci sulle guance e, chiudendo delicatamente la portiera, entrò nello stabile dove viveva. Aspettai che le luci del suo appartamento si accendessero, dopodiché riavviai il motore e anche io me ne tornai a casa. Una volta in pigiama, passai un'altra buona mezzora al telefono con Ryan, prima che lui crollasse ed infine andai a letto, stanca e speranzosa.

 

E' strano come il tempo condizioni le nostre vite. Ne siamo irrimediabilmente immersi eppure a volte non ce ne accorgiamo neanche, altre invece, il suo peso diventa così insostenibile da soffocarci. Ci sono giornate che volano, altre che sembrano non finire mai. Momenti che tanto più li desideri, quanto più tardano ad arrivare e viceversa, altri che vorresti evitare e che invece ti cadono addosso, con tutta la loro potenza quando meno te lo aspetti, ma sempre troppo presto.

Capita che certe mattine volino, tra una chiacchierata con gli amici, una lezione all'università, una dolce telefonata e che ci si ritrovi a casa, convinti di non aver fatto nulla, quando in realtà, si è già fatto tanto.

Era appunto pomeriggio inoltrato. Stavo facendo il bucato, dopo essere stata in giro per tutta la mattinata. Alla fine, avevo detto a Vanessa che sarei uscita con lei, dopo che Ryan mi aveva comunicato a malincuore che non avrebbe fatto in tempo a venire da me. Aveva dei parenti a cena per quella sera e non poteva mancare o sua madre non glielo avrebbe perdonato. Altra giornata senza di lui, ergo, non poteva prospettarsi nulla di buono all'orizzonte. Fosse una coincidenza o solo opera del caso, se non vedevo Ryan, qualcosa era di sicuro destinato ad andare storto.

Vanessa sarebbe venuta a prendermi verso le 18, così tre quarti d'ora prima cominciai a prepararmi. Solita doccia, trucco leggero, jeans e camicia, fui pronta con ben cinque minuti di anticipo. Ero convinta di dover aspettare chissà quanto Vanessa, ritardataria per natura e invece alle 18 in punto suonò alla mia porta, lasciandomi basita. Ancora sulla soglia, scandagliò la mia mise centimetro per centimetro, dalla punta dei capelli a quella delle ballerine pendant con la cintura e la borsa.

«Non hai niente di meglio da metterti?» se ne uscì. La sua acidità avrebbe benissimo corroso il calcare sul rubinetto del mio bagno.

«Perché, che c'è che non va?» chiesi sospettosa. «Andiamo a farci un giro, mica ad un incontro ufficiale col principe di Monaco».

Vanessa lasciò perdere, mi prese per il polso e mi trascinò via, costringendomi a prendere la sua macchina. A dir la sua, la mia era troppo sporca.

Gironzolammo per strada alla ricerca del parcheggio perfetto almeno per un'ora. Tutti quelli che trovava, avevano qualcosa che non andava. Uno era troppo stretto, il che, per chi guida una Smart è come dire che la luna è marrone. Un altro troppo distante dal posto dove voleva andare, per poi ammettere lei stessa che non aveva la più pallida idea di dove trascorrere la serata.

Qualcosa iniziava a puzzarmi.

Alle 19 passate, camminavamo in centro guardando le vetrine. Vanessa con nonchalance, si dondolava nel suo vestito anni '50, che le donava tantissimo. Aveva i capelli biondi sciolti e leggermente annodati in sottili boccoli. Assomigliava alla protagonista di un film d'epoca. Ogni tanto lanciava un'occhiata all'orologio e alla fine della via, come se stesse aspettando qualcuno.

Ci stavamo avvicinando ad un incrocio illuminato da un altissimo lampione che emetteva un enorme cono di luce gialla. Lì vicino, un paio di negozi, anch'essi con le insegne luminose, accoglievano clienti in vena di spese.

