Anime & Manga > Lupin III
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Autore: serenestelle3    18/05/2013    2 recensioni
Insieme agli inseparabili Jigen, Goemon e Fujiko, Lupin si reca a Montelusa, in Sicilia, per compiere quello che potrebbe diventare uno dei suoi colpi più celebri. Anche questa volta sulle loro tracce c’è l’infaticabile Ispettore Zenigata, che sarà affiancato da una figura proveniente dal suo passato. Quello che né Zenigata né Lupin e i suoi sospettano è che la Mafia sa del loro arrivo e ha organizzato un comitato di benvenuto tutt’altro che amichevole. Un cross-over con le storie di Camilleri su Montalbano.
Genere: Avventura, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Goemon Ishikawa XIII, Koichi Zenigata, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
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V – Comitato di benvenuto

 

Nicolò Cuffaro si presentava bene; sui trentacinque anni, distinto, con folti capelli prematuramente spruzzati di grigio e una faccia che ricordava un po’ il giovane Marlon Brando. Un tipo rispettabile. Non era difficile capire perché la famiglia avesse incoraggiato così fortemente la sua ascesa alla Sovrintendenza dei Beni Culturali.

Si era tolto la giacca e la faceva roteare a mezz’aria, mentre con l’altra mano teneva all’orecchio il cellulare. Ogni tanto il vento trasportava qualche brandello di conversazione attraverso il piazzale, dove stava appostato Fazio; gli sembrò che all’altro capo del telefono dovesse esserci una donna, perché sentì pronunciare il nome “Azzurra”. Anche i modi sembravano quelli di uno che vuol far colpo sull’altro sesso. Dopo averlo osservato per un quarto d’ora, decise che Nicolò Cuffaro stava indubitabilmente facendo la ruota a esclusivo beneficio della sua interlocutrice telefonica.

Da quando Montalbano gliel’aveva messo alle costole, erano passati tre giorni. Galluzzo e Torretta erano venuti a dargli il cambio, ma nessuno di loro aveva notato alcun movimento sospetto né da parte né intorno al giovane Sovrintendente. Cuffaro si era incontrato con molta gente, soprattutto uomini, ma nessuno che corrispondesse all’idea che Fazio si era fatto di Lupin e dei suoi complici. Quasi tutti erano personaggi di grosso calibro; assessori, periti, e una volta persino il capo di gabinetto, il dottor Lattes (fortuna che Galluzzo aveva prontamente spalancato un quotidiano e ci si era nascosto dietro, evitando così di farsi riconoscere). Le uniche donne che frequentava erano le sue colleghe alla Sovrintendenza. Oddio, a voler essere sinceri un’altra donna c’era stata, ma si trattava di una prostituta che Cuffaro aveva caricato in macchina e con la quale si era appartato “per fare le più vastase cose” (come riferì un imbarazzatissimo Torretta). Non aveva l’età né il fisico giusto per essere la ladra che cercavano; a quel grandissimo porco di Nicolò Cuffaro (come lo definì Montalbano dopo aver ascoltato Torretta) le donne piacevano giovanissime, poco più che adolescenti.

E adesso saltava fuori quel nome, Azzurra. Fazio ebbe un pensiero improvviso; prese il telefonino e, sempre senza perdere d’occhio Cuffaro, chiamò il commissariato di Vigata.

“Dottore? Fazio sono.”

“Dimmi. Ci sono novità?”

“Capace di sì, dottore. Cuffaro sta al telefono da un quarto d’ora con una fimmina di nome Azzurra.”

“Potrebbe essere la donna che cerchiamo?”

“Lo pensai macari io. Dottore, alla Sovrintendenza non ci sta nessuna Azzurra. Lo so perché i nomi delle colleghe di Cuffaro me li scrissi stamani su un pizzino.”

Sentiva, senza bisogno di vederlo, il commissario fare un salto sulla sedia al pensiero di doversi sorbire quello che lui definiva “il complesso dell’anagrafe” di Fazio.

“Il cognome di questa picciotta lo sai?”

“Nonsi. Azzurra e basta.”

“Faccio controllare a Galluzzo se Cuffaro tiene qualche Azzurra nella cerchia delle sue conoscenze femminili.”

