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Autore: Soe Mame    21/05/2013    3 recensioni
- Ciao! - salutò, avvicinandosi al bambino apparso dal nulla: - Chi sei? - domandò, sinceramente curiosa.
Con sua grande sorpresa, il bambino abbassò la testa e trasse un profondo respiro, per poi dire: - ... -
- ... eh? -.
Sesel si avvicinò ancora di più, tendendo le orecchie al massimo: - Scusami, puoi ripetere? Non ho sentito. -.
Il bambino fece un altro respiro profondo e ripeté: - Sono Canada! -.
Risposta che arrivò alle orecchie di Sesel per puro miracolo: era il più flebile dei sussurri che avesse mai sentito.
Genere: Angst, Fluff, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Canada/Matthew Williams, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nuovo personaggio, Seychelles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

1810

Affondò le dita nelle braccia, premette le ginocchia contro il petto.
Si concentrò sul suo respiro: doveva regolarizzarlo, doveva smettere di respirare così velocemente, sentiva il cuore pulsarle dolorosamente nelle orecchie.
Inspirò a fondo, ma qualcosa le afferrò la gola, costringendola a tossire.
Aprì e chiuse gli occhi più volte, strinse i denti per soffocare i gemiti. Piangere era inutile. Ma non sapeva cos'altro fare.
Aveva camminato per troppo tempo, aveva visto una trave di legno caderle a pochi metri, avvolta dal fuoco. Era fuggita nelle cucine in cerca di qualsiasi cosa, di chiunque, ma l'unica cosa che era riuscita a trovare era una stanza vuota, integra. Si era rannicchiata in un angolo, sperando con tutto il cuore di aver trovato un posto sicuro.
Non sapeva più dove fosse l'uscita.
L'aveva cercata ma aveva trovato solo fiamme troppo alte, il soffitto scomparso oltre il denso fumo nero che aveva invaso quasi ogni stanza.
Aveva caldo. Aveva strappato la base della gonna del suo vestito per correre più velocemente e per non dare al fuoco un'occasione in più di avvicinarlesi; aveva le gambe e le braccia scoperte, ma il caldo era troppo, tanto da farle male sulla pelle.
Avrebbe voluto gridare aiuto, ma la sua voce sembrava svanita, soffocata. Le uniche cose che uscivano dalle sue labbra erano singhiozzi e respiri troppo veloci.
Prima o poi, le fiamme sarebbero svanite.
Prima o poi, non avrebbero trovato più nulla da divorare, sarebbero scomparse da sole.
Prima o poi, non avrebbero trovato più nulla da divorare, e allora...
Qualcosa di pesante cadde, nella stanza accanto. Sesel sobbalzò e premette le mani contro le orecchie: non voleva sentire neppure un suono.
Posò la fronte sulle ginocchia, fissando l'orlo distrutto della sua gonna, per quanto le fosse possibile.
Cominciava ad avere sonno. Se si fosse addormentata, al risveglio sarebbe stato tutto finito? Forse si sarebbe risparmiata la vista di quelle colonne rosse. Forse non avrebbe sentito più alcun rumore spaventoso. Forse non si sarebbe neppure accorta di quel calore che sembrava ferirla. Forse dormire era la cosa migliore da fare, l'unica che poteva fare.
Un boato troppo vicino la costrinse ad alzare la testa.
La porta delle cucine era caduta, troppo debole per rimanere nei cardini; un giovane uomo riportò il piede a terra, doveva averla calciata.
Il cuore battè ancora più forte: "C'è qualcuno!".
Non aveva idea di chi fosse, forse un servitore poverissimo, forse un contadino che passava da quelle parti, a giudicare dai pantaloni rovinati, dalla maglia bianca troppo grande e dal cappello troppo piccolo.
Portava qualcosa, qualcuno, in braccio.
Neanche si accorse di essere scattata in piedi, non appena riconobbe Sénégal e Guadalupa tra quelle braccia quasi del tutto scoperte.
Il giovane dovette vederla, perché le si avvicinò a grandi falcate, il passo deciso. E, quando fu vicino, in ginocchio, Sesel fu ad un passo dal piangere davvero: una lunga ciocca di capelli castano chiaro era scivolata fuori dal cappello, sfiorando il volto dai tratti troppo morbidi per appartenere ad un uomo.
- Jacquie... - gemette, buttandole le braccia al collo, travolgendo i suoi fratelli senza curarsene.
- C'è qualcun altro, qui? - domandò Jacqueline, sbrigativa.
Séchelles scosse la testa, staccandosi da lei.
Monaco guardò rapidamente Sénégal e Guadalupa, poi si voltò e disse: - Sali sulla schiena. -.
Sesel forzò le gambe tremanti, le caviglie che le mandavano scariche di dolore, e avvolse le braccia attorno al collo della donna, portando le ginocchia alla sua vita.
- Stringiti forte e chiudi gli occhi. - ordinò, rivolta anche alle altre due colonie: - Non aprite gli occhi, qualsiasi cosa succeda o sentiate. -.
Séchelles strinse gli occhi e sentì Jacqueline tornare in piedi, per poi iniziare a correre.
Sentì ventate calde sferzarle la pelle delle braccia e delle gambe, riparò il viso contro il collo e il cappello della donna; la sentì cambiare direzione, sentì il suo respiro farsi affannoso, la sentì fermarsi più di una volta, seppur per pochi istanti, sentì delle esclamazioni improvvise che non comprese.
Poi il vento si fece fresco, l'aria pulita che non graffiava più la gola.
Ma non osò aprire gli occhi. Sentiva le ciglia incollate tra loro e non aveva il coraggio di forzarle.
Sentì Jacqueline correre ancora, stavolta in un'unica direzione, più veloce.
Si fermò.
- Potete aprire gli occhi. - sussurrò, in un ansimo.
Solo allora Sesel trovò la forza di schiudere le palpebre.
La prima cosa che vide fu una grande carrozza nera, incredibilmente vicina.
Quel che vide subito dopo furono tanti volti famigliari.
- Sesel! Sesel! - Zephyrine saltò giù dalla carrozza, il volto arrossato rigato dalle lacrime, tendendo le braccia nella sua direzione.
Monaco s'inginocchiò, facendo riportare i piedi a terra - su un prato, notò Séchelles - alle tre colonie.
Un istante dopo, Sesel era stretta nell'abbraccio tremante di Bourbon, che ricambiò subito. Alzò lo sguardo, incontrando i volti rassicurati di Dosnee ed Eurée, anche loro scesi dalla carrozza per andarle incontro.
- Non sei ferita, vero? - singhiozzò Zephyrine, pallida come non l'aveva mai vista.
Annuì, sicura che la propria voce sarebbe uscita ancora più spezzata di quella di sua sorella.
- Chi manca? - la voce dura di Jacqueline catturò l'attenzione di tutti. Fu uno dei quattro domestici presenti, che Sesel non aveva neppure visto, a rispondere: - La signorina Saint-Domingue è andata a cercare le signorine Marie-Galante e La Désirade e i signorini Saint Martin e Ile de Clipperton. -.
Monaco annuì e fece cenno alle colonie uscite dalla carrozza di rientrare: - State giù, non fatevi vedere. -.
Sesel seguì Zephyrine, Dosnee ed Eurée all'interno del mezzo, pressandosi tra le altre colonie, chi sdraiato sui sedili, chi sotto. A loro spettarono dei posti a terra.
Séchelles afferrò le mani di Bourbon e Ile, le spalle premute contro le loro, ben decisa a non allontanarsi. Lì non c'erano fiamme. Lì c'erano gli altri. Lì era al sicuro.
- Eccomi! - Saint-Domingue apparve, Marie-Galante tra le braccia, La Désirade, Saint Martin e Ile de Clipperton stretti alla sua camicia.
- Entrate. - ordinò Monaco: - Domingue, tu siediti e fatti vedere, una carrozza vuota attirerebbe l'attenzione. -.
Saint-Domingue, ormai abbastanza alta da poterla guardare negli occhi, annuì e prese posto, seguita dalle quattro colonie che aveva recuperato dalla casa in fiamme.
Jacqueline guardò altrove, probabilmente rivolgendosi ai servitori: - Voi andate. - disse: - Non seguiteci. -.
Dall'interno della carrozza, Sesel non potè vedere le loro reazioni, ma dovevano aver obbedito, dato che Monaco aveva dato loro le spalle per risistemare i lunghi capelli nel copricapo.
- Partiamo. - annunciò, una volta finito.
- Sicura di non volere una scorta? -
Quella voce colpì Sesel al cuore, facendola come risvegliare all'improvviso da un lungo sonno.
Dei passi sull'erba, pesanti, e Francis apparve accanto a Jacqueline.
Séchelles fu costretta a sbattere più volte le palpebre, sentendo il cuore appesantirsi di colpo: quello era Francis, senza dubbio, l'avrebbe riconosciuto in ogni caso. Ma la sua pelle era troppo pallida, gli occhi sembravano stanchi, incavati, quasi divorati da occhiaie di un viola troppo scuro; le sembrava che i capelli fossero molto meno chiari, che fossero diventati quasi castani, rovinati; le sue dita, poi, non le erano mai parse tanto sottili.
Indossava abiti troppo modesti, dei colori della terra, neppure della sua taglia.
A vederli in quel riquadro della carrozza, Francis e Jacqueline sembravano due poveri, di cui uno malato. E non si trattava di Jacquie.
- Una scorta attirerebbe l'attenzione. - rispose Monaco, ferma.
- Ma è pericoloso. - le ricordò Francia, come se nessuno se ne fosse accorto.
Jacqueline si voltò a guardarlo apertamente, scoccandogli uno sguardo glaciale che Sesel mai le aveva visto: - Sono le tue colonie. Nessuno del tuo popolo le attaccherà. Sai bene chi, invece, potrebbe farlo. E sono coloro che stanno scappando come noi. - accennò con il viso a qualcosa sul posto del conducente: - Se anche qualcuno oserà toccarci, comunque, saprei difendermi. -.
Francis seguì il suo sguardo, per poi chiudere gli occhi, con un sospiro stanco.
Riaprì gli occhi e sfilò dalle dita l'unico anello che indossava: - Tieni. - le disse, porgendoglielo: - E' lo stemma della mia casa. Ti basterà mostrarlo per far capire chi sei. -.
Jacqueline lo scrutò dall'alto in basso. Poi allontanò l'anello, spingendo appena la mano verso di lui: - Non sono una delle tue fanciulle indifese. - disse, le labbra incurvate in uno strano sorriso. Alzò un pugno, le nocche verso Francis, mostrando un anello anche su una della sue dita: - Non devo mostrare lo stemma di France per farmi riconoscere come nazione. -.
Abbassarono le mani, Francis aveva sgranato gli occhi, quasi gli avessero palesato una qualche strana verità.
- E poi... - Jacqueline parlò di nuovo, il sorriso scomparso, la voce dura: - ... non ho intenzione di rischiare la vita di qualcuno soltanto perché il tuo popolo si è svegliato una mattina e ha deciso che non gli piaceva più la monarchia. -.
Francis non rispose.
- Spero di rivedere te e la tua casa. - si augurò Monaco: - Anche se so che non sarete più come prima. Spero soltanto di rivedervi felici. -. Posò un bacio sulla guancia di Francis e scomparve dalla visuale; dai rumori che seguirono, doveva essere salita al posto di guida.
Fu soltanto allora che Francia lì guardò.
Come già Sesel aveva notato, i suoi occhi erano stanchi: stanchi, ma con una strana luce che non riuscì ad identificare. Era come se, nonostante tutto, cercassero di aggrapparsi alla vita, come desiderosi di qualcosa troppo distante.
- Mi raccomando... - disse, la voce ammorbidita: - ... fate i bravi, a casa di Jacquie. Siate educati e non fatela arrabbiare. -.
Un coro sussurrato di "Sì, Francis." si levò dall'interno della carrozza, facendolo sorridere appena. Se non altro, notò Séchelles, in quel volto quasi irriconoscibile c'era la traccia di un sorriso conosciuto.
Avrebbe voluto abbracciarlo; tuttavia, al tempo stesso, ne era spaventata e non sapeva spiegarsene il motivo. Forse era la paura che provava da troppi giorni, da quando aveva iniziato a sentire delle urla fuori dalla casa, ad annebbiarle la mente.
- Arrivederci, allora. - con quelle parole, Francis chiuse la portiera della carrozza, riducendo ancora di più la visuale sull'esterno: ora rimaneva soltanto un rettangolo che, dalla posizione in cui lei si trovava, mostrava solo uno spicchio azzurro del cielo. Uno spicchio azzurro striato da sottili colonne di fumo.
Poco dopo, la carrozza partì.
Ma le sentiva ancora, le urla in lontananza. Erano grida rabbiose, grida spaventate. Riuscì a distinguere delle frasi, delle incitazioni, delle suppliche, dei nomi; sentì più volte il clangore del metallo, lo spicchio iniziava a tingersi di rosso.
Premette le mani contro le orecchie e strinse gli occhi.
Non le voleva più sentire, non voleva più sentire niente, non voleva essere lì, non era giusto, non poteva fare niente, non capiva, aveva paura, continuava a sentirle, premette ancora di più, serrò i denti per impedirsi di emettere qualsiasi suono, ma continuava a sentirli, le sembrava quasi di vederli, erano-
- Sesel! Sesel! -


