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Autore: _blueebird    23/05/2013    2 recensioni
Ci vogliono pochi minuti per leggerla e altrettanti per innamorarti di loro.
Camille, una sedicenne che lotta tutti i giorni per rimanere a galla in una società di pregiudizi, ingiustizie e in continua lotta con la sua timidezza e con i suoi problemi, si innamora. Tra i banchi di scuola, tra gli amici veri e le cattiverie, troverà l'amore che la porterà a crescere, a soffrire e a combattere i suoi demoni.
Una storia che vi prenderà e che vi scalderà il cuore.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Scolastico
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Scendemmo dall’aereo verso le 5 del mattino.
La pallida notte di Amsterdam si stava a mano a mano consumando, masticata dai nostri passi sul pavimento dell’aeroporto.
Non avevo chiuso occhio. Mi fermai davanti ad una vetrata ad osservare la mia immagine riflessa, i capelli biondi e scomposti, le palpebre irrigidite dalle lacrime secche e le labbra violacee. Il silenzio si accumulava come la polvere, soffiava come gli spifferi tra le porte.
Mi strofinai il viso, cercando di rimuovere la rigida espressione che attanagliava ogni muscolo facciale, ma non ci riuscii. Sospirai forte.
Un signore assopito su una panchina si svegliò di colpo, per poi tornare a riversare la testa sulla sua spalla.
Recuperate le valigie e compiute tutte le formalità, uscimmo dall’aeroporto.
La notte buia e calma era parcamente illuminata dai lampioni giallo-bianchi. L’uomo altro, che a quanto avevo capito si chiamava Carl, ci precedette e fece un cenno ad una macchina scura di avvicinarci.
“Prego” Mi disse l’uomo moro indicandomi la portiera aperta.
 
Dopo quasi due ore, la macchina parcheggiò davanti a una casetta contornata dal giardino. Un fine recinzione distanziava l’erbetta fresca dal cemento della strada e i fiori che erano ancora un poco chiusi per via dell’oscurità, tintinnavano nelle aiuole accarezzate dal vento.
Scesi dalla macchina un po’ impacciata aiutata dall’uomo moro che mi aveva aperto la portiera e recuperate le valigie, ci addentrammo nella proprietà.
Un piccolo sentiero fatto di mattonelle da esterno ci guidava verso una porta rossa scura.
La casa era molto semplice, come tutte le altre case nordiche, aveva il tetto spiovente e i mattoni grigiastri che ne ricoprivano la facciata. Ad ogni finestra, contornata da assi in legno bianco, pendevano dei vasi con moltissimi crochi violacei e una pianta di wisteria si stava arrampicando su una grondaia a lato della finestra del piano terra, creava i suoi caratteristici fiori a grappolo blu-viola che emanavano un gradevolissimo profumo.
Mio padre suonò il campanello e dopo poco ne uscì una vecchietta. Un poco ingobbita, la nonnina aveva un vestitino sbracciato fiorito che gli arrivava fin sotto le ginocchia e ai piedi un paio di ciabatte. I capelli bianchi, che mostravano ancora qualche sfumatura bionda, erano raccolti in una crocchia appuntata con un fermacapelli e gli occhioni blu contornati da profonde rughe, erano buoni e sereni.
Si gettò nelle braccia di mio padre che le baciò la fronte e le disse che era tornato, in olandese.
Quando vide me, mi si avvicinò con le braccia spalancate.
“Oh, Kristine!” Mi prese il viso tra le mani nodose e mi baciò le guance più e più volte. Bacetti umidi e teneri. Era tanto che uno non mi chiamava con il mio secondo nome. Non immaginavo che qualcuno se lo ricordasse.
Tornava a guardarmi e a baciarmi, sussurrandomi quanto fossi cresciuta e altre cose in olandese che non avevo colto del tutto.
Dopo poco entrammo in casa. Quella signora anziana, che doveva essere mia nonna, l’avevo vista solo poche volte in tutta la mia vita. Ero davvero piccola, avrò avuto 6 anni l’ultima volta che la vidi e per me era una completa estranea. Era una cosa così triste, ma dopotutto, col fatto che mio padre passava poco tempo a casa, era già una rarità vedere lui, figuriamoci vedere i suoi genitori e i suoi fratelli e sorelle.
Se sradicarmi dalla mia casa e rapirmi da mia madre, dai miei amici e da Francesco era l’unico modo per vedere mia nonna paterna, beh, avrei preferito non vederla affatto. Avrei preferito dimenticare il poco olandese che ricordavo, dimenticare la casetta con le aiuole, l’aeroporto di Amsterdam, Utrecht e tutta l’Olanda intera. Avrei anche potuto dimenticare mio padre, ritagliarlo via dalle foto di famiglia e gli oggetti che mi ricordavano lui. Avrei potuto dimenticare tutto di quell’uomo, solo per poter tornare a casa.
 