Scorsi Vanessa sorridere. Poco più in là, nascosto da un taxi malamente parcheggiato, c'era Dave. Ben vestito e con le mani in tasca, sembrava aspettare qualcuno. Fui certa che si trattasse di Vanessa, quando lui si girò e a sua volta sorrise in direzione di lei. Sapevano di doversi incontrare. Avevano un appuntamento. Poi Dave vide me e sulla sua faccia si stampò la più interrogativa delle espressioni. La ricambiai in pieno. No, non lo sapevo neanche io cosa ci facessi lì. Cosa ci facessimo lì, tutti e tre.

«Vane, che...».

Ma prima che potessi terminare la frase, vidi la mia amica aguzzare la vista verso un punto imprecisato, poco lontano da noi. Una figura alta e snella che piano piano puntava verso di noi, o forse no, forse sì. Non si capiva.

«Ma guarda chi c'è!» esclamò Vanessa, tutta esaltata. «Lewis, non ci posso credere, che coincidenza!». Sì, puntava proprio verso di noi. Di me.

Il passante era ormai a pochi metri. Nessun particolare mi permetteva di riconoscerlo. Il fatto stesso che Vanessa sapesse il suo nome mi risultava del tutto nuovo. Ma bastò la sua voce, un 'Ehi ciao' imbarazzato e il ricordo affievolito di un fastidio, di una paura esplose. Era il tipo che mi aveva venduto i biglietti per la partita di domenica.

Scambiai uno sguardo veloce con Dave. Il panico stava dilagando sul mio volto. Che diamine aveva combinato Vanessa?

Un appuntamento. Mi aveva combinato un appuntamento.

Impietrii, invasa dal disgusto per quel tradimento inaspettato e acutamente doloroso. La mia migliore amica. La mia migliore amica mi stava condannando a morte certa.

D'un tratto tutte le stranezza di quella serata presero forma e motivazione. I vestiti poco adatti, la macchina, il perder tempo, erano tutti segnali di quello che aveva preparato. Non riuscivo a crederci.

Dave si accorse della mia reazione, di quel passo indietro che avevo fatto istintivamente riconoscendo quel tipo, e a sua volta fulminò Vanessa, che per tutta risposta gli fece l'occhiolino, come per dire che andava tutto perfettamente bene, il suo piano stava funzionando.

Mi venne voglia di strangolarla, lì, in mezzo a quella strada, colma di gente. Mi sarei fatta una trentina d'anni di galera, ma non mi importava, avrei pure detto grazie.

Dovevo tornarmene a casa. Valutai l'eventualità di camminare fino al mio appartamento. Quella strega di amica aveva pensato ad ogni particolare. Se avessimo preso la mia macchina avrei avuto un'ottima via di fuga, altro che troppo sporca. Mi aveva incastrata per bene.

La sorte ci mise il suo zampino. Con un bip, il mio cellulare mi avvertii che era quasi scarico. Avevo dimenticato di caricare la batteria prima di uscire. Con uno scarso dieci per cento di autonomia sarebbe durato poco più di cinque minuti. Abbassai al minimo l'illuminazione dello schermo, impostai il profilo silenzioso, sperando di guadagnare qualche minuto ma servì a ben poco. Anzi, tutto quello smanettare aggravò ulteriormente la situazione. Arrivò un messaggio ed ebbi solo il tempo di leggerlo, poi il cellulare si spense, spingendomi ancora più in fondo a quel baratro di disperazione che Vanessa aveva scavato con le sue stesse mani.

'Dove sei?'.

Dov'ero? In balia di un incubo e non potevo neanche rispondergli, spiegargli quello che stava succedendo e supplicarlo di venirmi a salvare.