- Sesel! Sesel! -
Aprì gli occhi, si specchiò nelle iridi castane di Dosnee.
- Ki manier? - le chiese Ile, preoccupato.
Sesel sbattè le palpebre; la testa le girava, come avvolta in una nebbia che andava via via diradandosi; sentiva le guance calde, bagnate, intravedeva delle minuscole gocce sulle ciglia; una spalla era stretta nella mano di Dosnee, chinato verso di lei.
Mosse appena le labbra, come per recuperarne il controllo. Poi sussurrò, riprendendo il contatto con la realtà: - Byen... -.
La mano di Ile le massaggiò la spalla, riuscendo a portar via l'agitazione che ancora la scuoteva.
- E' tutto finito, Sesel. - le disse, con un sorriso d'incoraggiamento: - E' tutto finito. Da tempo. -.
Séchelles annuì.
Lo sapeva. Era finito da quasi vent'anni, ma quelle scene continuavano ad insinuarsi nella sua mente sotto forma di incubi. Era tutto finito e tutto si era risolto nel migliore dei modi. Lo sapeva, ma si sentiva come se l'avessero ferita, talmente a fondo che ci sarebbero voluti ben più di vent'anni per permettere alla ferita di rimarginarsi. E, in ogni caso, sarebbe rimasta una cicatrice difficile da ignorare.
Scosse la testa, si portò una mano alla fronte. Con la coda dell'occhio, si accorse dello sguardo sconvolto del piccolo Chagos, seduto di fianco a lei.
Séchelles accennò ad un sorriso timido, sentendo le guance farsi più calde: - Va tutto bene, Ocie... - disse, sperando di essere convincente. A giudicare dal viso terreo del bambino, no.
E dire che doveva comportarsi da brava sorella maggiore...
Sbirciò il posto accanto ad Ile: esattamente come si aspettava, Eurée la guardava con occhi spalancati, quasi pietrificata. Sorrise anche a lei: - Dico sul serio. - insistette, portando le mani in grembo.
Anche loro avevano vissuto la stessa cosa ma, a differenza di lei, non si mettevano a piangere nel sonno; probabilmente, neppure avevano incubi del genere.
E sì che doveva essere lei la sorella maggiore...
In quelle ore, non si era dimostrata affatto come tale. Come al solito, era stato Dosnee a fare tutto: parlare, camminare in testa alla fila, rassicurare loro.
Eppure, non si sentiva inutile. Non era dispiaciuta neppure un po'. Ile e Rodrigues ci erano già passati, questa era la terza volta; per Chagos era la prima volta, sì, ma lui era stato con Francis molto di meno. E poi, in quegli anni, Francis era stato spesso in battaglia, erano successe tante cose, e Océan non l'aveva mai conosciuto davvero. Quindi, lei aveva tutto il diritto di appoggiarsi a Dosnee, se quest'ultimo le offriva una spalla. Aveva tutto il diritto di ritenersi più ferita di lui, di Eurée o di Océan.
Ovvio, non si sarebbe lamentata ogni tre secondi. Sarebbe rimasta in silenzio, possibilmente senza piangere, sarebbe stata educata e composta, avrebbe provato a fare la brava sorella maggiore e a prendersi cura di Eurée ed Océan, come Francis aveva detto a lei e a Dosnee.
Però, se avesse tentennato, se non fosse stata una sorella maggiore perfetta, non se ne sarebbe rattristata. I suoi fratelli e sua sorella l'avrebbero capita, lei aveva le sue motivazioni.

- Perché? - gridò.
Non le importava niente di essere maleducata, non le importava di fare brutta figura: scagliò un pugno contro il petto di Francis, sperando di fargli più male possibile. Sentì le mani di Dosnee serrarsi attorno ai suoi polsi, tirandola, facendola allontanare.
- Perché noi? Perché io? - urlò, tremando, per la rabbia e per la paura: - Non mi vuoi più bene? Sono stata cattiva? Mettimi in punizione, tutto quello che vuoi, ma non mandarmi via! -.
- Non dipende da me. - la voce di Francis le giunse alle orecchie a stento, le sembrava di essere diventata sorda: - Sai che non farei mai una cosa simile. -
- E invece la fai! - strillò, strattonando le braccia di Ile per liberarsi dalla sua presa: - Perché hai scelto noi? In cosa siamo inferiori agli altri? -
- Smettila di dire stupidaggini del genere, Séchelles. - Sesel ammutolì: di rado Francia usava quel tono così duro, soprattutto con lei. Forse aveva esagerato.
- Non sono stato io a scegliere. - parlò Francis, piano, il tono immutato: - Mi è stato imposto. Sono stati altri a scegliere voi, non io. Io non vorrei mai una cosa simile. -.
Il suo sguardo era freddo.
Era così. Non c'erano alternative. Qualsiasi cosa fosse successa, niente sarebbe stato in grado di cambiare la realtà dei fatti.
Doveva andarsene.
Lasciare la Francia. Lasciare Francia. E Monaco, e Bourbon -
Réunion, Ile Bonaparte o qualunque fosse il suo nome attuale -, e le sue sorelle, e i suoi fratelli. Doveva andarsene, con Ile, Rodrigues e Chagos, prendere una carrozza, una nave e andare al di là del mare.
Aveva attraversato il mare una volta, tra le braccia di Francis: lontano dalla sua casa, sì, ma per vedere cosa ci fosse oltre.
Lei amava la Francia. Per lei sarebbe bastata solo quella, l'avrebbe considerata "mondo", mai si sarebbe pentita di aver lasciato le sue isole per raggiungerla.
Non voleva attraversare di nuovo il mare. Non sapeva cosa ci fosse al di là, non c'era nessuno a sostenerla davvero, neppure Dosnee conosceva il luogo in cui li stavano mandando.
Non voleva.
Aveva paura.


Aveva provato di tutto.
L'ultima sera si era intrufolata nella camera di Francis - non le importava niente che fosse vietato, che fosse da maleducati non bussare, e tutto il resto -, si era infilata nel suo letto e l'aveva stretto per tutta la notte, rifiutandosi di staccarsi, piangendo talmente tanto da rovinargli la veste - non che le importasse - e da fare la più pessima figura della sua esistenza - cosa che, onestamente, le importava ancora meno. Se piangere l'avesse aiutata a rimanere, se, di fronte alle sue lacrime, Francis avesse insistito per scegliere una qualsiasi altra colonia, non le sarebbe importato niente.
Eppure, anche se era stato tutto inutile, non si era pentita di nulla.
Non sarebbe mai riuscita a salutare Francis con un sorriso.
Almeno, al momento della partenza, si era risparmiata le lacrime, visto che ne aveva versate in abbondanza per tutta la notte.
Non aveva dormito. Non avrebbe potuto, sapendo che avrebbe rivisto Francis chissà quando. Perché, sì, si sarebbero rivisti. Gliel'aveva detto lui. E, anche se l'aveva fatta piangere, anche se avrebbe voluto non fidarsi solo per fargli un dispetto, si fidò lo stesso, senza neppure pensarci un attimo.
Dato che non aveva più forze per reagire, non si era opposta.
Il viaggio da Parigi a Calais era stato lungo, anche troppo: se non altro, Sesel se l'era risparmiato quasi del tutto, dato che era crollata addormentata dopo pochi minuti dalla partenza. Non aveva avuto incubi.
Era in quella carrozza che si erano presentati. Quando si era riaddormentata di nuovo, spossata dalla traversata in mare.
Non le piaceva, quel mare. Era freddo.
E lei odiava il freddo.
Anche ciò che vedeva scorrere dal finestrino non le piaceva: sentiva un freddo pungente entrare nella carrozza, tutto sembrava grigio, grigio chiaro e grigio scuro, grigio un po' più chiaro e grigio un po' più scuro, grigio scuro sfumato di grigio chiaro e grigio chiaro sfumato di grigio scuro.
E lei odiava il grigio.
Sentiva freddo da quando aveva messo piede sulla nave, ma lì la sensazione si era accentuata. Non c'era neppure il calore del sole.
In realtà, sembrava quasi che il sole avesse deciso di abbandonare quel posto - forse neppure a lui piaceva il grigio: il cielo non era altro che una distesa biancastra, di un bianco sporco, senza raggi, solari o lunari che fossero.
In effetti, Sesel si chiedeva anche come facesse a dire che fosse giorno: tecnicamente, le strade non erano buie, si vedeva tutto alla perfezione. Ma del sole neppure l'ombra, una traccia, un accenno, un ricordo, niente; forse, lì, il sole era una leggenda.
E lei odiava i luoghi senza sole.
La sua vita, ciò che sapeva renderla felice, poteva essere racchiusa in tre cose: il caldo, i colori e il sole.
E lì mancavano tutti e tre, con una sinistra precisione millimetrica.
Odiava quel posto.
Voleva tornare indietro. In Francia. A Parigi.
Trasse un profondo respiro: avrebbe di gran lunga preferito rimanere in quella casa dall'atmosfera improvvisamente tanto tesa piuttosto che andare in una città del genere.
Perché, in fondo, una minuscola parte di sé, talmente piccola da passare inosservata o da essere soffocata senza problemi, era stata quasi felice di lasciare la casa di Parigi.
Era diventata... strana.
Tutti, dopo quello che era successo quasi vent'anni prima, erano diventati strani. Beh, era ovvio. Jacqueline aveva detto loro che sarebbe successo.
Tuttavia, anche lei era diventata strana. Era diventata più fredda, parlava di meno, rivolgeva a Francis occhiate gelide.
Cercò di capire quando fosse iniziato tutto: finché erano a Monaco città, non era successo nulla di strano.
A parte...

- E' ridicolo. - sentenziò Jacqueline.
Saint-Domingue piegò la testa di lato, con un sorriso talmente grande da illuminarle gli occhi: - E invece no, Jaquie!
Questo è il momento perfetto! -.
Sesel, le sue sorelle e i suoi fratelli guardavano le due donne in silenzio, spostando lo sguardo prima su una, poi sull'altra. Nessuno osava intervenire.
- Sai perfettamente come stanno le cose. - disse Jacquie, quasi cercasse di farla ragionare: - E' un suicidio. -
- E' il momento. - ripetè Saint-Domingue, decisa: - In fondo, lui approva queste cose, no? Ora più che mai! - strinse i pugni: - Ci riuscirò, Jacquie. -.
Mise del denaro in una piccola borsa legata alla cintura, andò alla porta e si rivolse a loro, piccole colonie: - Allora vado! Vi scriverò direttamente da casa mia, appena tornerò! - sorrise, trionfante: - Ricordatevi di rispondere a tutte le lettere della vostra Ayiti! -.


Non avevano ricevuto lettere da Haiti. Né l'avevano più vista. Era giunta loro qualche sporadica notizia, ma nessuno era voluto essere più preciso.
Però, non credeva che fosse iniziato tutto dalla partenza di Haiti.
Forse... era stato dal loro ritorno a Parigi?

La casa era stata ricostruita. Più grande. Molto più grande.
Sesel riuscì ad orientarvisi in breve tempo soltanto perché ne conosceva la struttura iniziale: chiunque vi fosse entrato per la prima volta, sicuramente, si sarebbe perso al primo cambio di direzione.
Anche l'arredamento era diverso: le sembrava ci fossero più colonne, più mobili, più sculture, fregi, foglie intagliate nel legno, fiori di marmo. Alcuni - molti - quadri erano stati tolti; paesaggi, canestri di frutta, dame dalle vesti preziose, antichi sovrani, la fanciulla in armatura sul suo cavallo, con la spada levata verso il cielo, erano scomparsi.
La casa precedente la estasiava, la faceva rimanere a bocca aperta tanto era maestosa; al suo ritorno, si sentiva come persa. Non era estasiata. C'era una sinistra freddezza in tutto quello. Quasi fossero mobilia e decorazioni costruite meccanicamente, senza metterci alcuna passione.
Ma l'arredamento era passato in secondo, terzo, quarto, millesimo piano. Qualcosa in grado di estasiarla, in quella casa, c'era ancora.
Francis sembrava in qualche modo essere diventato più alto, più splendente, più... avrebbe detto bello, ma la sua mente si era persa chissà dove prima di formulare quel pensiero.
Sarebbe rimasta a guardarlo anche per giorni, senza mai staccargli gli occhi di dosso. E, lei che poteva permetterselo, si faceva prendere in braccio alla minima occasione - per quanto dovesse fare a gara con praticamente tutte le sue sorelle, esclusa forse Rodrigues.
In quegli anni, era vissuta con una profonda angoscia. Sia per ciò che aveva visto e sentito, sia per ciò che sarebbe potuto succedere a Francis.
Nel ritrovarsi lì, al sicuro, di fronte ad un
impero tanto potente, ogni pensiero cupo era svanito come soffiato via da un forte vento.
La casa non era bella come la precedente, ma Francis sembrava "più" tutto. Poteva dirsi felice, davvero.
Se non fosse stato per gli sguardi di Jacqueline.
E di coloro che avevano messo piede nella loro casa.