“Ah, dottore, un’altra cosa. Il telefono di Cuffaro è sorvegliato?”

“Fazio, ma tu mi prendi proprio per fissa?”

“Dottore, non mi permetterei”, rispose Fazio, ridendo. “Ce lo diede il mandato il piemme Tommaseo?”

“Per forza.”

“E che gli contò?”

“Che gli dovevo contare, Fazio? Che stiamo indagando su un presunto traffico di prostituzione minorile.”

Il giudice Tommaseo aveva un debole per i crimini di natura sessuale; tanto più scabrosi erano, tanto meglio era. Montalbano, che ben conosceva questa debolezza del piemme, ne aveva abilmente approfittato per manovrarlo come un pupo.

“Dottore, mi permette con tutto il rispetto? Lei quasi più furbo di Lupin è.”

“Speriamo. Ascolta, Fazio…”

In quella, Nicolò Cuffaro alzò gli occhi verso di lui. Fazio distolse subito lo sguardo, fingendo di cercare qualcosa nel vano portaoggetti. Ma inaspettatamente un’ombra passò rapida accanto al finestrino, aggirando la sua macchina e puntando dritto sul Sovrintendente. Era un uomo sulla quarantina, alto e scuro di pelle, con folti capelli neri. Non appena fu all’altezza di Cuffaro, Fazio lo vide per la prima volta in faccia.

“Dottore, c’è Calogero Di Mauro!”, sibilò, chiudendo istintivamente i finestrini.

“Ma che dici?!”

“Le giuro che è accussì, dottore. Preciso ‘ntifico come sul passaporto!”

“Fazio, non ti cataminare da lì, qualisiasi cosa che vedi. Capito? Io arrivo subito.”

Ma Fazio non lo stava più a sentire. Sotto il suo sguardo sbalordito, Calogero Di Mauro raggiunse Cuffaro, scambiò qualche breve parola con lui e gli strinse la mano, sorridendo affabilmente.

 



Tutte le persone che si trovavano alla fermata di via Nazionale, in quell’afoso pomeriggio agostano, videro la donna scendere dall’autobus.

Sarebbe stato impossibile non notarla; era una splendida bruna, con una leggera abbronzatura artificiale e un variopinto cappello di paglia calato sul viso. Ma la cosa che più di ogni altra si scolpì nella memoria di tutti gli uomini presenti fu il suo fisico; fino a quel momento, la stragrande maggioranza di loro aveva sempre pensato che il termine “maggiorata” potesse riferirsi solo alle modelle di Playboy. Immediatamente, la stessa stragrande maggioranza capì che nei loro sogni in futuro non ci sarebbe stata che lei; le modelle di Playboy erano già diventate un lontano ricordo. Qualcuno dei più giovani levò un timido fischio di ammirazione, a cui la sconosciuta rispose con un sorriso.

Il vestito estivo che indossava sarebbe potuto andare bene a una donna con tre taglie in meno. Lei, però, non sembrava farci caso; esibiva il suo corpo come un culturista avrebbe fatto con i muscoli. E il suo sguardo… il suo sguardo aveva qualcosa di pericoloso. Nel momento in cui passò in rassegna gli uomini che la fissavano, loro si resero conto che quella non era una donna qualsiasi, ma una predatrice in caccia. Inconsciamente, tirarono un sospiro di sollievo quando la videro allontanarsi, dopo essersi sistemata meglio il cappello sul viso.

Fu come se alla fermata dell’autobus fosse improvvisamente tornato l’ossigeno. Diverse donne anziane borbottarono che era uno scandalo; le mogli fulminarono con gli occhi i loro mariti, e ci fu anche qualcuno che ricevette un sonoro calcio negli stinchi, per buona misura.

Ora che non potevano più vederla, Fujiko si lasciò andare a una lunga risata di cuore.

Cielo, che branco di idioti sono gli uomini!

Avrebbe voluto poterli fotografare, nel momento in cui era scesa dall’autobus. A qualcuno era letteralmente cascata la mascella, qualcun altro si era messo a sbavare addosso alle persone che gli sedevano accanto. E le facce delle donne, poi… tutte un programma!