Cercai di ricordare se gli avevo detto della serata con Vanessa. Immaginai che Dave gli avesse raccontato che avevano un appuntamento, che Ryan sapesse quindi che dovevano uscire insieme proprio quella sera. Mi maledii per la mia debolezza, per l'assoluta voglia di stare lì ad ascoltarlo per ore e mai prendere l'iniziativa di parlare. Se fossi stata un minimo più egoista, gli avrei detto che io dovevo uscire con Vanessa e lui mi avrebbe detto che no, la mia migliore amica sarebbe uscita col suo migliore amico, avremmo capito che c'era qualcosa che non andava ed io mi sarei risparmiata quel tormento. Sarei rimasta a casa, davvero a studiare, aspettando messaggi inviati di nascosto e con la batteria del cellulare carica.

Tolsi la cover e la batteria del telefonino, sfregai quest'ultima un po' e la inserii nuovamente al suo posto. Provai a riaccendere il dispositivo, ma nulla. Una flebile luce e poi di nuovo buio. Le imprecazioni si infrangevano sui denti stretti. Dovevo chiamare Ryan, spiegargli quello che stava succedendo, dirgli che non ne sapevo niente, che non volevo uscire con quel tizio, Louis, Lennie o come diamine si chiamava, che, con le mani nelle tasche posteriori dei jeans, si guardava intorno come un bambino spaesato. Probabilmente Vanessa non aveva raccontato la verità neanche a lui e ora se ne stava imbambolato, in mezzo alla strada, spettatore di una crisi di cui era l'innocente colpevole.

«Ragazzi, non so voi, ma io ho una fame da lupi. Che ne dite di andare a mangiare qualcosa tutti insieme. Potremmo approfittare di questa fortunatissima coincidenza». Vanessa continuava a giocare la sua parte di marionettista, intenta a muovere i suoi burattini, inconsapevole che rischiava grosso. I fili che aveva in mano erano troppo difficili da maneggiare e un minimo errore sarebbe bastato perché di aggrovigliassero in maniera irreparabile.

«Carina come idea» accordò il tipo. Vanessa mi prese a braccetto e mi trascinò, entusiasta in direzione di un locale poco lontano. Il tipo arrivò disinvoltamente al mio fianco, Dave, preoccupato quanto me, si mise alla sinistra di Vanessa. Lei prese sottobraccio pure il suo accompagnatore ed io mi costrinsi di sorridere al mio. Incrociai le braccia sul petto e camminai piano, come si fa ad un corteo funebre.

Al locale ci appiopparono un tavolo per quattro, fintamente felici per quelle due coppiette alle prime armi che dovevamo sembrare.

Il tipo del botteghino mi scostò la sedia per farmi sedere. Lo ringraziai con un filo di voce e presi posto. Lui si sedette accanto a me. Avevo Dave di fronte e Vanessa, al suo fianco, si era saggiamente scartata il posto più lontano dal mio. Sapeva che altrimenti l'avrei presa a calci per tutta la serata.

Il ristorante perlomeno era carino. La luce soffusa rendeva tutto scuro, sui toni del rosso cupo e del marrone, in un misto di rustico ed elegante, di certo adatto ad un primo appuntamento. Ogni dettaglio mi rendeva consapevole che Vanessa aveva studiato tutto nei minimi particolari. Chissà da quanto aveva prenotato.

Ogni minuto che passava era un supplizio. I camerieri sembravano muoversi con una lentezza agonizzante. Scrivevano sui loro blocchetti così piano da assomigliare a dei tatuatori che incidono la pelle, obbligati a fare attenzione, perché anche la minima sbavatura può rovinare la loro opera d'arte.

Gli altri tre chiacchieravano. Io annuivo e sorridevo come una stupida quando credevo fosse il caso. Fingevo stupore o interesse a seconda della reazione che scorgevo sul viso di Dave. Era il mio gobbo. Facevo ciò che faceva lui. Mi dava il LA ed io abbozzavo la mia musica.

Tre quarti d'ora dopo, le nostre ordinazioni ancora non si vedevano. Il locale era strapieno e questo ritardava le operazioni della cucina. Avevo strappato il tovagliolo di carta lungo tutto il bordo e ora questo assomigliava ad un tappeto contornato di frange. Ero poi passata all'interno, disegnando con le unghie dei ghirigori che ad ogni passaggio si facevano più marcati. Tra poco si sarebbe strappato. Provavo ad accendere il cellulare, nella vana speranza che si fosse ricaricato con la mia rabbia, ma ancora non avevano sperimentato nulla del genere e quell'aggeggio infernale se ne restava sul tavolo, scuro, a segnare la mia rovina.