Sì, forse era iniziato tutto lì.
Poco dopo essere tornati a Parigi, nella loro casa erano giunti degli "ospiti", così li aveva definiti Francis: Illiria, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Italia Veneziano.

Olanda era un uomo fatto e finito, altissimo e con le spalle larghe; Illiria e Lussemburgo erano due giovani alti all'incirca quanto Monaco, dai tratti delicati; Belgio era l'unica donna, dai capelli corti e mossi, sempre sorridente - con loro - e dall'aria simpatica; Italia Veneziano era un cugino di Francis e Jacqueline, un bambino dall'aria indifesa e innocente, rivelatosi incredibilmente ingenuo appena aperta bocca.
Illiria e Lussemburgo parlavano poco con loro, rivolgendo sorrisi un po' timidi ma buoni; Italia Veneziano, stranamente, aveva la mania delle pulizie. Era carino da osservare. Belgio si era rivelata giocosa e affettuosa, era bello stare con lei; nessuno, invece, osava parlare con Olanda, troppo intimidito dal suo aspetto imponente e dal suo sguardo serio.
Ma c'era una cosa che accomunava Illiria e i fratelli Olanda, Belgio e Lussemburgo: tutti e quattro, quando si rivolgevano a Francia, cambiavano tono ed espressione.
I loro sguardi si facevano affilati, i volti seri, la voce fredda e tagliente. Parlavano poco, quasi il necessario, solo se interpellati; sembravano rispondere solo per fare un favore a Francis, pareva quasi che ogni loro sillaba fosse intrisa di veleno.
Lo stesso valeva per Jacqueline.
Italia Veneziano sembrava l'unico "ospite" a rivolgersi a Francis in modo normale - anche se a voce più bassa del solito, con lo sguardo verso il pavimento, a volte scosso da un tremito. Non aveva mai voluto spiegare il perché si comportasse in quel modo.
Per il resto, il piccolo non aveva mai turbato nessuno, né le colonie né il padrone di casa, con i suoi comportamenti.
Soltanto una volta, pochissimi anni prima, era scoppiato in lacrime. All'improvviso, senza una spiegazione. L'unica cosa che era stato in grado di dire era che gli faceva male il cuore. Furono chiamati dei dottori, ma tutti assicurarono che Italia stava benissimo.
Cosa gli fosse preso quel giorno, nessuno lo seppe mai.


Sbattè le palpebre: sì, era iniziato tutto con l'arrivo degli "ospiti". O meglio, il loro arrivo aveva accentuato il comportamento strano di Jacqueline.

Sentiva le loro voci provenire da dentro la stanza chiusa.
Guardò Zephyrine, leggendo nei suoi occhi la sua stessa confusione. Posarono un orecchio al muro, vicino alla porta, per poter udire meglio.
- Io ti sono sempre stata vicina. - stava dicendo Monaco, la voce bassa e fredda come le era solita da qualche tempo: - Come tua cugina e sorella. Sono sempre stata al tuo fianco, sotto il tuo stesso tetto, ti ho sempre aiutato, e tu hai protetto la mia casa. E di questo te ne sono grata. - un pausa, un respiro profondo: - Ma forse ti sei così abituato alla mia presenza da dimenticare chi io sia. Io sono esattamente come te. Non sono una tua colonia, Francis, né mai lo sarò. Ti sono sempre stata vicina come tua pari e non accetterò mai di essere posta sullo stesso piano di una colonia. - la sua voce si era abbassata, un sibilo: - O di un paese a te sottomesso. -.
Silenzio.
Sesel si spostò, premette l'orecchio contro il muro ancora di più: per qualche strana ragione, si sentiva agitata.
- Usi parole che poco ti si addicono, Jacquie. - il tono di Francia non rispecchiava affatto quello di Monaco: era leggero, sembrava quasi divertito.
- Non è educato rivolgersi con questi toni al padrone di casa, sai? - una risata spensierata: - Né a chi fa sì che tu abbia una casa a cui tornare. -.
Séchelles trasalì. Il cuore aveva iniziato a battere più velocemente, spaventato.
La voce di Francis era cambiata di colpo. Non le piaceva il modo in cui aveva pronunciato la seconda frase. Aveva l'impressione che nascondesse un qualche altro significato.
- ... non oseresti. - la voce di Jacquie si era fatta soffocata.
- Mia cara Jacquie... - quel tono non le piaceva, affatto: - ... posso fare ciò che voglio con le cose che mi appartengono. -.
Silenzio.
Troppo pesante.
- ... cosa sei diventato? - tremava. Monaco tremava. Almeno la sua voce. Non si sarebbe stupita di vedere i suoi occhi arrossati per lo sforzo di non piangere: - ... come puoi dire una cosa del genere? A me? - sussurrò: - Che cosa ti hanno messo in testa? Cosa direbbe
lei di tutto questo? -.
"Lei?" ripeté Sesel, tra sé e sé, non capendo.
- ... Francis. - Jacqueline parlò di nuovo. Ma la sua voce era improvvisamente esitante. Spaventata.
- ... dov'è il
suo quadro? - domandò, piano.
Séchelles guardò Zephyrine, in una muta domanda. Lei scosse la testa. Con tutti i quadri che erano stati tolti, era difficile capire di chi parlassero. Di una delle belle dame? O forse della donna in armatura?
Il silenzio che seguì a quella domanda fu il più lungo di tutti. E ogni istante che passava lo faceva diventare ancora più insostenibile.
- ... ci sono cose... - Francis parlava a voce bassa. Nonostante la distanza, riuscì a sentire un tremito nel suo tono: - ... che appartengono al passato. -.
Un respiro mozzato.
Dei passi affrettati che si facevano sempre più vicini.
La porta si aprì di colpo, Sesel e Zephyrine riuscirono ad indietreggiare appena in tempo.
Jacqueline quasi fuggì dalla stanza, una mano premuta sulla bocca, gli occhi rossi come li aveva immaginati.
Quando Séchelles osò dare un'occhiata oltre la porta, vide Francis su una poltrona, il volto affondato in una mano.


