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Autore: akumuchan    18/05/2013    1 recensioni
Esiste un detto che dice: "essere baciati dalla fortuna", e cioè essere molto fortunati. Non è decisamente il mio caso, anzi direi che è l'esatto opposto.
Credete che la sorte si possa cambiare? E se sì, cosa bisogna fare per riuscirci? Quale è il prezzo di questo desiderio?
Quella che racconterò è di fatti la storia di come da uno stupido desiderio di scacciare via la malasorte si sia innescata una catena di eventi drammatici, quasi impossibili a volte, con protagonista…no, non io purtroppo.
Genere: Drammatico, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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 Non so bene quando tutto ebbe inizio.
 Credo di aver compreso veramente la mia situazione il giorno del mio 7° compleanno, prima di allora sembrava tutto “normale” o “casuale”, sinceramente non gli davo molta importanza.


 
Prima di tutto, mi presento: il mio nome è Lilith, Lilith De Angelis, e ho 19 anni. Abito in una piccola cittadina in provincia di Bologna e vivo insieme a mio zio Alex. Ho pochi interessi nella vita, poche care amicizie e francamente pochissima fortuna. E’ proprio questo ciò che mi rende “speciale”, come tende a sdrammatizzare mio zio, o meglio “anormale” come preferisco definirmi io, e cioè la capacità di attirare su di me e su chi mi è caro eventi sfortunati e, in alcuni casi estremi, pericolosi.

 
Quando ero più piccola non me ne accorgevo neanche, si sa, i bambini si fanno male in continuazione perché sono curiosi, amano esplorare, ecc, ecc., o così pensavano gli adulti.
Verso i miei 6 anni mia madre Irene mi regalò per Natale un cucciolo di pastore tedesco, conoscendo l’amore che provo nei confronti degli animali; sicuramente pensava che avere un amico a quattro zampe mi avrebbe tenuto compagnia in quei pomeriggi che ero solita passare da sola a leggere le fiabe o disegnando, mentre lei lavorava. Essendo una mamma single e non avendo nessun altro parente nelle vicinanze che poteva accudirmi, pensò quindi che il cagnolino era una possibile soluzione… non l’avesse mai fatto.
Amavo quel cane, si chiamava Puffo, perché era così...così…goffo e rotondo e morbido, lo amavo alla follia, ma solo dopo due settimane il cucciolo prima si ammalò gravemente, e dopo un intervento chirurgico dal veterinario morì il giovedì seguente, lasciando un senso di vuoto nel mio cuoricino da bambina, bambina che aveva appena compreso il significato della morte.




Dopo l’accaduto mia madre cercò di consolarmi in tutti i modi: una gita al mare, una vacanza da mio zio che in quel periodo abitava a Milano, nuovi libri, nuovi giocattoli che non attiravano il mio interesse, insomma, di tutto, ma il sorriso sembrava non tornare, e purtroppo ancora tutt’oggi è quasi inesistente. Le cose non migliorarono neanche con i miei compagni dell’asilo: non avevo tante amicizie, la maggior parte dei bambini mi considerava “pasticciona” e “stupida” poiché non riuscivo a fare una qualsiasi cosa, che sia un disegno o un gioco in cortile, senza farmi male o far male a qualcun altro. Dopo aver sentito la notizia del mio cagnolino, iniziarono un vero e proprio bullismo nei miei confronti, soprannominandomi “gatto nero”, un nome che calzava a pennello dati i miei capelli corvini e la mia sfortuna in generale, e per questo iniziarono anche ad evitarmi per paura.
Persino la mia unica amichetta, Carla, iniziò ad evitarmi, a non parlarmi, e quando infine mi disse di non voler più essere mia amica, il giorno seguente cadde dalle scale di casa e si fratturò una gamba.

 
Dal quel momento in poi rimasi da sola all’asilo, da sola a casa quando mia madre non c’era, da sola con i miei libricini colorati, iniziando quindi ad allontanarmi dalle persone. L’unica vera felicità che provavo consisteva nel disegnare, leggere fiabe, contare le stelle di notte nel giardino di casa e naturalmente, mia madre.


 
 Mia madre era una gran signora, il mio supereroe donna.

Era riuscita a crescermi senza il minimo appoggio finanziario da parte di mio padre, che non ho mai conosciuto e che non si è mai curato di contattarci, e senza l’aiuto dei nonni, i quali erano venuti a mancare già prima della mia nascita. Lavorava come infermiera all’ospedale del nostro paesino, lavoro che le portava via quasi tutta la giornata e anche qualche notte. Ciononostante non le impediva di passare del tempo con me a casa sia per aiutarmi nell’apprendimento di nuove parole complicate, come quando scoprii la parola “fosforescente”; sia per giocare insieme a giochi di ruolo come “la principessa e la sua serva”, dove però ero io la serva che doveva portarle ciò che chiedeva, o con le carte, o con le bambole che sinceramente piacevano più a lei che a me. Infine quando era ora di coricarsi a letto non vedeva l'ora di leggermi delle fiabe, anche se ormai le sapevo a memoria.