«Sai Jude, Lewis è un grande fan dei The Fray» buttò lì Vanessa. I suoi tentativi di coinvolgermi nella conversazione finora si erano rivelati tutti inutili.

«Buon gusto» mi limitai infatti a rispondere.

«Stai bene?» chiese lui. Qualcosa nella sua voce mi diede l'impressione che fosse realmente sincero e preoccupato per quel mio nervosismo, esternamente non giustificato. Alla fine era solo una cena tra amici ed io mi stavo comportando come se fossi seduta su un cuscino di aghi. Automaticamente lo paragonai a Josh e tutte le differenze tra i due di manifestarono, chiare come il sole. Josh era assillante, soffocante, sempre convinto di essere nel giusto e che io dovessi essere salvata. Lui, Lewis, sembrava più carino, disponibile. Con amarezza mi resi conto che se non ci fosse stato Ryan nella mia vita, mi sarebbe davvero potuto piacere.

«Sì, è solo che mi sono dimenticata di fare una cosa importantissima» buttai lì.

E' strano come certe volte alcune persone riescano a capirsi con uno sguardo. Normale che capiti tra amici di lunga data, inspiegabile tra due che non si conoscono per niente ma che condividono lo stesso enorme segreto.

Alle mie parole, Dave mi fissò profondamente.

«Ryan?» chiesero i suoi occhi e bastò un movimento impercettibile del mio capo per fargli collegare tutti i fili. Ryan non sapeva dove fossi e non gli rispondevo da più di un'ora. Gli elementi per una catastrofe c'erano tutti.

«Ragazzi, scusatemi un attimo, devo fare una telefonata urgente. Anch'io ho dimenticato di fare una cosa importante».

Dave fu un lampo. Afferrò il suo telefono e prese la via della porta senza che Vanessa avesse il tempo di chiedergli niente. Feci spallucce, non sapendo che dirle ed attesi. Sarei stata grata a Dave per il resto dei miei giorni. Da quel momento in poi sarebbe stato per me come un fratello, catapultato direttamente nei primi posti della lista delle persone da adorare, per le quali non avrei mai esitato a dare la mia vita se fosse stato necessario.

Nel frattempo arrivarono i nostri piatti. Nessuno toccò niente fino a quando anche Dave non fu di ritorno.

«Tanti saluti da Ryan» disse sfregandosi i palmi di fronte alla sua pietanza fumante. Chiusi gli occhi per il sollievo. Forse il pericolo era scampato.

«Ryan? Cosa c'era di così urgente da non poter aspettare di chiamarlo?» si informò Vanessa incuriosita. Tremai di terrore immaginandomi al posto di Dave nel dover inventare una scusa su due piedi, ma a quanto pareva, lui era più preparato di me.

«Dovevo ricordargli l'antibiotico».

Trattenni a stento una risata, coprendomi la bocca con la mano chiusa a pugno. La faccia di Vanessa era tutta uno spettacolo. Finsi un colpo di tosse e tornai alla mia insalata mista. Sulla vetrata, notai il riflesso di Lewis concentrato su di me e in un eccesso di timidezza, avvampai. Abbozzai un sorriso, visibilmente più tranquilla. Non vedevo l'ora che la serata finisse, ma almeno adesso potevo affrontarla più serenamente.

 

Due ore ed un dessert a testa dopo, eravamo nuovamente al punto d'incontro. Dave e Vanessa si erano allontanati un paio di metri per salutarsi ed io e Lewis eravamo rimasti da soli ed imbarazzati ad aspettarli.