Aveva avuto paura.
Non riusciva a capire, aveva paura di chiedere, delle risposte che sarebbero potute arrivare.
Francis non era cattivo. Questa era la sua unica certezza, qualsiasi cosa dicessero gli ospiti o Jacquie.
Sentiva quella tensione ogni volta che Francia tornava. Ma voleva illudersi che fosse solo una sua impressione. Che andasse tutto bene, che non ci fosse niente di sbagliato. Rimanere abbracciata a Francis e fargli i complimenti per tutte le sue vittorie - davvero tante, in quel periodo.
Avrebbe voluto continuare così. Sarebbe stata felice, in fondo.
Scosse la testa, togliendosi dalla mente il sollievo per non essere più in quella casa.
Forse stava andando incontro a qualcosa di ben peggiore, non poteva saperlo.
E poi, cosa sarebbe successo? Non aveva idea di cosa significasse cambiare madrepatria. Andava a vivere da un'altra parte, ma... com'erano le altre nazioni?
Lei conosceva solo i suoi fratelli, le sue sorelle, Monaco, Francia e gli ospiti.
Sentì di nuovo una brutta stretta all'altezza dello stomaco.
Era la prima volta che succedeva una cosa simile, a lei. Non sapeva cosa fare, cosa pensare.
Sgranò gli occhi: "... per me." si rese conto. L'aveva avuto sotto gli occhi - letteralmente - per tutto il tempo.
- Ile? - lo chiamò, guardandolo negli occhi: - Questa non è la prima volta che cambi madrepatria, vero? -.
Dosnee le rivolse un sorriso - forse sollevato nel vederla più tranquilla - e scosse la testa: - No, infatti. E' la terza volta. Questa è la mia attuale quarta madrepatria. - spiegò. Guardò Rodrigues, al suo fianco: - Vero, Eurée? -.
La bambina annuì.
- E... - fece Sesel, improvvisamente incuriosita: - ... com'erano... le altre madrepatrie? -.
Ile de France tornò a guardarla: - Portugal e Pays-Bas? -.
"Oh, giusto." si ricordò Séchelles: Paesi Bassi, Olanda, era stato una madrepatria di Ile de France.
Le fu spontaneo aggrottare la fronte: Dosnee e Olanda non si erano mai rivolti la parola - almeno, non li aveva mai visti parlare tra di loro. Inoltre, nessuno dei due le era parso cercare il dialogo con l'altro. Ricordava soltanto che Ile si era rivolto ad Olanda in due occasioni.
La prima era stata al suo arrivo. Aveva esibito uno dei suoi sorrisi luminosi e aveva detto: - Welkom, Nederland! -. L'unica cosa che non le tornava era stato il suo sguardo: avrebbe detto che vi brillasse una luce di soddisfazione. Ma non le dava una bella sensazione.
La seconda volta era stato durante un pranzo. Ricordava come Olanda guardasse il pollo nel piatto quasi con sufficienza, stuzzicandolo di tanto in tanto con la forchetta. Ile aveva preso la parola: - Walgvogel, nietwaar? -. Aveva sorriso, non aveva aggiunto altro. Lo sguardo di Olanda si era indurito. L'aria si era fatta più pesante. Sesel non osò mai chiedere cosa gli avesse detto.
- Beh... - Dosnee sorrise, sereno: - ... hanno sterminato la mia fauna, distrutto la mia identità e approfittato impunemente della mia casa. -.
Un blocco alla gola.
Si sentì ghiacciare il sangue nelle vene, gli occhi iniziarono a farle male, tanto li aveva sgranati: - ... cosa? - riuscì solo a farfugliare.
- Quello che ho detto! - esclamò Ile, con una risatina: - Portugal ha iniziato, Pays-Bas ha completato l'opera. Non era molto bello, in realtà. - scosse la testa con fare paziente, come se stesse parlando di due bambini dispettosi: - Portavano i loro animali e mangiavano le uova dei miei uccelli. Oppure, erano proprio loro a dare la caccia ai miei animali. So che hanno anche scritto dei brevi trattati sul modo migliore per ucciderli. - alzò gli occhi al cielo, il tono divertito: - Ma, purtroppo, ora sono inutili. Non ci sono più! -.
Si sentiva soffocare. "Cosa sta dicendo...?".
- Però le loro carni avevano un saporaccio, a sentir loro. - proseguì Dosnee, scuotendo di nuovo la testa: - Ma c'è da dire che sono stati gentili ed educati. Me le hanno offerte! -.
Si portò una mano alla bocca, sconvolta. "E' orribile...".
- Sono scomparsi tanti animali. - sospirò Ile, gettando un'occhiata fuori dal finestrino: - Tipo i dodo. Erano carini, i dodo. -. Tornò a guardarla, sulle labbra un enorme sorriso: - Erano grandi quasi quanto me. Grandi e grossi, ciccioni. Con tante piume, soprattutto sulla coda, sembrava un batuffolo! E avevano anche un becco enorme. Così. - mise le mani ad una ventina di centimetri di distanza l'una dall'altra, a mimarle una grandezza: - E facevano un verso carino! Era tipo "Do do! Do do!". - rise, come se avesse sentito una battuta divertente.
Séchelles inorridì: non sapeva cosa la stesse spaventando di più, se ciò che Dosnee le stava raccontando o come.
- Quindi Portugal li ha chiamati "dodo"! - riprese Ile: - Adatto, sai? Nella sua lingua, "doido" vuol dire "stupido". Ed erano davvero stupidi! - inclinò la testa di lato: - Andavano incontro agli stranieri, non scappavano ed erano talmente lenti da farsi catturare facilmente. Proprio come me! -. Il suo sorriso sembrava essere irreversibile: - Sai, è stato grazie a Portugal e Pays-Bas che ho imparato a non fidarmi di nessuno. Io li ho accolti in casa... o meglio, loro sono arrivati nella mia casa e hanno fatto i loro comodi. - si corresse: - L'hanno fatto anche con Rodrigues. Vero, Eurée? -.
La bambina annuì, il volto cupo.
- Però la casa di Rodrigues è piccola, quindi hanno fatto presto. - alzò le spalle: - A casa mia si sono divertiti di più. Io di meno. Non era carino trovare ovunque uova rotte e animali che erano in vita fino a poco prima. -.
Sesel rabbrividì. Fu tentata dal fermarlo.
- Prima c'erano tanti animali. - sospirò Dosnee, puntando il gomito sul bordo del finestrino e appoggiando il volto su una mano: - Poi non c'erano più. Magia! - ridacchiò, muovendo le dita dell'altra mano: - C'è da dire che Portugal e Pays-Bas hanno avuto un ottimo insegnante. Fratello per l'uno, madrepatria per l'altro. Sono sicuro che tante nazioni dell'America del centro e del sud possono confermare l'abilità di Espagne! -.
- Capisco... - intervenne Séchelles, sperando di fermarlo. Aveva sentito abbastanza. Aveva rimpianto di aver fatto una domanda simile.
Tuttavia, si rese conto solo in quel momento di sapere davvero poco di Dosnee. Non avrebbe mai immaginato che avesse un passato così doloroso.
- Ma, in fondo, hanno fatto una cosa giusta. - disse Ile: - Come ho detto prima, è solo grazie a loro se ora non mi fido di nessuno. Se non avessero fatto ciò che hanno fatto, probabilmente sarei ancora un marmocchio ingenuo che va dietro a chiunque si mostri vagamente sicuro di una sua idea. - sorrise: - Ho imparato che la cosa migliore da fare è assecondare. Ma rimanere fermi nelle proprie idee. E pensare soltanto a se stessi, senza curarsi o fidarsi di nessuno. -. Il suo sorriso mutò. E non le piacque.
- Vero, Eurée? - domandò alla bambina. Quest'ultima annuì, seria.
- Ma tu ti fidavi di Francis! - si morse la lingua all'istante. Era stato l'istinto a farla parlare, non avrebbe mai voluto dire una cosa del genere. Perché temeva la risposta.
Ile tornò composto, la testa appena inclinata, il sorriso pacato e inquietante, gli occhi illuminati di una luce sinistra: - Sicura di voler sapere la risposta, Sesel? -.
Scosse la testa.
Si ritrovò a ringraziarlo mentalmente per averle dato l'occasione di rifiutare.
Non osò, né mai avrebbe osato, chiedergli se si fidasse di lei.
Spostò lo sguardo su Chagos, a disagio. Il bambino non aveva emesso alcun suono, era rimasto uno spettatore silenzioso. Gli prese una mano, cercando di convincersi che fosse per confortare lui, più che lei.
Le nazioni non erano tutte buone come Francis. Portogallo e Olanda avevano fatto soffrire Dosnee in un modo che non avrebbe mai creduto possibile. Non accusò suo fratello: aveva vissuto esperienze troppo orribili perché potesse dare la sua fiducia a qualcuno che non fosse Rodrigues. Poteva capirlo.
E c'era anche quello Spagna, crudele, a dire di Ile; le era parso di sentire quel nome da Francis e, a volte, anche in accezione positiva. Forse Dosnee si era sbagliato, forse gli erano giunte dicerie false. Considerando il modo in cui aveva capito vedeva gli altri, poi, non era così strano che avesse dato maggior peso alle voci negative.
Deglutì, inspirò a fondo. Troppe "madrepatrie" che facevano soffrire. Non sapeva come fosse lui.
Aveva un vago ricordo di ciò che Francis stesso disse a proposito, qualcosa di positivo. Era l'unica cosa che riusciva a mantenerla lucida.
- Siamo arrivati. -.
Una voce la distolse dai suoi pensieri: l'uomo che li aveva accompagnati fin lì, un ambasciatore o qualcosa del genere, era sceso dal posto accanto al conducente, aveva parlato ed era andato a posizionarsi all'inizio di un lungo viale visibile dal finestrino. La porta della carrozza fu aperta - Sesel neppure si era accorta si fosse fermata - e loro quattro poterono scendere.
Fuori dalla carrozza, il freddo era ancora più intenso.
Si strinse nel mantello, stupendosi in prima persona di non star battendo i denti. Persino i profumi che sentiva sembravano freddi; ogni volta che inspirava, si sentiva ghiacciare i polmoni, affrettandosi ad espirare. Non che quel posto profumasse. Erano odori indistinti e non disgustosi, il che poteva portarli ad essere definiti "profumi accennati". L'unico vero profumo che riuscì a riconoscere fu quello dell'erba: impossibile non sentirlo, dato che l'uomo li stava accompagnando lungo un viale - grigio, ovviamente - immerso nel verde. Verde. Un prato il cui colore poteva essere associato al verde. Un verde smorto, come se qualcuno avesse dipinto degli steli grigi nel disperato tentativo di dare un briciolo di colore. Piatto, molto poco vitale e forse prossimo allo sparire alla prima glaciazione. A giudicare dal tempo, non doveva mancare molto, tra l'altro.
Strinse la mano di Chagos nella destra, quella di Ile nella sinistra; Rodrigues lo teneva per l'altra mano. Avanzarono in riga, più che in fila, seguendo l'ambasciatore e un altro uomo, notando quelli che probabilmente erano servitori intenti a trasportare i loro bagagli a destinazione: una casa grigia. Che forse voleva essere marrone, ma Sesel la vedeva grigia. Un grosso rettangolo di un marrone fallimentare. Il tetto, però, era grigio davvero. I bordi delle finestre e della porta e le colonnine del piccolo portico avevano la pretesa di essere bianche; il risultato era un bianco sporco simile al grigio chiaro.
Non le piacque. Voleva tornare a Parigi, in una casa meno bella della precedente ma inifinitamente migliore di quella.
La porta era aperta e i bambini poterono entrare subito.
L'unica cosa positiva fu che, almeno, dentro non faceva freddo. Per il resto, non c'era di che gioire.
Sulla destra c'erano delle scale che portavano in alto. Grigie. Con un corrimano di legno. Scuro. Di un marrone talmente scuro da sembrare nero.
Sulla sinistra si aprivano diversi corridoi, si intravedevano svariate porte, c'era persino una finestra. Il pavimento e il soffitto erano bianchi. Ossia grigio chiaro. E la finestra non si sa che luce avrebbe dovuto far entrare, visto che il sole era un'entità mitologica. Alzando lo sguardo, riusciva a vedere i piani superiori, poteva vedere i parapetti composti di tanti cilindri dalla base tondeggiante. Sempre di quel marrone che sembrava nero.
Rivolse uno sguardo affranto a Dosnee, notando che aveva inarcato le sopracciglia.
Di fronte a cose del genere, persino i loro abiti di broccato impreziositi di fili d'oro e d'argento sembravano perdere lucentezza. Quasi temette di abbassare lo sguardo e ritrovare il suo vestito bianco e argento improvvisamente bianco sporco e color sasso.
Lanciò uno sguardo all'ambasciatore: stava parlando con un signore impettito vestito di nero e grigio scuro - ovviamente -, l'altro uomo che era con loro si era scoperto essere un interprete.
Dopo qualche minuto, il signore firmò un foglio che gli veniva porto; l'ambasciatore lo riprese, per poi inginocchiarsi davanti alle piccole colonie.
- Ogni cosa è sistemata. - annunciò: - Vi ricordo che il signor France si aspetta la massima educazione da parte vostra, finché rimarrete qui. -.
Annuirono.
- Seguite il maggiordomo. - aggiunse, facendo un cenno al signore impettito: - Sarà lui a condurvi. -.
Annuirono di nuovo.
- Arrivederci, allora. - salutò, visibilmente desideroso di andarsene. Sesel avrebbe voluto seguirlo. Ma si ritrovò ad annuire ancora una volta e a ricambiare il saluto, suo e dell'interprete.
Quando i due uomini furono nei pressi della carrozza, la porta fu chiusa.
Séchelles si sentì come intrappolata. Strinse più forte le mani dei suoi fratelli.
- Come with me. -
Il maggiordomo parlò, ma Sesel non capì una parola. Guardò Dosnee, aveva un sopracciglio inarcato. Era nella sua stessa situazione.
Tuttavia, il signor ambasciatore aveva detto loro di seguirlo e così avrebbero fatto. Se avesse voluto farsi capire, che parlasse loro in una lingua comprensibile.
Fu così che i quattro bambini seguirono l'uomo impettito lungo le scale, salendo di chissà quanti piani; Sesel non se ne curò, troppo presa a notare quanto fosse alto il parapetto: per toccarne la parte superiore, avrebbe dovuto distendere un braccio e alzarsi sulle punte.
Dopo un tempo imprecisato, si fermarono in un corridoio, davanti ad una porta di legno scuro.
Il maggiordomo bussò. Dovette ricevere una risposta, perché entrò; chinò la testa a qualcuno sulla loro destra e annunciò: - Mister Ile de France, Miss Séchelles, Mister Chagos and Miss Rodrigues. -.
Sesel sentì i brividi lungo le braccia: non aveva mai sentito i loro nomi pronunciati in una maniera simile. Non aveva azzeccato un accento che fosse uno, aveva detto lettere a caso - la "s" finale del suo nome era sempre stata muta, lui l'aveva detta quasi con enfasi. E Ile si era ritrovato una "i" attaccata al "de" del suo nome. Il nome di Chagos era riuscita a capirlo solo per intuizione, viste quella "c" al posto di "sc" e quell'"ei" apparso dal nulla. - e sembrava aver litigato con la "r" - Rodrigues non poteva salvarsi, ovviamente.
Si sentì tirare da Dosnee: erano stati annunciati, dovevano entrare nella stanza.
Il maggiordomo uscì, richiudendo la porta alle loro spalle.
Di nuovo, Sesel si sentì quasi prigioniera. Non era una bella sensazione.
Se non altro, almeno, quell'ambiente poteva dirsi bianco. Bianco quasi bianco vero. C'erano ben due finestre - sempre di utilità ignota - e il divano su cui andarono a sedersi era di un gradevole color panna. Dalle gambe e dai contorni di braccioli e schienale marroni. Marrone scuro. Sarebbe stato un ambiente troppo chiaro, altrimenti. Anche i bordi delle finestre erano marrone scuro.
L'ampio tavolo oltre un secondo divano color panna, posizionato esattamente davanti a quello su cui si erano seduti, speculare, era invece di uno strano colore rossiccio. O forse era un marrone diverso. Marrone rossiccio.
Quella in cui li avevano fatti sbarcare era una terra dai colori confusi. Pochi e confusi.
Dietro il tavolo, c'erano cinque persone: quattro uomini e una donna.
I cinque si erano alzati non appena loro erano entrati, per poi aggirare il tavolo e andare a sedersi sul divano speculare al loro.
Sesel sbattè più volte le palpebre: tre dei quattro uomini erano vestiti di nero e grigio, sì, ma la donna e l'altro uomo erano abbigliati di verde; non un verde smorto, quello era il verde delle fronde degli alberi, un colore vivo.
Le loro teste sembravano la tavolozza di un pittore: i due in verde, alla loro destra, e il più alto degli uomini, alla loro estrema sinistra, esibivano una chioma rossa, quasi con riflessi arancioni. Aveva visto delle parrucche, delle fanciulle dai boccoli di un castano che ricordava il rosso, ma mai un rosso così acceso e vero.
La donna, poi, aveva una treccia lunghissima, tanto che il fiocco verde che le legava i capelli era all'altezza della vita; probabilmente, la sua chioma, sciolta, sarebbe stata bellissima, come un cielo al tramonto.
L'uomo a destra del più alto, invece, era bruno, un marrone simile a quello della sua pelle, forse più chiaro.
I capelli dell'uomo al centro, infine, erano biondi. Un biondo più intenso di quello di Francis, dovette ammettere Sesel.
Aveva dato loro uno sguardo approssimativo, quando proprio il giovane dai capelli biondi si schiarì la voce e parlò, catturando la sua attenzione: - Salve. -.
La sua voce aveva un tono conciliante: - Spero che il viaggio non sia stato troppo faticoso. -.
Nessuno rispose.
Lui accennò ad un sorriso - imbarazzato? - e proseguì: - Noi... - con un gesto della mano, indicò se stesso e i quattro a lui vicini: - ... siamo lo United Kingdom. - presentò: - E vi diamo il benvenuto a London. -.
Giusto. Quelle cinque persone erano nazioni.
Avevano parlato loro nella lingua delle nazioni e, a quella distanza ravvicinata, poteva sentire quella sensazione particolare che la coglieva in presenza dei suoi simili.
Erano davvero vicini, poteva vederli meglio, con più attenzione.
Ad esempio, notò come l'uomo più a sinistra fosse quello fisicamente più grande di tutti: aveva già notato come fosse il più alto, ma anche la sua stazza, le sue spalle, erano più ampie di quelle degli altri uomini; aveva dei tratti molto duri, incredibilmente in contrasto con quelli morbidi del ragazzo al suo fianco, che a stento doveva arrivargli al mento.
I due in verde la lasciarono perplessa: non riuscì a capire se fosse l'uomo ad avere tratti effeminati o la donna ad avere tratti mascolini. Presi singolarmente, avrebbe senz'altro pensato così; insieme, risultavano paradossalmente identici, impossibile capire se fossero maschi o femmine, se non dai vestiti.
L'uomo al centro non sembrava avere niente di speciale: non era né il più alto né il più basso, né il più robusto né il più esile, una via di mezzo tra tutti e cinque.
Ma gli occhi.
Tutti e cinque i componenti dello United Kingdom avevano gli occhi verdi, belli, sì, ma erano di un verde quasi "normale", un verde molto simile a quello che aveva visto anche nelle iridi di alcuni suoi fratelli e sorelle; quelli del ragazzo biondo no.
Aveva sentito spesso l'espressione "occhi come smeraldi"; l'aveva sempre trovata una definizione poetica, che ben rendeva l'idea di occhi di un verde intenso, brillante. Ma era una descrizione un po' esagerata, nessuno aveva davvero gli occhi del verde degli smeraldi - ne aveva visti, di smeraldi, ad adornare gli abiti di alcune dame e persino di alcuni signori, quindi aveva potuto fare spesso dei confronti.
Quelli lo erano. Sembravano avere le stesse sfaccettature degli smeraldi, un verde di tantissime tonalità, più scure, più chiare. Anzi, al confronto, alcuni smeraldi che aveva visto negli anelli o nelle collane sembravano soltanto volgari imitazioni malriuscite, opache, grezze.
Per un istante, pensò che fossero occhi finti. O frutto di qualche magia. O che fossero davvero smeraldi, i più preziosi che potessero esistere. Era come se Madre Natura avesse avuto a disposizione dieci smeraldi meravigliosi, al di sopra di tutti gli altri, e li avesse donati allo United Kingdom per farne i loro occhi; soltanto che otto di quegli smeraldi erano come una "prova", particolari, ma inferiori a quei due.
Sesel lo pensò, tutto questo. Rimase sinceramente incantata dagli occhi del giovane dai capelli biondi, tanto da fissarlo in maniera poco educata, con le labbra schiuse per lo stupore.
Lo pensò, ma in un secondo momento.
Perché la prima cosa che aveva catturato la sua attenzione, come una calamita a cui era impossibile sottrarsi, non era quella coppia di smeraldi, ma ciò che si trovava sopra.
Sopracciglia.
Enormi.
Dovevano essere alte almeno tre dita, spaventosamente folte, a righe. Erano a righe. Erano sopracciglia a righe. Di tre dita. Una folta strisciolina, poi una breve interruzione, un'altra folta strisciolina, poi un'altra interruzione. Per tre dita.
Erano ovunque. Su tutti e cinque i volti.
La cosa più disturbante stava nel fatto che quelle... cose fossero nere. O di un qualsiasi colore molto, molto, molto scuro, tanto da risultare nero.
Risaltavano in maniera spaventosa su quelle pelli bianche. Sul ragazzo bruno di meno, dato che i ciuffi di capelli più o meno scuri riuscivano a farle passare quasi inosservate; su quelle tre chiome rosse, non erano difficili da individuare ma, ad un'occhiata di sfuggita, forse sarebbero potute non essere notate.
Tra quei capelli biondi risaltavano in un modo inquietante. Tra la pelle chiara e i capelli chiari, la prima cosa visibile erano proprio quelle cose, in maniera a dir poco nitida e piuttosto disturbante.
Se la loro funzione era fungere da guardiane e custodi di quegli smeraldi tanto belli, riuscivano benissimo nel loro intento. Ma veramente bene. Nessuno avrebbe osato avvicinarsi a quegli occhi tanto magnifici, con due foreste nere di quelle dimensioni pronte ad attaccare.
Come se quelle cose non bastassero, i capelli biondi del ragazzo sembravano una consistente manciata di fieno sbattuta sulla sua testa. Una parte di Sesel avrebbe voluto toccarli per scoprire se ne avessero anche la consistenza, l'altra metà era terrorizzata per lo stesso motivo.
Quei capelli non avevano un perché, un senso, una qualsiasi cosa, esattamente come quelli degli altri tre uomini. Séchelles comprese che era un bene che la donna li portasse legati: sì, sarebbero stati belli, per il loro colore, ma sarebbe anche stata una cascata di capelli spezzati e sfribrati, magari folti non per natura ma per un'illusione ottica data dalle troppe doppie punte. Davvero, avrebbe fatto meglio a scioglierli solo nella sua camera.
"Oltre al sole, anche i barbieri devono essere una leggenda, qui..." si rese conto Sesel, con un moto di compassione: forse non avevano i mezzi per prendersi cura dei propri capelli, dunque non poteva accusarli. Tuttavia, con orrore, si rese conto che, se una cosa simile fosse stata vera, avrebbe dovuto curarsi dei suoi capelli da sola, con ancor più attenzione e con molti meno mezzi a disposizione.
Decisamente, odiava quel posto.
Si voltò verso Dosnee, sperando che dicesse qualcosa: lo trovò con gli occhi sgranati, la fronte aggrottata, lo sguardo fisso su... era ovvio.
Gettò una rapida occhiata anche ai più piccoli: Océan aveva la stessa espressione di suo fratello, Rodrigues altrettanto, se non fosse che, avendo già di suo l'abitudine di spalancare gli occhi ad ogni minima cosa, in quel momento sembrava le stessero per uscire dalle orbite.
L'uomo dai capelli biondi si schiarì la voce; se prima era un dubbio, ora era palese che fosse un po' a disagio. Forse avrebbero dovuto dire qualcosa. Ma, almeno lei, non riusciva a parlare. Quelle cose avevano occupato tutto lo spazio disponibile nella sua mente.
- Io sono England. - si presentò il ragazzo, riuscendo a riportarla un minimo alla realtà: - Loro sono Scotland... - l'uomo grande dai capelli rossi fece un cenno con il capo: - ... Wales... - il ragazzo bruno sorrise: - ... e Ireland. - concluse England, accennando ai due in verde: - Northern... - il giovane schiuse le labbra in un enorme sorriso: - ... e Southern. - la ragazza lo imitò.
Séchelles riuscì a trovare la forza di chinare appena la testa, un cenno di saluto, notando, di sfuggita, che Dosnee, Eurée e Océan avevano fatto altrettanto.
- Noi conosciamo i vostri nomi. - riprese England, in apparenza più tranquillo: - Però non sappiamo chi esattamente è chi. -. Accennò ad un sorriso, lasciando intuire di essere ancora un po' imbarazzato - dal loro mutismo, forse?
Sesel tornò a guardare Ile, indecisa sul da farsi: sembrava un tacito invito a presentarsi, ma qualcosa la frenava.
E, no, non era la timidezza. Assolutamente.
Dopo qualche secondo, Dosnee parlò: - Mo apel Ile de France. -.
Bastarono quelle poche parole per spazzare via quel freno - che non era timidezza, ovviamente: - Mo apel Séchelles. -.
Udì, subito dopo, la vocina di Eurée: - Mo appélé Rodrigues. -.
Océan concluse: - Mo apel Archipel des Chagos. -.
- Ah... - England inarcò le cose - chissà quanto sforzo fisico ci voleva. Magari doveva pure prepararsi con qualche minuto d'anticipo. - e portò le mani avanti: - Ehm, potreste parlare nella lingua delle nazioni? - un sorriso esitante: - Non capiamo molto bene il francese. -.
Scotland serrò le labbra ed espirò forte, come se stesse trattenendo una risata.
Northern e Southern, invece, non si erano fatti problemi: - Oh, no, we don't understand french language! - disse il ragazzo, in un sussurro divertito.
- Us? Of course not! - gli fece eco la ragazza: - Expecially you! -.
Qualunque cosa avessero detto, ad England non era piaciuto, a giudicare dal modo in cui li fulminò con lo sguardo.
Quegli occhi meravigliosi, sempre accompagnati dalle cose, tornarono a loro, più tranquilli: - Anche alcuni dei vostri nomi sono difficili da pronunciare, per noi. - disse, con tono di scuse.
"Sì, di questo me n'ero accorta." pensò Sesel.
- Magari non Rodrigues e Chagos... -
"Cosa?" si ritrovò a sgranare di nuovo gli occhi: "Ma se sono i nomi che pronunciano peggio! E lui li pronuncia anche peggio del signore di prima!".
- ... ecco, Ile de France... - England si rivolse a Dosnee, di nuovo con un sorriso incerto: - ... il tuo nome, ad esempio, per noi è un po' difficile da dire.
Sappiamo che ne avevi un altro prima di chiamarti così. O no? -.
Ile piegò appena la testa di lato, l'espressione incuriosita. Sesel lo vide sbattere le palpebre un paio di volte prima di rispondere: - Voulez-vous dire... - scosse la testa, correggendosi: - Volete dire "Mauritius"? -.
Fu la volta di Séchelles di stupirsi: "Anche Ile aveva un altro nome?". Sapeva davvero pochissime cose di lui, nonostante lo conoscesse da oltre cinquant'anni. "... beh, lui non mi ha parlato troppo del suo passato." riflettè: "... e credo sia meglio così.".
England annuì alle parole di Dosnee: - "Mauritius" può andare bene, sì. -.
Stavolta il suo sguardo di smeraldo si spostò su Sesel: - Anche il tuo nome... -
Bastò quello per farle ridurre gli occhi a fessure: lei non era Bourdonnais. Non era più Almirante. Non avrebbe mai accettato di riprendere quei nomi che non le appartenevano più. Strinse i pugni, un stretta al cuore nel ricordare come il nome che portava gliel'aveva dato Francis. Un motivo in più per rifiutarsi di rispondere ad un altro.
England tacque, tirandosi appena indietro, forse involontariamente.
- Il tuo nome va bene così... - sorrise, imbarazzato: - ... soltanto, potremmo renderlo più facile da pronunciare per noi, no? -.
Sesel non rispose. Sentiva il cuore più leggero, ma non riusciva a rilassare le spalle e le mani, le nocche sbiancate.
- Ad esempio, che ne dici di "Seychelles"? -.
Quel nome la colpì in pieno, facendole perdere la tensione alle mani. "Non è brutto..." notò: "E' il mio, ma con una lettera in più.".
Lo ricordava. Un nuovo nome apre la strada per una nuova vita.
Aveva attraversato di nuovo il mare, era in una terra sconosciuta e chissà per quanto sarebbe dovuta rimanere. Non era più davvero "Séchelles". Però, forse, se anche avesse iniziato una nuova vita, non era necessario che lei cambiasse completamente.
Séchelles e Seychelles. Erano nomi simili, ma diversi. Forse anche lei sarebbe un po' cambiata, pur rimanendo se stessa. Simile, ma diversa.
- ... d'accordo. - annuì, infine.
Vide una luce di sollievo in quegli smeraldi. Se ne stupì: "Il signor England aveva paura che dicevo di no?".
- Bene! - esclamò il ragazzo dai capelli biondi, con un tono più allegro: - Mauritius, Seychelles, Rodrigues e Chagos! - riepilogò, guardandoli man mano che pronunciava i loro nomi: - Finché rimarrete qui, vi chiameremo in questo modo. -.
"... loro? Qui?" qualcosa non tornava: "Non ci devono portare da lui?".
Guardò Ile - Mauritius? -, in cerca d'aiuto: "Cosa sta succedendo?" fu la sua muta domanda.
Dosnee, a giudicare dalla faccia sorpresa, ne sapeva quanto lei. Fu lui, quindi, a porre la domanda: - Eskiz-mwa... - esordì, confuso: - ... credo ci sia un equivoco. -.
I cinque componenti dello United Kingdom assunsero la stessa espressione stupita.
- Prego? - domandò England.
- Ci è stato detto che saremmo andati presso Angleterre. - spiegò Dosnee: - Eppure non l'abbiamo visto. Potremmo incontrarlo? -
Séchelles intervenne per dargli manforte, rivolgendosi direttamente al ragazzo biondo: - Voi conoscete il signor Angleterre, signor England? -.
Silenzio.
Poi, come una sola persona, Scotland, Wales, Northern e Southern scoppiarono a ridere, risate così forti che sembrarono far tremare i vetri delle finestre, talmente improvvise e inaspettate da far trasalire loro.
England era impietrito. Fronte aggrottata, cose inarcate, occhi sgranati e labbra schiuse, sembrava essersi congelato.
- It's wonderful... - fece Scotland, riprendendo fiato. La sua voce era un po' roca.
- Come on, it's just a little mistake... - disse Wales, cercando disperatamente di ricomporsi o, almeno, di non ridere in modo troppo sguaiato.
- Stop laughing! Everyone! - England parve essersi ripreso, il volto di colpo imporporato, il tono furioso.
- Now we have to explain it to them. - Northern recuperò fiato, tornando più o meno composto.
- Artie can do it! - disse subito Scotland.
- "I can" what? - sibilò England, rivolgendogli un'occhiata decisamente poco carina.
- Yes! - sorrise Wales, senza neanche far caso all'espressione dell'altro: - You speak french very well! -
- Absolutely. - non sapeva cosa si stessero dicendo, ma il ragazzo dai capelli biondi non stava gradendo. England tornò a rivolgersi a Scotland: - Why don't you do it? - domandò, calcando sullo "you": - I thought you knew very well french language. -. Nel dirlo, aveva curvato le labbra in uno strano sorriso, più simile ad un ghigno soddisfatto, in realtà.
Scotland rispose con un sorriso identico: - Yes, Artie, I can speak french without problems. Just... - il suo tono si fece dispiaciuto, del tutto in contrasto con la sua espressione ironica: - ... my accent is awful. Really. And you don't want us to make a bad impression with these children, right? -.
Il sorriso di England si era fatto tirato, gli occhi lasciavano chiaramente intendere il suo desiderio di prendere la prima cosa - non sopracciglia - disponibile e fracassarla con quanta più violenza possibile sulla testa rossa di Scotland. Per un attimo, Sesel temette gli lanciasse contro Wales.
- Ah, Artie is so cutie when speaks french! - sospirò Northern, l'aria intenerita.
- So lovely! - fece Southern, il viso sognante.
England guardò i due con un sorriso di colpo tranquillo, sereno, pacato e pacifico: - Die. -.
Trasse un profondo respiro, come se stesse cercando di sentire un qualche profumo, e disse: - I hate you with all my heart. -. Poi si alzò, tornando al tavolo alle loro spalle.
- Where are you going? - domandarono i quattro, in perfetta sincronia, una nota stupita nelle loro voci.
England non rispose, impegnato ad armeggiare con dei fogli sul tavolo. Dopo qualche istante, fu di ritorno, in mano quella che si rivelò essere una cartina geografica.
Non si sedette sul divano: andò a mettersi in ginocchio davanti a loro, la cartina davanti.
Sesel si avvicinò al foglio, sentendo Dosnee, Océan e presumibilmente anche Eurée fare lo stesso: una cartina dell'Inghilterra. Aveva già avuto modo di vederla, la conosceva.
- Il Royaume-Uni. - pigolò Chagos, nel vedere la cartina.
- United Kingdom. - disse England, tracciando con un dito un cerchio immaginario attorno alle due isole rappresentate. Poi indicò l'isola a sinistra, più piccola.
- Irlande. - rispose Sesel. Era con quel nome che la conosceva.
- Ireland. - la corresse England: - Northern... - indicò la parte in alto: - ... e Southern. - si spostò in basso. Portò poi il dito sull'estremità superiore dell'isola più grande, a destra.
- Écosse. - parlò Dosnee, dubbioso.
- Scotland. - lo contraddì l'altro, scendendo fino ad una piccola protuberanza sulla sinistra.
- Galles. - fece Rodrigues.
- Wales. - disse il ragazzo. Infine, indicò quella terra che Sesel aveva già conosciuto su carta.
- Angleterre. - si lasciò sfuggire. Guardò il giovane negli occhi, un sospetto improvviso.
- England. -.
Si sentì come se fosse finita sotto una cascata di acqua fredda. Eppure, al tempo stesso, le veniva da ridere. Sbattè le palpebre, non riuscì a trattenersi oltre e portò una mano davanti alla bocca, cercando di non apparire maleducata.
Non sapeva neppure lei perché, ma la cosa le sembrava assurda, assurda in modo divertente, però.
- Es-tu monsieur Angleterre? - non se lo immaginava così. In realtà, non si era soffermata troppo a pensare come potesse essere "monsieur Angleterre". Di certo, non si aspettava un giovane dagli occhi di smeraldo e...
... non si aspettava England, ecco.
Poteva dirsi piacevolmente sorpresa. Piacevolmente, perché England, nonostante tutto, non le aveva dato una brutta sensazione. Soprattutto quando si era avvicinato, aveva sentito una strana tranquillità, rilassante, in un certo modo.
Inspirò e si bloccò.
Mare.
Sentiva un odore salmastro, leggerissimo, a stento percettibile. Non era il profumo del mare freddo che aveva attraversato, non era il profumo di uno specchio d'acqua costretto tra la terra. Quello era il profumo del suo mare, il mare senza confini, che si fondeva con il cielo sulla linea dell'orizzonte, libero e immenso.
Non sentiva quel profumo da anni, metà secolo. In Francia non l'aveva più sentito. "E ora lo sento qui?".
Quando England si rialzò - doveva averle risposto, ma non aveva sentito -, ebbe un tuffo al cuore: era il profumo di England.
Non era un profumo intenso, come quello di Francis, che dava l'idea di essere caduti di faccia su un immenso mazzo di almeno duecento rose; era un profumo discreto, come se non volesse farsi sentire.
"Il signor Angleterre ha il profumo della mia casa." si rese conto, sentendo le guance farsi più calde.
In quella città non c'erano colori, non c'erano profumi, non c'era calore, non c'era niente. Non riusciva a credere di aver ritrovato, in un posto che aveva odiato fin da subito, qualcosa che non era stata in grado di ritrovare in Francia.
Forse l'Inghilterra non era un posto così brutto.
Per quanto non ci fossero barbieri.
- Bene. - England era tornato al divano davanti al loro, ma non si era seduto: - I vostri bagagli dovrebbero essere stati portati nelle vostre stanze. Wales e Southern vi accompagneranno. -.
Il giovane dai capelli bruni e la donna si alzarono, avvicinandosi a loro. Senza pensarci, Sesel scivolò giù dal divano, imitando ciò che Dosnee aveva fatto un secondo prima, seguita dai più piccoli.
Southern si chinò appena verso di lei, tendendo una mano verso Rodrigues: - Seguitemi, prego. -. Sorrideva, con fare materno, la voce pacata e gentile. Non somigliava neppure a quella quasi acuta che aveva sentito fino ad un attimo prima.
Dopo un istante di esitazione, Sesel lasciò la mano di Dosnee, ritrovandosi al fianco la minuscola presenza di Eurée. Sapeva quanto fosse scontato che l'ala maschile e l'ala femminile fossero separate, ma non voleva dividersi da suo fratello maggiore. Le sembrava troppo presto.
- Buon riposo. - disse England, alla loro volta.
Sesel fece un leggero inchino, imitata da Rodrigues: - Grazie, monsieur. -.
"Ah, abbiamo di nuovo parlato in francese." alzò le spalle: "Beh, non è una cosa così grave.".
Dopo dei piccoli inchini anche a Scotland e Northern e dopo aver salutato temporaneamente "Mauritius" e Chagos, le due bambine seguirono Southern prima per le scale, poi lungo un corridoio a sinistra. La manina di Eurée nella sua, Sesel continuava a guardarsi intorno, nelle orecchie il solo suono dei loro passi: neppure quella zona si risparmiava colori smorti e gradazioni di grigio. Chissà perché, se l'era aspettato.
Percorsero il tragitto in silenzio, fino a raggiungere un piccolo corridoio costellato di porte scure sulla destra, una porta visibile alla fine, davanti a loro.
Una delle porte era aperta e fu lì che Southern si fermò, facendo loro cenno di entrare.
- Questa è la vostra stanza. - spiegò. Quando le bambine entrarono, Sesel potè dirsi piacevolmente sorpresa: il pavimento, il soffitto e le pareti erano di una tonalità piuttosto vicina al bianco, c'era una finestra il quintuplo di lei sulla sinistra e due letti dalle coperte dorate sulla destra. Non erano giganteschi come quelli a Parigi, anzi, erano la metà, se non di più, ma sembravano utilizzabili. C'era persino una toeletta bordata di giallo scuro, forse un'imitazione dell'oro.
Questo la sorprese.
- Spero vi piaccia. - sorrise Southern, portando l'attenzione su di sé: - E, anche se non vi piacesse, vi sconsiglio di cercare di fuggire dalla finestra, perché siamo al terzo piano e scappare da lì non vi assicurerebbe un atterraggio piacevole. -
"Eh?"
- Non provate a scappare legando le tende o i vostri vestiti: abbiamo provato e si arriva al massimo a metà del secondo piano. Allo stesso modo, lasciarsi cadere dal secondo piano non vi assicurerebbe un atterraggio piacevole. - senza abbandonare il suo sorriso, indicò il corridoio con un gesto della mano: - In caso di pericolo, l'uscita è al piano terra. Non correte lungo le scale, tenetevi sulla parte del corrimano e procedete in fila. La notte è estremamente consigliabile rimanere nelle proprie stanze. Qualunque rumore, urlo o voce sentiate, non uscite e non fate domande fino al mattino successivo! -
"Eh?"
- La mia stanza è quella in fondo al corridoio. Per qualsiasi problema o dubbio, rivolgetevi pure a me! - giunse le mani in grembo e fece un leggero inchino: - Vi auguro una buona permanenza presso la nostra casa. La cena sarà servita alle sette in punto, al primo piano. Chiedete pure aiuto alla servitù. - il suo sorriso luminoso si accentuò: - Buon riposo! -.
Se ne andò, lasciando Sesel ed Eurée impietrite. Lentamente, si voltarono l'una verso l'altra, scambiandosi un identico sguardo scioccato.
Senza dire una parola, tornarono nel corridoio, lo sguardo nella direzione in cui si era diretta Southern, già scomparsa dalla visuale.
- ... ma che diamine...? - fu l'unica cosa che riuscì a dire Sesel, aggrottando la fronte.
- Questi sono i più strani che mi sono capitati. - sentenziò Eurée. Seychelles tornò alla realtà, accorgendosi di un particolare: era da sola con Rodrigues. C'era sempre stato almeno Dosnee, o Zephyrine. Rimanere da sola con lei - nella sua mente, come una sorta di prosecuzione di Mauritius - le fece uno strano effetto.
In quel momento, le altre porte del corridoio si aprirono.
Piano, da dietro il legno, spuntarono tanti volti dalla pelle più o meno scura, capelli lisci e ricci, castani o neri. Una decina di bambine avvolte in abiti color perla o delicati colori pastello apparve nel corridoio, praticamente circondandole.
Sesel si strinse ad Eurée: non aveva idea di chi fossero, non aveva idea di cosa volessero e tutte erano più alte di lei di minimo una spanna.
Le loro espressioni, però, non erano minacciose: sembravano incuriosite, più che altro.
- Séchelles? - trasalì: - Rodrigues? -.
Si voltò, stupita di sentire il suo nome - o quello che era il suo nome fino ad un'ora prima - pronunciato in maniera corretta, in quel posto dove parlavano in modo strano.
Una bambina più alta di lei, forse appena più alta di Dosnee, si era fatta avanti: la pelle scura, gli occhi castani, i riccioli neri acconciati come una coroncina intorno alla testa.
Sentì il suo cuore avere un sobbalzo.
- Dominique...? - sussurrò, allibita.
La bambina schiuse le labbra in un sorriso: - Ora si pronuncia Dominica. - rise.
- E... - mormorò Sesel, facendo un passo avanti, gli occhi sgranati: - ... ora si pronuncia Seychelles. -. Era una frase stupida, se ne rendeva conto. Ma non sapeva cos'altro dire. Faticava ad articolare i pensieri, si sentì improvvisamente stupida.
"Dominique era andata da Angleterre..." si ricordò, incredula: "... e Grenade, e Vincent!". Qualcosa di pesante e doloroso s'insinuò alla base dello stomaco: aveva l'impressione di star dimenticando qualcosa, qualcosa di molto importante.
Non se ne curò. Aveva stretto Dominica in un abbraccio, forse anche soffocandola, sentendo a stento Eurée fare lo stesso - più che altro, sembrava essersi appesa alla vita della loro sorella.
- Sei cresciuta così tanto! - esclamò, non appena riuscì a scostarsi da lei. Dominica accennò ad una risata divertita: - Vero! E' stato dopo circa un anno dal mio arrivo. Anche gli altri sono cresciuti! - portò le labbra in avanti, con una smorfia di disappunto: - Però sono rimasta la più piccola. -.
Seychelles sgranò gli occhi: "Se lei è la più piccola, gli altri quanto sono cresciuti...?". Improvvisamente, desiderò che arrivassero presto le sette: era curiosa di vedere come fossero diventati Grenada e Saint Vincent.
- Oh! - si ricordò di colpo: - Hai sentito di Domingue? - domandò. Dominica e Saint-Domingue erano state molto unite, forse Haiti aveva scritto almeno a lei. Dominica trasalì, il suo sorriso s'incrinò: - Sì, abbiamo sentito di Haiti... - rise, ma era una risata nervosa: - Però non abbiamo avuto notizie precise. E' stato tutto molto vago. -.
Sesel annuì, dispiaciuta: "Allora non ha scritto neppure a Dominique... Dominica. Chissà perché...".
- Ohi, chicas! - una bambina dalla pelle meno scura delle altre era intervenuta: - Non rimaniamo aquì in mezzo al corridoio, let's go in una stanza. -.
"Che parlata assurda..." giudicò Seychelles, mentre le altre bambine annuivano.
- Andiamo da Antigua e Barbuda! - trillò una bambina, raccogliendo subito il consenso delle altre.
- Cosa? - protestarono due bambine, all'unisono: - Perché proprio da noi? -.
- Porque la vostra stanza è la più vicina! - rispose la bambina dalla parlata strana, spingendo Seychelles e Rodrigues in quella che, effettivamente, era la stanza più vicina.
Sesel si lasciò portare, incapace di reagire e incuriosita al tempo stesso.
Una volta dentro, lei ed Eurée furono fatte sedere su dei cuscini buttati a terra ad una velocità impensabile, le altre bambine in semicerchio davanti a loro.
Si sentiva un po' l'attrazione del giorno - e, in effetti, era così.
- Then, vi chiamate Seychelles e Rodrigues? - chiese la bambina con la parlata strana: - Ah, a proposito, me llamo Gibraltar! -.
Subito Sesel si sentì travolta da una sequela di nomi, che riuscì a dimenticare nel giro di un secondo.
- Che carine! - trillò una.
- Quando abbiamo saputo del vostro arrivo, Dominica ci ha raccontato tante cose di voi! - squittì un'altra.
- Sappiamo che ci sono anche due ragazzi, sono carini? - chiese un'altra ancora.
A quella domanda, Seychelles sentì una sensazione spiacevole allo stomaco: non era tanto l'idea di Océan, ancora piccolo, appena più alto di Eurée, ma il pensiero che qualcuna che non fosse Rodrigues o Zephyrine guardasse Dosnee la irritava. Fu tentata dal rispondere che, no, non erano affatto carini, anzi, erano le più brutte colonie dell'intera Francia.
Non ci fu bisogno, dato che un'altra bambina si intromise: - Starete benissimo qui, ne sono sicura! - esclamò: - Avete già conosciuto lo United Kingdom? -
- Il signor Scotland incute un po' di timore, a volte, ma il signor Wales è così gentile! -
- Ed England è così cutie quando arrossisce! -
- Ah, sono strani, ma sono divertenti! Lo sapete che Ireland è considerato il più grande bevitore del North Europe? -
- Ah, sì, quella fu splendida! -
- Il fatto è che il signor Northern e la signorina Southern sono identici, quindi, alle gare di bevute, si scambiano di posto! Il signor Scotland, il loro più grande avversario, di solito è talmente ubriaco che neppure se ne accorge! -
- Ma neanche England scherza, in quanto ad ubriacarsi! -
- England ubriaco è troppo divertente! -
- Ti ricordi quella volta in cui si è messo a cantare a squarciagola in cima al tetto? -
- Povero Wales, è dovuto andare lui a recuperarlo! E quella volta in cui lui e Scotland, tutti e due ubriachi, si sono messi a rotolare lungo le scalinate? -
- E quella volta in cui ha rotto la bottiglia ed è caduto il vaso nell'altro corridorio quando- - si bloccò.
Sesel sbattè le palpebre: aveva seguito con interesse tutti quei pettegolezzi poco lodevoli sullo United Kingdom, non capiva perché quella bambina si fosse fermata.
- -quando si era ubriacato così tanto! - intervenne un'altra, con una risata troppo alta.
- Sì, era davvero ubriaco! - rise la giovane che si era interrotta, una nota nervosa nella voce.
- Credo che Seychelles e Rodrigues vedranno da sole come sono tutti strani! - s'intromise un'altra bambina, gioviale: - Però in positivo, eh! -
- Credo che Seychelles e Rodrigues siano stanche per il viaggio. - disse Dominica, alzandosi: - Possiamo parlare un'altra volta, no? -.
Le altre bambine annuirono, Sesel si voltò verso Eurée: in effetti, la bambina aveva le palpebre quasi del tutto abbassate, la testa ciondolante, quasi stesse dormendo seduta.
- Credo sia il caso di dormire, sì. - concordò, aiutando la sorellina a rimettersi in piedi.