Stava ancora ridendo, quando una vecchietta le finì sparata addosso. Era rinsecchita, gobba, con due sacchi della spesa che a occhio davano l’impressione di pesare almeno il doppio di lei. Fujiko le rivolse un’occhiata interrogativa, a cui la vecchia rispose con un largo e sdentato sorriso. Poi le disse qualcosa di incomprensibile.

“Come… scusi?”, chiese Fujiko, in un italiano abbastanza stentato che faceva parte della sua copertura.

La vecchia ripeté quella frase sibillina. Vedendo che lei continuava a non capire, indicò il marciapiede opposto, poi sé stessa e i sacchi della spesa, infine Fujiko.

Vuole che l’aiuti ad attraversare!

Per poco non si mise di nuovo a ridere. Che buffo! Una vecchia decrepita chiedeva a lei, a una ladra, di aiutarla a portare la spesa a casa!

Fu tentata di scacciarla via, ma la strada era abbastanza trafficata e lei non aveva voglia di grane. Voleva andare alla spa e farsi un bel bagno rilassante. Perciò sorrise, annuì e prese senza fatica le due grosse borse di plastica dalle mani dell’anziana. Poi aspettò accanto a lei che il semaforo diventasse verde.

L’anziana non la finiva più di blaterare, in un siciliano così stretto che Fujiko non riuscì a capire neppure un’acca. Ma non importava. La accompagnò sul marciapiede opposto, depose i due sacchi e le diede un buffetto amichevole su una spalla, osservando mentalmente che lo scialle nero che portava era semplicemente orrendo. Quindi le fece un cenno di saluto e si allontanò, senza più degnarla d’uno sguardo.

 



Non appena l’eco dei passi di Fujiko si fu spento in fondo al viale, l’anziana tirò fuori un costoso cellulare ultimo modello da una tasca del vestito. Le sue dita nodose volarono con precisione sui tasti.

“Iddra è”, sibilò all’apparecchio.

La voce dall’altro capo era maschile, sofisticata.

“Sei sicura?”

“E certu che ‘u sugnu. Mancu i capiddi cangiò. Paro paro comu nella fotu.”

“Non ci siamo spiegati. Voglio dire, sei sicura che sia la persona giusta?”

“Signuri, iu sittant’e pass’anni ci campai cu le mè bottane!”, sbottò la vecchia. “Iu lo saccio quannu a fimmina svrigugnata tiene il carbone vagnato! Sentisse ccà, iddra fa a farsa, fa triatro, ma dintra è latra e pure vastasa!”

“Non volevo mancarti di rispetto”, disse l’uomo al telefono.

“E immeci vossia m’offise”, borbottò lei, raddrizzando le spalle.

L’uomo dall’altra parte rise sgradevolmente.

“Fattela passare, Assuntì. Il tuo conto in banca lo conosciamo; domani troverai l’accredito, come promesso.”

“Grazi”, ribatté l’anziana in tono sostenuto. Riattaccò il telefono e gettò indietro lo scialle con aria bellicosa.

Come si permettevano di insinuare che lei, Assuntina Belfiore, non se ne capisse di quelle faccende? Lei  che era stata la tenutaria del più importante bordello di tutta la provincia, lei che era stata la prima donna di don Balduccio Sinagra? Come osavano mettere in dubbio le sue parole? Ripensando al tono di superiorità nella voce dell’uomo, Assuntina strinse le labbra in una smorfia di rabbia.

Avrebbe potuto dir loro che la donna stava in guardia. Che non sarebbe stato facile coglierla di sorpresa, e che non era automaticamente una stupida solo perché sbandierava la sua sesta di seno e il suo vestito corto. Ma tanto quelli non le avrebbero dato retta; per loro una donna rappresentava soltanto una pedina sicura in una partita a scacchi.

Mentre cominciava a salire le scale del suo appartamento, Assuntina Belfiore sorrise beffarda.

Gli uomini come il Barone e i suoi tirapiedi avevano il brutto vizio di sottovalutare l’altro sesso. Così, quando le donne li manovravano come dei pupi, loro neppure se ne accorgevano, accecati com’erano dal loro ego smisurato.

Ci avrebbe pensato quella donna, quella straniera dagli occhi furbi come quelli di una volpe, a lasciarli tutti quanti in mutande. E il giorno in cui fosse successo, lei sperava di esserci, e di ridere in faccia al Barone con tutto il suo sussiego... sempre che il Signuruzzu l’avesse lasciata in vita fino ad allora.