«Mi ha fatto piacere rivederti oggi» se ne uscì lui per spezzare il silenzio che era sceso. Abbassai gli occhi non sapendo che rispondergli. Dirgli che anche a me aveva fatto piacere, avrebbe alimentato in lui false speranze. Affermare il contrario lo avrebbe offeso e mi sarebbe dispiaciuto ferirlo. Ryan mi aveva resa una perfetta femminuccia che sta attenta ai sentimenti altrui quando prima ero un corazziere che non badava a nessuno.

«Mi è sembrato di capire che non ti aspettassi questo tipo di serata, ma magari, una prossima volta...».

Era il primo ragazzo insicuro che conoscevo in vita mia e di nuovo, qualcosa mi fece pensare che era davvero un peccato lasciarlo andare. Ma io ero di Ryan e di nessun altro. Non ce la facevo. Un altro tipo di vita, lontano da lui, dal mio amore, non era neanche lontanamente contemplabile.

«Lewis» lo fermai. Un sorriso amaro si dipinse sul suo volto d'un tratto estremamente giovane. Non sapevo neanche quanti anni avesse con certezza. Lo aveva detto? Ero stata io a non ascoltarlo?

«Credo di sapere cosa stai per dire. Non sono il tuo tipo, vero Jude?».

«Non è questo». Mi sentivo tremendamente colpevole. Come potevo addolcirgli la pillola?

«Cosa allora? Posso saperlo?». Quelle che in bocca a chiunque altro sarebbero sembrate parole acide e cattive, dette da Lewis assunsero tutt'altro senso. Non era un'accusa la sua. Voleva semplicemente capire, com'era suo diritto. Lo avrei voluto anch'io al suo posto.

«Sono io a non essere il tipo, capisci? Non sono fatta per queste cose, non per ora» spiegai, consapevole dell'immensa bugia che stavo raccontando a lui e a me stessa. Non ero quel tipo, lo ero diventata da poco tempo però. E sapevo anche che le passeggiate sul molo al chiaro di luna, le cenette a lume di candela in un ristorante carino, i regali per San Valentino e i mesiversari, non avrei snobbato niente di tutto questo se a tenermi per mano, a spostarmi la sedia al tavolo, a chiudermi gli occhi davanti ad una sorpresa fosse stato Ryan. Non era più questione di cosa. Era questione di chi. Ryan.

«Lo capisco» si arrese infine lui, giusto quando Dave e Vanessa tornarono da noi, mano nella mano.

Da galantuomini quali erano, i ragazzi ci scortarono fino all'auto di Vanessa. Attesero fino a quando lei accese il motore e si immise sulla strada. Morivo dalla curiosità di sapere se Dave e Lewis stavano parlando e nel caso, cosa si stessero dicendo.

«Quanto ce l'hai con me?». Vanessa era seria. Guardava dritto davanti a sé, non si era nemmeno voltata.

«Da uno a dieci, almeno cento».

«In fondo un po' ti sei divertita».

«Vane, non è questo il punto. Non voglio che trami contro di me. Sei la mia migliore amica e gradirei che rispettassi quello che ti dico. Se non voglio uscire con un ragazzo è no. Punto».

«Non capisco tutto questo tuo accanimento contro i ragazzi e l'amore, Jude. Ti stai precludendo un mondo. E per cosa? Orgoglio! Fottutissimo orgoglio».

Quasi mi soffocai con la mia stessa saliva. Stavo per tirarle un pugno. Io, orgoglio? Io che mi ero ridotta a fare l'amante? Non sapevo neanche cosa fosse l'orgoglio ormai e lei mi lanciava una simile accusa? Dovetti ricordarmi che lei non sapeva niente e in quel momento mi ripromisi che mai e poi mai lo avrebbe saputo. Quella sera, la mia migliore amica mi stava ferendo più di quanto non avesse fatto in tutti gli anni passati insieme. Aveva proprio ragione Avril Lavigne in quella sua canzone. 'Tutti feriscono', il problema è che non se ne accorgono e pretendono pure che li si ringrazi.