Come previsto, Rodrigues si era addormentata non appena si era ritrovata in posizione orizzontale, sul letto.
Sesel le aveva rimboccato le coperte e aveva gettato un'occhiata dubbiosa al proprio letto: lei aveva dormito per gran parte del viaggio, non aveva alcuna traccia di sonno.
E poi, l'aver rivisto Dominica, così cresciuta, le aveva dato una scarica di vitalità e curiosità: voleva vedere Grenada e Saint Vincent. Sia per salutarli, sia per vedere come fossero diventati.
Decise di andare nell'ala maschile: era ancora giorno - incredibile a dirsi -, non sarebbe stato considerato eccessivamente sconveniente.
Magari si sarebbe imbattuta in Dosnee o Océan. Magari neppure loro avevano sonno.
Uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Era piuttosto probabile che l'ala maschile fosse sullo stesso piano. Tanto valeva esplorare; nel caso si fosse persa, avrebbe potuto rivolgersi a qualche domestico o raggiungere la prima rampa di scale visibile, scendendo fino al piano terra e dunque all'ingresso, dove sarebbe stato più facile orientarsi o trovare qualcuno.
Cominciò a camminare, il cuore iniziò ad appesantirsi ad ogni passo: ora la sua compagna di stanza era Eurée. Zephyrine era rimasta a Parigi.
Strinse i pugni e cercò di pensare in positivo: "La rivedrò. Non so quando ma, sicuramente, la rivedrò. Non devo essere triste!".
Non aveva pianto quando l'aveva salutata e non avrebbe pianto in quel momento. Anche se, forse, a Parigi, al momento della partenza, non aveva pianto per lei per lo stesso motivo per cui non era stata in grado di piangere per Francis.
Deglutì, un tentativo di calmarsi, e proseguì, andando praticamente a caso.
Grigio. Grigio. Marrone scuro. Nero. Bianco sporco. Grigio. Grigio. Un'ode al colore e alla vitalità, era l'ennesima conferma. Grigio. Grigio. Bianco sporco. Nero. Marrone scuro. Marrone scuro. Grigio. Bianco sporco. Bianco sporco. Bianco. Grigio. Grigio.
Si fermò, riportando lo sguardo a poco prima: c'era qualcosa di bianco, lì. Bianco vero. Era una macchia grande, almeno il triplo di lei, dall'aspetto morbido.
"Morbido?".
Vide la macchia bianca sparire dietro un angolo e, istintivamente, si diresse in quella direzione, seguendola.
Attraversò un breve corridoio, svoltò un altro angolo e la vide.
Una creatura effettivamente molto più grande di lei, un'immensa palla di pelo bianco, con quattro zampe morbide e piccoli occhi scuri.
Si avvicinò, i passi meccanici. Sentiva il respiro farsi più difficile. Quella figura la conosceva.
- Where were you? -
Trasalì nell'accorgersi di un'altra figura accanto alla creatura. Si chiese come avesse fatto a non notarla prima.
Quando poi la riconobbe, sentì le gambe meno salde sul pavimento.
Avrebbe tranquillamente potuto appoggiare il gomito al parapetto, forse si sarebbe anche dovuto chinare appena. La pelle era chiara, diversa dalla sua, più simile a quella dello United Kingdom; i capelli biondi ricadevano morbidi lungo le spalle, molto diversi da quelli dello United Kingdom. L'abito, purtroppo, ricordava quelli di England, Wales e Scotland, nero e grigio com'era.
Quando si accorse della sua presenza, l'uomo si voltò verso di lei. Aveva gli occhi azzurri, visibili dietro alle lenti degli occhiali, divisi da un ciuffo biondo.
- Sesel. - era un sussurro, come quello che aveva sentito un istante prima. Ma non era la voce di un bambino.
Lo vide accennare ad un sorriso, per poi inginocchiarsi davanti a lei, per non dover abbassare lo sguardo per vederla.
Seychelles fece un passo indietro, senza volerlo: era alto. Più di Scotland. Più di Francis.
Dovette comunque alzare gli occhi. Si era inginocchiato con un unico movimento, completamente diverso da quello sgraziato di England, come una versione più pacata di quello elegante di Francis.
Soltanto, non avrebbe mai pensato di veder compiere un simile gesto da lui.
- ... Nacada. - mormorò, riuscendo finalmente a far uscire la voce.
Mathieu inarcò le sopracciglia, le labbra appena curvate in un accenno di sorriso imbarazzato: - Canada. -
- Ah. -.
Qualcosa di mosse, dentro di lei, l'improvviso bisogno di afferrargli la mano, per assicurarsi che non fuggisse.
Quando andò a prendergli la mano, esitò: la sua manina era poco più grande del suo palmo. Se lui avesse chiuso le dita, avrebbe potuto intrappolarla con facilità.
- Sei... - sussurrò, sfiorando quella pelle chiara, incapace di guardarlo negli occhi: - ... cresciuto. -.
- Già. - non ne sembrava felice. Alzò lo sguardo, notando la sua espressione dubbiosa: - Pochissimi mesi dopo il mio arrivo. - aggiunse, come se dovesse scusarsi.
Ora che ci pensava...
- Scusami. - disse, dispiaciuta: - Non ho potuto scriverti. Sono successe tante cose... -
- Ho sentito. Non ti preoccupare, neanche noi abbiamo potuto farlo. -.
Annuì, sentendo le guance più calde. Le bruciavano gli occhi. Ma non avrebbe pianto, sarebbe stato stupido. Non ne aveva motivo. Doveva essere, anche lì, colpa della polvere.
- Ci siamo rivisti. - disse, soltanto.
- Vero. - le diede ragione lui, la voce sempre ai limiti dell'impercettibile.
- L'avevo detto che succedeva. - ribadì Sesel, trattenendo un sorriso. Voleva abbracciare Mathieu, ma non sapeva come. Dominica era cresciuta, sì, ma ancora poteva darle un abbraccio decente. A Canada si sarebbe potuta aggrappare alla vita. Dopo aver saltato. Forse.
- Vero anche questo. - concordò Mathieu.
Voleva parlare. Voleva parlargli, ma non sapeva di cosa. Erano successe troppe cose, non si vedevano da più di quarant'anni e lui era molto diverso da come lo ricordava. Non era la prima volta che vedeva una persona che conosceva diventare più grande. Molto più grande. Di solito, a quel punto, la lasciavano stare, non più interessati ai discorsi e alla compagnia di una bambina.
Non voleva che Mathieu la considerasse noiosa o si stancasse di lei. Ma non sapeva come fare per evitarlo.
Scavò nei suoi ricordi, alla ricerca di un qualsiasi argomento che non sembrasse troppo artefatto, buttato lì tanto per parlare. Lo trovò: - Ah, giusto! - esclamò, sentendo anche nascere una nuova curiosità che andava ad aggiungersi a quelle che già aveva: - Ora che sono qui, puoi presentarmi Alfred! Dov'è? -.
Canada sgranò gli occhi, impallidì. Sesel non capì: "Cosa ho detto...?".
- Ecco... - esordì Mathieu, la voce, se possibile, ancora più bassa. Esitò un istante, poi disse: - ... Alfred non è più qui. E' tornato a casa sua qualche anno fa. -.
- Oh... - fece Seychelles, dispiaciuta, la curiosità che si spegneva all'istante: le sarebbe piaciuto conoscere il fratello di Mathieu.
- Come Haiti? - domandò, piegando appena la testa di lato. Canada esitò di nuovo. Poi rispose, la voce incerta: - Sì. Come Haiti. -.
- Neanche lui vi ha più scritto? - chiese, triste: "Perché non fanno più sapere niente, quando tornano alle loro case?".
Mathieu scosse la testa: - No. Non l'ha fatto. E... - lo vide fare un profondo respiro: - ... ti chiederei, ecco... di non nominarlo. -
- Perché? -
Un'altra esitazione: - ... manca molto a tutti. Sono stati tutti molto tristi, quando è partito. -. Accennò ad un sorriso di scuse: - Se lo nomini, rievocherai ricordi tristi. - spiegò.
Sesel annuì, con un certo rammarico.
- Ma... - esordì, confusa: - ... se tutti erano tristi, perché è partito? Perché se n'è andato anche se sapeva che rendeva tristi tutti voi? -.
Vide Mathieu trasalire. Non riusciva a capire perché fosse così pallido. Si diede subito della stupida: "Ah, ovvio... anche lui deve essere triste.".
- Era... - mormorò Canada, piano: - ... una cosa che desiderava molto. Tornare a casa. -.
- Anche se sapeva che vi rendeva tristi? -
- ... sì. -.
Seychelles abbassò lo sguardo: il tono di Mathieu non era d'accusa nei confronti di Alfred. Però era innegabile che ne avesse sofferto. Non riuscì a farsi un'opinione: non sapeva se considerare il fratello di Mathieu una persona egoista o una persona decisa. Per un istante, si chiese se anche Alfred avesse sofferto, se avesse preso quella decisione per lui così importante sacrificando qualcosa.
In fondo, l'aveva fatto anche lei: aveva scelto di seguire Francis, lasciando la sua casa. Non se n'era pentita. Forse neppure Alfred si era pentito. Forse lui era davvero felice, per ciò che aveva scelto.
- Eskiz-mon. - sussurrò: - Ho fatto ripensare a cose tristi anche a te. Pardon. -.
Una mano sulla testa. Grande. Come quella di Francis. Ma non era di Francis.
- Ne te inquiétes pas. -.
Le parve di aver già sentito quelle parole. Proprie e sue. Le tornarono in mente una distesa di erba verde, uno specchio d'acqua. Si sentì arrossire, lasciò sfuggire una risata: - Qui fa davvero troppo freddo per tuffarsi. -.
- Posso stare tranquillo, allora. - sospirò Mathieu. Sesel gli scoccò un'occhiata di disappunto, ma molto poco seria.
- E poi... - Canada parlò di nuovo, il colorito di nuovo normale, la voce bassa e pacata: - ... non dovremmo parlare in francese. - alzò le spalle: - Non apprezzano molto. -. Accennò ad un sorriso, Sesel ridacchiò anche per lui.
- Perché non lo sanno pronunciare, vero? - rise: - Pensa che mi chiamano "Seychelles". E' il mio nuovo nome, sai? - fece, come se stesse esibendo un nuovo abito.
- Ti sta bene. - commentò lui, sempre come se lei gli stesse mostrando un vestito fresco di cucitura: - Io, invece... - parve ricordarsi solo in quel momento: - ... non mi chiamo più Mathieu. Ora mi chiamo Matthew. -.
Sesel sbattè più volte le palpebre, cercando di assorbire quell'informazione: "... è molto meno elegante." scelse di non dirglielo.
- D'accordo! Ehm... -
- ... Matthew. -
- Esattamente ciò che volevo dire! -.