Non provava neppure un briciolo di pietà per la sconosciuta, pur sapendo di averla venduta al Barone e ai suoi sgherri. Era più incline a provare pietà per lui.

Donne come quella sapevano sempre come tirarsi fuori dai guai.

 



La riunione volgeva al termine. Appoggiato allo schienale della sedia, Riccardo Barone stava ascoltando i resoconti dei suoi collaboratori più stretti.

Alzarono tutti lo sguardo quando Landucci piombò come una furia nella sala conferenze; la stragrande maggioranza dei presenti non l’aveva mai visto ridotto così. Sembrava un invasato, con i capelli in disordine, gli occhi spiritati e il volto pallido e sudaticcio.

“Lorenzo, ti abbiamo aspettato per quasi mezz’ora”, fece Barone, in tono di rimprovero.

“Mi scusi, signore. Ci sono stati degli sviluppi per quella certa faccenda.”

Barone gli lanciò un’occhiata, poi si rivolse nuovamente verso i suoi sottoposti.

“Vogliate scusarmi un attimo, signori. Questioni burocratiche”, disse con un sorriso affilato, da politico. Afferrò Landucci per un braccio e lo pilotò con decisione fuori dalla sala conferenze. “Spero per te che sia una cosa importante”, sibilò. “Che vuoi?”

Landucci deglutì nervosamente. “Si tratta della donna, signore. E’ arrivata oggi a Montelusa.”

“Sicuro?”

“Ho parlato adesso con Assuntina. Secondo lei non ci sono dubbi.”

“Allora va bene. Fai avvertire Di Mauro, digli che sarà per stasera.”

“E’ sicuro, signore? Non potrebbero arrivare nei prossimi giorni?”

“Ne dubito, e comunque non importa. Quello che conta è che ricevano il mio messaggio”, ribatté Barone, con un sorriso malefico. Lanciò un’occhiata al massiccio Rolex che teneva al polso. “Sono quasi le sei. L’ultimo volo da Fiumicino arriva alle nove meno un quarto. Voglio che Di Mauro se ne venga via da lì non più tardi delle otto e mezza, altrimenti salta tutto. Digli di lasciare la macchina davanti a casa del suo amico professore. Lo passa a prendere uno dei nostri.

“Sì, signore.”

“E fai preparare il comitato di benvenuto. In fondo stiamo parlando di una celebrità. Voglio che sia accolto nella mia città… nel modo che si merita.”

“Sì, signore.”

“E… Lorenzo? Vedi di non deludermi anche stavolta.”

Il volto di Landucci diventò grigio come quello di un morto.


“Non la deluderò, signor Barone”, rispose con un filo di voce. “Glielo giuro.”
 



“Non ci sto a capire chiù nenti”, fece Mimì Augello, seduto accanto a Montalbano.

Il Commissario teneva gli occhi puntati sulla strada. Da quando erano partiti non aveva detto neppure una parola, salvo qualche sporadica domanda telefonica a Fazio. Però Mimì riusciva quasi sentire il suo cervello che si arrovellava alla disperata ricerca di una spiegazione logica.

“Capace che i Cuffaro e i Sinagra stanno a cercare un appattamento, Salvo”, suggerì in tono poco convinto.

“Mimì, non mi quatra. Se volevano un appattamento con i Cuffaro non andavano di certo a scomodare Calogero Di Mauro, che s’è visto sparare il patre da decino e probabilmente a Nicolò Cuffaro lo odia a morte.”

“E allura me lo spieghi tu perché Di Mauro ci andò a parlare strata strata, anziché spararlo?”

Montalbano aggrottò la fronte. “Questo è il busillisi, Mimì. Capace che il Barone non vuole casini.”

“Riccardo Barone? E che gliene fotte, a lui?”

“Mimì, ragiona. Se il Barone lascia che Calogero Di Mauro spari a Nicolò Cuffaro, viene a dire che ha gana di attaccare turilla macari lui. E a mia non mi sembra il tipo.”

“Perché?”

“Perché il Barone non è uno che abbruscia le carte bone a core leggio, Mimì.”

