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Autore: Midnight_whisper    23/05/2013    2 recensioni
E quando non si riesce più a sopportare il dolore, l'unico modo per stare meglio è renderci immateriali. Renderci più leggeri del dolore, così che non possa gravare su di noi. E cominciare a volare. Già, volare... E poi?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non esiste un essere umano immune alle delusioni. Nessuno può essere sempre felice. Le cose non sono quasi mai come ce le aspettiamo e troppo spesso finiscono per lasciarci l’amaro in bocca quando si rivelano per quello che sono.
Ci sono delle situazioni in cui tutto quel dolore, tutta quella sofferenza sembrano troppo grandi per stare tutte dentro al tuo cuore. Lo farebbero scoppiare, finirebbero per sommergerti, per sottrarti anche le gioie più banali, soffocandole sotto il loro peso.
Qualunque personaggio sarà il protagonista di questa storia sarà stato deluso, io sono stato deluso, voi siete stati tutti delusi. E allora posso parlarvi di voi, di vostro padre o vostra madre vent’anni fa, posso parlarvi del vostro meccanico o magari del vostro portiere. Potrei parlarvi del vostro professore di università o del liceo e, perché no?, potrei parlarvi persino del tipo alto e magro come una stampella che corre sul tapis roulant accanto al vostro. Potrei parlarvi di me. Cosa può cambiare? Tanto siamo tutti uguali, tanto siamo stati tutti delusi.
E allora proprio tu che leggi sei stato deluso. E non puoi sopportare questa delusione, questo doloroso rammarico. Il motivo sceglilo un po’ tu, sei tu che sei stato deluso. Una brutta faccenda sul lavoro, il tradimento di un amico, una bruciante delusione sentimentale, un cambio di atteggiamenti repentino da parte di uno stretto familiare.
In questa situazione si trovava anche tuo padre o tua madre vent’anni fa e, per stare meglio, ha adottato esattamente la tua stessa soluzione. Ha lasciato che la forza di gravità smettesse di pesargli addosso. Ha permesso ai suoi piedi di staccarsi dal terreno e ha cominciato a fluttuare. In aria.
E così inizia a volteggiare il tuo meccanico - o il tuo portiere – libero da tutte quelle leganti costrizioni che lo vincolavano a tenere i piedi per terra. Il vento è talmente bello quando lo trascina dolcemente prima da una parte e poi dall’altra. Non è mai stato così leggero e non è mai stato così bene. Può assaporare la vita in tutti i suoi ambiti più succosi e si fotta tutto quello che non è andato come avrebbe voluto. Ce n’è voluta di fatica per imparare a volare, ce n’è voluto di tempo, ma adesso ne vale decisamente la pena, pensa.
E lo stesso pensa il professore, che nessuno ci vieta di trasformare in professoressa, che si rende conto di quanto siano impalpabili le nubi e come siano di compagnia quegli stormi intenti nella loro migrazione. Diventa tutto così chiaro e semplice, mentre si danza nel cielo. Quella stupida delusione non valeva la pena del suo pianto e, volando, si possono provare mille soddisfazioni e mille piaceri, magari sfuggevoli, magari momentanei, ma così densi, così vivi, così passionali, così intensi.
Corre, corre e gira il tappeto rotante. Il tipo simile a una stampella è lì insieme al professore quando all’improvviso il suo volteggiare ha una fine. Come se una campanella dentro la sua testa lo avesse svegliato, per dirgli di tornare a terra, di smetterla di dare poca importanza alle cose. Quella campanella suona e gli dice che, per quanto abbia fatto male, ormai il dolore è passato. Volare non gli serve più. Deve riconoscere cosa sia davvero importante. Fluttuare per l’aria non è importante. La sua delusione lo era. Ora però non fa più male, semplicemente. E proprio perché non fa più male è un bene recuperarne la valenza, recuperare il valore delle cose, dare ad ogni cosa il suo peso. Si può forse vivere senza gravità? No di certo. Perde quota lentamente.
E continuo ad avvicinarmi alla terra da cui, con tanto sforzo mi ero staccato. Sono proprio io quello che ha volato e che ora sente suonare la campanella. Ci vorrà un po’, questo lo so. C’è voluto tempo per volare, ce ne vorrà per atterrare. Me lo ripeto mentre il tempo passa, mentre il sole sorge, attraversa il cielo e va a dormire lasciando il posto a stelle che non posso più vedere da vicino, né toccare. Adesso basta sognare, basta volare. Devo ritrovare quello che avevo perso. Devo accettare il dolore e la delusione per quello che sono. E devo tornare a terra. Il momento dell’atterraggio è arrivato.
Ognuno ha le sue paure. Tu, forse, hai paura del buio, i tuoi genitori hanno paura di nuotare in mare aperto, il vostro meccanico ha paura degli spazi aperti e il vostro portiere di quelli stretti, chiusi e soffocanti. E ancora il vostro professore ha paura dei ladri e il tipo che corre in palestra ha paura di volare. Io ho paura di atterrare.
È proprio come quando al lunapark la giostra prendeva velocità. C’era sempre il bambino che riusciva a dormire sul suo cavalluccio - niente di più facile per lui - e ci avrebbe passato la vita sopra; c’era il bambino che gridava a squarciagola di volere scendere, di avere paura e allora si avvicinava al bordo e si faceva prendere in braccio dalla mamma; c’era quello che, iperattivo, non poteva accontentarsi della sua moto, ma voleva anche il fuoristrada, la bicicletta, il cavallo, la macchina da corsa... E poi c’era quello che stava fermo, immobile. Quello che non capiva e si chiedeva “Come si scende? Come si scende? Ho paura di scendere! Come posso fare?”.
Quel bambino ero io e lo continuo a urlare ancora adesso: “Ho paura di atterrare, come si scende?”
  
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