Note:
*Nel 1810, con l'Atto di Capitolazione, le isole di Ile de France, Séchelles, Rodrigues e Chagos divennero colonie inglesi.
Il 90% delle volte, viene riportata come data il 1814, a seguito del Trattato di Parigi del medesimo anno: in realtà, il Trattato di Parigi confermò la sovranità dell'Inghilterra sulle quattro colonie, effettivamente sue già da quattro anni.
Dell'Atto di Capitolazione, invece, non si trova praticamente niente. *Detto in modo molto diretto*
In breve, gli inglesi avevano occupato e reclamato le Seychelles già dal 1794; occuparono anche Rodrigues - e quindi, implicitamente, anche Ile de France - e Ile Bourbon rispettivamente nel 1809 e nel 1810.
L'amministratore Jean Baptiste Quéau de Quincy negoziò con gli inglesi: non ci sarebbe stata alcuna opposizione militare, ma doveva essere garantita la neutralità e l'autonomia dei coloni. Nonostante ciò, battaglie navali tra francesi e inglesi ce ne furono comunque e gli inglesi applicarono un embargo a tutte le colonie francesi nell'Oceano Indiano.
Nel 1810, Ile Bourbon e Ile de France si arresero e fu stipulato l'Accordo di Mauritius (l'Atto di Capitolazione di cui sopra) a cui anche le Seychelles dovettero sottostare. Tale accordo prevedeva che le isole di Ile de France, Rodrigues, Seychelles e Chagos passassero sotto il dominio britannico.
A volte, vengono indicate le sole Seychelles o la sola Mauritius. In realtà, le colonie erano subordinate l'una all'altra.
Ossia. Le Seychelles erano una colonia subordinata a Mauritius: prendi Mauritius e ottieni anche le Seychelles, paghi uno e prendi due. A Mauritius è strettamente legata anche l'isola di Rodrigues: prendi Mauritius e hai in omaggio Rodrigues. Alle Seychelles, allo stesso modo, è subordinato l'Archipelago delle Chagos: prendi Mauritius, ottieni le Seychelles e con queste ultime hai in omaggio le Chagos.
Il succo della situazione è: prendi Mauritius e hai in regalo Rodrigues, Seychelles e Chagos.
[Fonti: 1, 2, 3, 4, 5]
* L'Archipelago delle Chagos divenne effettiva colonia francese nel 1768 - per questo non è apparso nei capitoli precedenti.
In realtà, i francesi avevano già "puntato" l'arcipelago nel 1721, ma fu solo nel 1768 che si presero la briga di occuparlo - con tutto che iniziarono a stabilirvisi nel 1785; nel frattempo, dato che i francesi se l'erano presa molto comoda, nel 1745, gli inglesi avevano avuto il tempo di sbarcare sulle isole e ammirarne il panorama.
* A cavallo tra il 1700 e il 1800, a seguito delle varie vicende politiche francesi, Ile Bourbon cambiò nome diverse volte.
Nel 1793 fu chiamata "La Réunion", nel 1801 divenne "Ile Bonaparte"; nel 1810, il suo nome tornò Ile Bourbon, poi confermato nel Congresso di Vienna del 1815. Nel 1848, l'isola riprese il nome di "La Réunion", nome che porta ancora oggi - "La Riunione", in italiano.
[Fonte]
* 1775-1783 e 1789-1799.
Non penso di dover aggiungere altro.
* Sulla scia della rivoluzione francese, entusiasmati dagli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, nel 1790, gli abitanti di Haiti chiesero maggiori diritti.
Tuttavia, libertà-uguaglianza-fratellanza, sì, ma solo per i francesi bianchi; scoppiarono dunque delle rivolte che poi sfociarono in una vera e propria guerra. La situazione giunse a conclusione nel 1804, quando Haiti dichiarò la sua indipendenza dalla Francia.
Fu la seconda nazione del continente americano a dichiararsi indipendente. Chi fu la prima, non è difficile intuirlo.
Tra l'altro, suddetta "prima nazione a dichiararsi indipendente" ebbe, a suo tempo, un consistente aiuto proprio da parte dei francesi che ironicamente, nel giro di un decennio, si ritrovarono a dover fronteggiare la stessa situazione dall'altro lato della barricata.
[Fonte]
* Dopo la Rivoluzione Francese, giunse il Periodo Napoleonico - dal 1799 al 1815 - in cui i francesi, dopo aver messo a ferro e a fuoco tutta la loro nazione per liberarsi di un re, si ritrovarono ad essere dominati da un imperatore.
Suddetto imperatore diede vita a quello che fu poi chiamato "Primo impero francese" - perché poi ce ne fu un Secondo, nella seconda metà dell'Ottocento e sotto un altro Napoleone, il terzo.
Come noto, una delle cose più evidenti che Napoleone fece durante il suo impero, detto con tanto affetto (?), fu rompere le balle a tutto il resto d'Europa, sottomettendo praticamente tutta l'Europa Occidentale e un pochino quella Orientale. Ciò passò alla storia come "Guerre napoleoniche".
I Paesi da lui conquistati furono Monaco, il Regno d'Olanda (il pacchetto Paesi Bassi + Belgio + Lussemburgo), una consistente fetta del Nord Italia (rinominato "Regno d'Italia") e le cosiddette Province Illiriche: esse corrispondono all'attuale Croazia, con un po' di Italia, di Austria e Lubiana, l'attuale capitale della Slovenia.
Il personaggio di Illiria, qui, rappresenterebbe solo Croazia; anche se la capitale slovena era in mano ai francesi, loro avevano solo quella e vedrei più Slovenia "al riparo" a cercare di riprendersi la sua capitale - un po' come la stessa "Francia Libera" durante la Seconda Guerra Mondiale.
L'Impero francese ebbe anche i suoi stati satelliti: il Regno di Spagna, il Regno di Napoli (il Sud Italia, dunque), il Ducato di Varsavia (alias Polonia) e la Repubblica elvetica, ossia un regime imposto alla Svizzera - che, tuttavia, non ebbe molto successo.
Ebbe poi anche uno stato fantoccio, la Confederazione del Reno, ossia tutti gli Stati che facevano precedentemente parte del Sacro Romano Impero - tra cui il Principato del Liechtenstein.
Tra le guerre napoleoniche, difatti, figura anche la Battaglia di Austerlitz, del 1805. Ora sapete anche perché Italia piangesse.
* Durante la rivoluzione francese, nel moto di generale anti-cristianità e rifiuto di tutto ciò che era appartenuto all'"Ancient Regime", il culto di Giovanna D'Arco venne meno: i rivoluzionari arrivarono anche a distruggere le statue che la raffiguravano, a bruciare le sue reliquie e a cancellare la processione in suo onore.
Sotto Napoleone, Giovanna D'Arco fu riabilitata come simbolo del nazionalismo francese; in gran parte, tuttavia, si trattava di una manovra "pubblicitaria" (?) per la sua politica.
[Fonti: 1, 2]
* Il "Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda" è stato creato nel 1801.
Tuttavia, non è che i componenti - soprattutto l'Irlanda - ne fossero eccessivamente entusiasti.
* Anche Ile de France/Mauritius ebbe svariati nomi: "Ile de France" fu il nome dato all'isola nel 1715 dai francesi, quando ne presero possesso; "Mauritius", invece, fu il nome con cui gli olandesi chiamarono l'isola all'inizio del Seicento, in onore del principe Maurizio di Nassau.
Quando l'isola divenne colonia inglese, questi ultimi ripristinarono il nome olandese.
[Fonte]