«Ho altri progetti» chiusi lì e anche se lei avesse continuato il discorso, non le avrei risposto, ma Vanessa non disse più nulla al riguardo. Il viaggio andò avanti nel silenzio più assoluto.

Accostò davanti a casa mia e non spense neanche il motore. Era mezzanotte passata e entrambe avevamo da lavorare in mattinata.

«Hai dimenticato la luce della cucina accesa» disse soltanto. Mi sporsi dal finestrino per guardare. Ero assolutamente certa di averla spenta. Avevo controllato prima di chiudere la porta. I fari della Smart illuminavano la strada deserta, ad eccezione di un'altra auto, una Audi nera, parcheggiata in fondo alla via. Guardai di nuovo verso la finestra da cui filtravano i raggi della lampadina.

«Hai ragione, che sbadata» mentii. «E' meglio che vada. Buonanotte».

«Notte» augurò Vanessa.

Scesi dalla macchina con calma, fingendo una naturalezza forse troppo forzata, chiusi la portiera con il solito tonfo ed attesi che Vanessa se ne andasse.

Quando la sua auto sparì dietro l'angolo, mi precipitai su per le scale.

Mi capitava spesso di sognare di avere le gambe pesanti, di voler correre e non poterlo fare perché i muscoli non rispondevano agli impulsi del cervello, o almeno, ci provavano ma non riuscivano, quasi qualcosa tenesse i piedi ben ancorati a terra ed ogni passo si colorava della fatica enorme di un'impresa impossibile. In quel momento, ogni gradino mi sembrava una montagna invalicabile. Stringevo forte la ringhiera e mi aiutavo con le braccia per aiutarmi ad arrivare sino in cima, lì dove mi aspettava Ryan, come non lo sapevo. Intravedere la porta fu un sollievo. In realtà ci avevo messo pochi secondi a salire, ma anche quelli si erano dilatati, sommandosi alle ore precedenti, in uno spaventoso ammucchiarsi gli uni sugli altri.

Mi tremava la mano mentre cercavo di inserire la chiave nella toppa e fui costretta ad immobilizzarmi il polso con l'altra libera per riuscire finalmente a far scattare la serratura. Come in un film dell'orrore, la porta si aprì sulla cucina deserta, ma allagata dalla luce.

Con una rapida occhiata, scandagliai tutta la stanza, ma di Ryan nessuna traccia. Lì non c'era. Gettai a terra la borsa che si afflosciò con un tonfo ed andai verso il corridoio. Le porte erano tutte chiuse, tranne quella della camera da letto, leggermente aperta e dalla quale filtravano appena i fasci di luce della luna. La raggiunsi velocemente. Non mi concessi neanche il tempo di pensare a cosa avrei trovato lì dentro, a come avrei reagito. Aprii e basta.

Sulla sponda del letto, una figura. Ryan era seduto lì, i gomiti poggiati sulle gambe ben piantate per terra e le dita intrecciate, in attesa. Non era l'assenza di luce a rendergli il viso scuro, bensì la sua espressione. La fronte corrucciata, le sopracciglia troppo vicine, la mascella contratta, a formare una maschera di dolore straziante, che mi dilaniò il cuore.

Era colpa mia, soltanto colpa mia se lui adesso stava così. Non me lo sarei mai perdonata. Lo avevo ferito, quando avevo detto e ridetto che non lo avrei mai fatto, e invece, eccomi lì, colta in flagrante, colpevole assoluta del mio misfatto, come in quel sogno di poche sere prima, ma questa era la pura realtà. Quale tipo di mostro ferisce chi ama? Quale?

Corsi da lui.

Avevo paura che mi respingesse, disgustato, arrabbiato per quel dolore che presuntuosamente gli stavo arrecando, che lui non si meritava. Che diritto avevo io di fargli così male?