“Boh”, fece Augello.

“Ma Calogero Di Mauro commette una sulenne minchiata”, proseguì Montalbano, accigliato. “Incontra Nicolò Cuffaro strata strata anziché dargli appuntamento per telefono. Il busillisi è, perché si espone accussì?”

Prima che Augello avesse modo di rispondere, il cellulare di Montalbano squillò con urgenza.

“Pronto, Fazio?”

“Dottore, Calogero Di Mauro ricevette una telefonata in questo priciso istante.”

“Riesci a sentire quello che dice?”

“Nonsi. Vedo solo che fa ‘nziga di sì con la testa.”

“Va bene. Siamo quasi arrivati”, disse Montalbano, svoltando a sinistra. Improvvisamente, la voce di Fazio suonò allarmata.

“Dottore, quello sta a salutare Cuffaro. Capace che se ne va e noi restiamo pigliati dai turchi.”

“Fazio, ascoltami bene. Tu vai appresso a Calogero Di Mauro, quateloso e senza farti arriconoscere.”

“Ma dottore, e Cuffaro?”

“A Cuffaro ci penso io”, lo rassicurò il Commissario. Riattaccò, estrasse un foglio di carta stropicciato da una tasca e compose il numero che c’era scritto sopra, mentre Augello lo osservava senza fiatare..

“Pronto, professor Cuffaro? Il Commissario Montalbano sono.”

La voce dall’altro capo tradiva tutta la sorpresa dell’uomo.

“Commissario, la conosco di fama.”

“Immagino. Senta, sto venendo su a Montelusa, ci possiamo vedere?”

“Certo. Ma perché?”

“Glielo spiego quando arrivo.”

Augello gli lanciò un’occhiata in tralice.

“Salvo, si può sapere che hai intenzione di contargli?”

“Una farfànteria qualunque, Mimì. La prima che mi passa per il ciriveddro.”
 



Calogero Di Mauro aveva lasciato la macchina in una traversa di piazzale De Gasperi. Prima di salire, si accese una sigaretta e fece un paio di tiri, poi guardò l’orologio e si mise al volante; a Fazio sembrò che lo facesse con un sospiro rassegnato, come qualcuno che ha altri progetti per il tempo libero e si vede costretto ad accantonarli.

Guidava deciso lungo le strade della provincia, non troppo veloce ma senza prendersela comoda. Fazio riusciva tranquillamente a non perderlo d’occhio, pur tenendosi a distanza di sicurezza dalla sua macchina.

A un tratto l’uomo si portò il telefono all’orecchio. Ascoltò per qualche istante, poi gettò indietro la testa e rise.

Nello stesso istante, una Ford piuttosto scassata che era proprio nella corsia accanto a quella a Fazio accelerò di colpo, tagliandogli la strada. Il poliziotto fu costretto a una frenata d’emergenza per evitare un tamponamento.

Dai finestrini della Ford si affacciarono due giovinastri che avevano tutta l’aria dei balordi. Quello che guidava gli fece il gesto dell’ombrello, mentre l’altro si mise a insultarlo.

“Ma guarda dove guidi, stronzo!”

Dalle spalle di Fazio si levavano i clacson infuriati degli altri automobilisti; i due balordi avevano messo la macchina di traverso, bloccando il traffico.

E in tutta quella confusione, la macchina di Calogero Di Mauro si allontanava sempre più, finché non fece una curva a destra e sparì oltre l’angolo della strada.

Furibondo, Fazio sferrò un pugno al volante, imprecando. Adesso non l’avrebbe riacciuffato più; tutta colpa di quei due deficienti che avevano pensato bene di mettersi a fare voci anche con gli altri automobilisti. Uno di loro teneva in mano una bottiglia mezza vuota e la brandiva come se fosse stata una clava. Ubriachi marci, li classicò Fazio, disgustato, smontando dalla macchina.
 



“Sono Di Mauro.”

“Ti hanno sganciato di dosso lo sbirro?”

“Sì, non lo vedo più. Dev’essere rimasto indietro.”

“Perfetto. Allora ci vediamo davanti alla casa del tuo amico professore. E ricordati che tieni le ore contate, Di Mauro.”

"Sarò lì fra cinque minuti",  promise l'uomo.

  
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