Dizionario
- [Creolo di Mauritius] Ki manier?: Come stai?
- [Creolo delle Seychelles] Byen...: Bene...
- [Olandese] Walgvogel, nietwaar?: Uccello disgustoso, non è vero?
("Walgvogel" era il nome con cui gli olandesi chiamavano i dodo, in riferimento alla loro carne, che si diceva essere disgustosa.)
- Oh, no, we don't understand french language!: Oh, no, noi non capiamo la lingua francese!
- Us? Of course not! / Expecially you!: Noi? Certo che no! / Specialmente tu!
- [Creolo di Mauritius] Eskiz-mwa...: Scusatemi...
- It's wonderful...: E' meraviglioso...
- Come on, it's just a little mistake...: Dai, è solo un piccolo errore...
- Stop laughing! Everyone!: Smettetela di ridere! Tutti!
- Now we have to explain it to them.: Ora dobbiamo spiegarglielo.
- Artie can do it!: Artie può farlo!
- "I can" what?: "Posso" cosa?
- Yes! / You speak french very well!: Sì! / Tu parli molto bene il francese!
- Absolutely. / Why don't you do it? / I thought you knew very well french language.: Assolutamente. / Perché non lo fai tu? / Pensavo conoscessi molto bene la lingua francese.
- Yes, Artie, I can speak french without problems. Just... / ... my accent is awful. Really. And you don't want us to make a bad impression with these children, right?: Sì, Artie, posso parlare francese senza problemi. Soltanto... / ... il mio accento è terribile. Davvero. E tu non vuoi farci fare una brutta figura con questi bambini, vero?
- Ah, Artie is so cutie when speaks french!: Ah, Artie è così carino quando parla francese!
- So lovely!: Così adorabile!
- Die.: Morite.
- I hate you with all my heart.: Vi odio con tutto il cuore.
- Where are you going?: Dove stai andando?
(Seychelles, Mauritius, Rodrigues e Chagos si presentano nei rispettivi creoli. Non sono sicura per Chagos, visto che non sono riuscita a trovare uno specifico dizionario di creolo delle Chagos. °^°)
(Secondo l'audio (!) di Google Translator (ri-!), i nomi delle quattro colonie si pronunciano Sescèl, Il de Frons, Rodrìg e Sciagòs in francese e Sèscels, Il dei Frans, Ròdrighes e Cèigos in inglese. *Così, a titolo informativo*)