Invece mi abbracciò. Anzi, mi permise di abbracciarlo, di consolarlo, lui, uomo grande e grosso, sempre sicuro di sé, mi stava concedendo quell'onore di mostrarsi debole ai miei occhi, sicuro che non mi sarei mai approfittata di quella confidenza.

«E' così che ti senti quando sai che sono con lei?» soffiò. La sua voce era così flebile che temetti di essermi immaginata quella domanda, ma poi lo guardai negli occhi, i suoi meravigliosi occhi, quelli che mi avevano fatta morire e resuscitare almeno un centinaio di volte negli ultimi mesi e nel buio, in quello sguardo, rividi me stessa nelle ore di attesa.

«Mi dispiace» sussurrai. Il groppo alla gola mi impediva di parlare normalmente. «Non volevo farti provare nulla del genere». Lo sforzo per trattenere le lacrime era immane.

«Come, come lo sopporti?» chiese a denti stretti.

Dove ti ho pugnalato, amore mio?”

«Ti amo, mi aiuta questo» confessai ad occhi bassi. Quel sentimento, così grande, così pieno, era allo stesso tempo la causa dei miei mali e la mia salvezza. Non sarei mai morta del tutto finché avessi avuto quello spiraglio di speranza che era l'amore per Ryan a cui tenermi avvinghiata, la volontà di vivere ogni giorno, per sapere cosa sarebbe successo con lui.

Ryan impietrì a quelle parole. Gli ci vollero parecchi secondi perché si rilassasse totalmente.

Lo cullai per tutta la notte, restando sveglia per scontare la mia pena, accompagnandolo in chissà quale sogno, magari a vagabondare per una terra nuova, dove il dolore è ancora sconosciuta, migliore di quella in cui ero stata io a fargli del male e dove forse potevo essere pure io a guarirlo.

Per tutta la notte, gli accarezzai i capelli e la nuca. Respiravo piano, perché i movimenti della mia pancia, sulla quale aveva poggiato la testa, non lo svegliassero.

Lo guardavo ed in silenzio piangevo, perché in tutta quella storia, al di là di Dave, di Vanessa, di Lewis, di Josh, della modella, (dei quali, in fin dei conti, realizzavo, non mi importava nulla) era a Ryan che stavo facendo più male. Lo avevo rubato alla sua tranquillità per trasportarlo in un abisso di bugie e tradimento. Convinta di salvarlo, lo stavo invece distruggendo.

 

Everybody hurts some days

It's okay to be afraid

Everybody hurts some days

Yeah, we all feel pain
Everybody feels this way

And it'll be okay

Can't somebody take me away to a better place

Everybody feels this way, it's okay”
 

 

 

Note

Innanzitutto grazie per essere arrivati fino a qui. Forse mi sono lasciata un po' prendere la mano, ma spero che il capitolo vi sia piaciuto. Il ritardo, oltre agli impegni di vita quotidiana è dovuto anche ad una piccola crisi. Ho chiesto ad un mio amico/collega di leggere questa storia e mi ha praticamente distrutta, dicendo che tecnicamente fa schifo ed è noiosa e non invita il lettore ad andare avanti. Potete immaginare come ci si senta a sentir certe cose su una storia a cui si tiene tantissimo. La crisi, a dire il vero, non è stata tanto piccola e non è del tutto passata, ma mi sono convinta che prima di tutto per migliorarsi bisogna andare avanti, quindi mi sono messa d'impegno ed ho finito il capitolo. Non so se noterete dei cambiamenti o se siete d'accordo con il mio amico. Sapete che ogni parere è ben accetto, positivo o negativo che sia. Se avete qualcosa da dire su questa storia, per favore, fatemi sapere. Il miglioramento passa anche da voi.

Spero di non ritardare così tanto anche col prossimo. E' periodo d'esami, ma ce la metterò tutta per essere presente. Come vi dicevo mancano pochi capitoli alla fine di questa prima parte. Altri tre e poi, piccola pausa e si riprende con la seconda. Spero di ritrovarvi tutti.

A presto,

vostra Serenity

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Serenity Moon