Ai miei occhi appariva forte e sorridente e furono poche le occasioni in cui la vidi piangere veramente, come per la morte di Puffo.
L’amavo moltissimo, anche se non sono mai stata brava a farglielo capire, cosa di cui mi pento amaramente.



 
Per il mio settimo compleanno le chiesi di passare tutta la giornata con me, trascurando quindi il lavoro, e con mia grande gioia le fu concesso il giorno libero; dopo avermi augurato un buon giorno e un buon compleanno con tante coccole e baci, forse troppi, mi lasciò un pacco giallo a pois, dicendomi che sarebbe andata a ritirare la torta che aveva ordinato e che dovevo aspettare il suo ritorno per poter aprire il regalo e festeggiare insieme.

 Aspettai un’ora, due. Si fecero le 2 del pomeriggio ma ancora non tornava.

Ad un certo punto squillò il telefono di casa.

-Ciao, sono della polizia. Parlo con la figlia di Irene?- mi chiese.
All'inizio rimasi in silenzio, poi sussurai un sì.

-Ti ho chiamato perché la tua mamma è all'ospedale e ha chiesto di te. Ora sta venendo un'amica e collega di tua madre a prenderti per portarti da lei- disse cercando di rassicurarmi.

Terminata la chiamata andai nel panico. Non sapevo che fare ed ero preoccupata per mia madre...
Speravo che non fosse nulla di grave.

Dopo 10 minuti Loredana, l'amica di mia madre, arrivò a casa e mi accompagnò all'ospedale.

Una volta arrivata lì, aspettai con lei nella sala di attesa.
Non conoscevo le condizioni di ma madre né cosa le fosse successo, e più chiedevo di lei più cercavano di sviare la mia domanda.

Capii solo che le era successo qualcosa di grave.

Dopo un'attesa che pareva infinita, un dottore uscì da una porta e si diresse verso di noi.
Parlò in privato con Loredana, la quale tornò da me piangendo, e singhiozzando mi disse che mia madre aveva avuto un incidente d'auto ed era morta durante l'intervento.

 
 Sarà stata la sorte a portarmela via? Può darsi, anzi ne sono convinta.

Se non le avessi chiesto di passare la giornata con me, invece di finire coinvolta in un incidente d’auto contro un tir, a quest’ora forse sarebbe ancora viva.
Dopo la sua morte, i poliziotti rintracciarono mio zio, che una volta informato dell’accaduto mi prese in custodia e si traferì nel mio paesino. Traslocammo in una casa in centro e cercò di crescermi come se fossi sua figlia.
Gli anni seguenti furono monotoni: niente amici, gli stessi “incidenti” di sempre, per fortuna più miei che di mio zio, perché avevo capito che più mi allontanavo da una persona meno quest’ultima veniva affetta dal mio morbo. 



 
Tutto ciò durò fino al liceo: al 3° superiore riuscii a trovare due amiche diverse dai soliti compagni-solo-di-classe spaventati dalla mia malasorte ed è solo grazie a loro che piano piano mi sono avvicinata di nuovo alle persone, confidandomi con qualcuno e tornando a sorridere nel mio io. Ancor oggi sono grata di averle incontrate.
 
Sarà che Rina è così fortunata che non avverte le conseguenze della mia sfortuna e sarà che Daniela non se ne cura minimamente di queste cose né tantomeno crede nella superstizione, ma di certo mi hanno aiutato ad accettarmi e a riconquistare un po’ di fiducia in me stessa e nelle mie capacità.

 
Tutto è bene quel che finisce bene!”
...
Vorrei proprio far finta che dopo tutto ciò che ho passato non fosse accaduto nient’altro, ma ahimè, non è così.



 
Credete che la sorte si possa cambiare? E se sì, cosa bisogna fare per riuscirci? Quale è il prezzo di questo desiderio?
Quella che racconterò è di fatti la storia di come da uno stupido desiderio di scacciare via la malasorte si sia innescata una catena di eventi drammatici, quasi impossibili a volte, con protagonista…no, non io purtroppo.


 
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L'intera storia è frutto di pura invenzione. Ogni riferimento a persone realmente esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale.

 
Spero vi sia piaciuta :3  La trama è drammatica quindi, malinconia yay!

Un ringraziamento speciale alla mia amica e psicologa, la quale mi ha aiutato nella correzione di obrobi che non avevo notato prima di pubblicare il capitolo (sarà stato anche che l'ho controllato alle 2 di notte o.ò) e nel modificare alcune frasi che facevano letteralmente a cazzotti con le altre lol.
Glassie mio guru :3
A presto con il prossimo capitolo ;)
  
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