E così, nella Terra delle Piogge E Delle Grandi Sopracciglia (?), ha inizio il secondo arco narrativo. *O*
... sì, il capitolo è lunghetto. E il prossimo sarà la continuazione di questo. *Soe l'aveva detto di avere problemi di grafomania.*
*Coff*
Dicevo.

Per prima cosa, vorrei far presente che la storia è narrata dal punto di vista di Sesel e che non necessariamente ciò che lei dice/pensa sia anche ciò che dico/penso io. Né che ciò che dice/pensa lei sia necessariamente giusto&corretto. Lo stesso vale per tutti gli altri personaggi, canon o oc che siano.
Poi, io non ho nulla contro Olanda o contro Spagna - specialmente quest'ultimo - ma... mi sembra piuttosto comprensibile che Ile de France/Mauritius non ne abbia un'opinione esattamente positiva. u.u"" *Soprattutto perché è innegabile che entrambe, così come anche il Portogallo, abbiano fatto cose terribili, storicamente.* .-.

Francia.
Io sono piuttosto convinta che le incarnazioni di imperi siano fondamentalmente esaltate. In positivo, ma anche in negativo. Perché la ricerca del potere porta a cose poco carine; quando poi lo si ottiene e se ne vuole sempre di più, la situazione degenera. E la Francia, in epoca napoleonica, fu davvero uno dei più grandi imperi d'Europa.

Parlando di Monaco e del nuovo arrivo Chagos.
La "rocca di Monaco" è, per l'appunto, una rocca, una fortezza: ce la vedo, quindi, la sua incarnazione come fisicamente molto robusta e con un risvolto "deciso", anche se non sempre visibile. ^^
Il piccolo Chagos, come avrete notato, si chiama Océan. Oceano. Il perché del suo nome è presto detto: attualmente, le isole Chagos si chiamano "Territorio britannico dell'Oceano Indiano". Sì, è idiota come sembra. In realtà, questo era il suo nome provvisorio, mentre ne cercavo di più validi. Però, per quanto cercassi significati affini a tutti i suoi nomi, che avessero un qualcosa capace di ricondurvi o altro, non c'era nessun nome che mi soddisfasse pienamente. Alla fine, ero talmente abituata a vederlo come "Océan" che gli ho lasciato quel nome. u.u"

Dopo la prima metà angst-depressiva-psychoyandere, si giunge dallo United Kingdom. I cui nomi sono in inglese anche nella narrazione soltanto per questo capitolo, unicamente per sostenere l'equivoco sul nome di Angleterre/England.
E a proposito di Angleterre/England...
... ebbene sì, Arthur ha fatto la sua comparsa! *O*
Sì, lo so, è stata una sorpresa incredibile. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato, è apparso così, all'improvviso, senza alcun preavviso.
E, assieme ad Arthur, ci sono anche i suoi adorabili fratelli maggiori, alias il resto del Regno UnitoMaNonTroppo. U.U"
Tra l'altro, io sono seriamente convinta che tutte le nazioni conoscano le lingue dei loro vicini/eterni rivali. Anche soltanto per capirli mentre cospirano. (?) Quindi, non mi sembra così strano che Arthur conosca bene il francese. XD *Soltanto, evita accuratamente di pronunciarne anche solo una sillaba.*

Infine, le ex-colonie francesi sono cresciute.
Chi meno, chi più. U.U *Del resto, si parla pur sempre della seconda più grande nazione al mondo...*

Spero che siate riusciti ad arrivare fino a qui, in un modo o nell'altro questo capitolo vi sia stato gradito. ^^
Come sempre, se ci sono Orrori Storici O Grammaticali - e, stavolta, la scusa dei congiuntivi schizofrenici vale solo per Sesel e triade di piccole colonie al seguito -, se Google Translator mi ha mentito, se l'inglisc è eccessivamente maccheronico, se vi si sono cariati i denti... no, per quest'ultima cosa non sono responsabile, vi avevo avvisato. Per tutto il resto, consigli o critiche, dite pure. ^^
  
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