“Questa è la tua camera.” Accennò mio padre dopo aver aperto la porta di una camera vicino al bagno, al secondo piano.
Un letto matrimoniale sovrastato da una coperta bianca, simile al pizzo, risiedeva nudo e sfrontato nel mezzo della camera. Sulla destra un piccolo armadio anonimo in noce, mentre sulla sinistra una piccola scrivania spoglia al di sotto di una finestra aperta. La stanza odorava di chiuso e fiori, per via del profumo portato dal vento che entrava con timidezza nella stanza.
Appoggiò il borsone sul letto e mi guardò quasi riluttante “Non so se ti convenga disfare le valigie. Fra pochi giorni dovremo ripartire. Per lavare i tuoi vestiti o per averne degli altri puoi chiedere alla nonna.”
“Ripartire? Significa che… mi riporterai a casa?” Per un breve istante fui felice.
“No. Mi hanno dato la possibilità di lavorare in Australia come violoncellista in una famosa compagnia. Fra cinque giorni andremo a Sidney, ci troveremo una bella villa di fronte al mare, ti iscriverò in una bella scuola piena di ragazzi e vivrai una vita meravigliosa, come hai sempre sognato. Degna di mia figlia.”
Gli uccellini appollaiati sui rami, spiccarono il volo lontano.
“Australia? Mi stai dicendo che hai intenzione di portarmi in Australia?” Sentivo le lacrime fare capolino e la bocca cominciava ad impastarsi, un groppo in gola mi attanagliava e da lì a poco sarei scoppiata in un fiume di lacrime.
“Io… Io non ci posso credere. E la scuola? Gli amici? La mamma? La mia Italia?”
“Mi dispiace.”
“Come puoi aver deciso di prendere questa decisone senza dirmi niente! Come puoi essere così egoista da obbligare tua figlia a stare con te! Io non voglio papà! Smettila di intrometterti nella mia vita!”
Le tende bianche tentennavano scostate dal vento di fine maggio.
“Un giorno, mi ringrazierai.” Uscì dalla stanza chiudendo la porta. “Aspetta!” Gridai, ma era già uscito. Avevo parlato con un muro di cemento. Qualsiasi cosa dicessi, non avrebbe cambiato opinione.
Australia.
Dovevo fare qualche cosa. Se le parole non servivano a niente, serviva una presa di posizione diversa.
 
Seduta sul pavimento della stanza, avevo telefonato a mia madre. In lacrime, faticava a respirare. Aveva chiamato i carabinieri perché pensava che mi avessero rapito o che fossi scappata di casa. Era senza parole, non riusciva a capacitarsi del fatto che mio padre, suo marito, mi avesse buttata su un aereo conto la mia volontà e portata dai nonni paterni. E che mi avrebbe portato in Australia.
La sentivo singhiozzare disperatamente. Il suo respiro, sconnesso e stridulo, alterato dall’apparecchio telefonico, sembrava poter tagliare l’aria. Fissavo ormai senza forze, una piccolo insetto, che volava sopra la mia testa, in cerca di un luogo dove posarsi.
Mia madre mi disse che avrebbe fatto di tutto per impedire a mio padre di portarmi dall’altra parte del globo e aveva già iniziato le pratiche di divorzio.
Nel giro di qualche giorno, sarebbe arrivata insieme a mio fratello e mi avrebbe portata a casa.
 
Chiusi la chiamata e vidi, pochi secondo dopo, comparire l’immagine di Francesco sul display.
“Pronto.”
“Pronto Camille! Oh mio Dio. Sei viva. Oh grazie al cielo. Dio, a scuola ci hanno detto che ti stavano cercando e che eri scomparsa. Io-io Camille… Io…” Stava per mettersi a piangere. Sorrisi lievemente.
“Francesco. Sono viva. Non è successo niente, o quasi…”
“Dove sei?”
“In Olanda.”
“In Olanda?! Cosa…”
“Mio padre è tornato a casa. Ha approfittato dell’assenza di mia madre per portarmi qui, dai nonni paterni. Ha intenzione di trasferirsi in Australia e di portarmi con sé.”
“In Australia? Ma… quando?” Era sconvolto. Lo ero pure io.
“Partiamo fra cinque giorni. Ma non preoccuparti! Mia madre ha intenzione di venirmi a prendere il prima possibile. Presto sarà tutto finito.”
“Quel fottuto pezzo di merda!” urlò fuori di sé. “Se solo riproverà a farsi vedere io…”
“Fra pochi giorni tornerò a casa e potremo stare insieme.” Almeno così speravo. Pensavo che dicendolo ad alta voce sarei riuscita ad auto convincermi, ma non era così. Non sarebbe stato facile. Nulla nella mia vita lo era davvero.
“Ti verrò a prendere io. Anche a costo di venire in Australia. Verrò a prenderti.”
“Ti amo.” Gli dissi.
“Anche io.” Cadde la linea in quell’istante.
 
 
Chiesi alla nonna una rosa rossa. Ne aveva solo di rosa, bianche e gialle, ma niente rosse.
Chiusa in camera, strappai quelle che mi aveva dato.
Sul pavimento scuro, c’erano solo gambi verdi e petali strappati. Un omicidio muto.

 
Mi addormentai sul pavimento, tra le rose moribonde e un requiem trasportato dal vento di maggio.
 
 




*Angolo dell'autore*
Mi scuso per il ritardo, ma ho avuto parecchio da fare. A dir il vero sono incasinatissima, sia con la scuola che con le situazioni interpersonali, quindi se per caso non mi sentirete per le prossime settimane, chiamate i carabinieri, perchè potrei essermi impiccata.
In questo momento mi sento come una rosa strappata e quindi, diciamo che i miei sentimenti si riperquotono sul capitolo. 
Adesso come adesso potrei fare morire Camille sotto ad un tram, quindi auguratevi che mi possa sentire un po' meglio nelle pressime settimane... Hahahahah nono, sono seria.
Addio (vi prego sopprimetemi)
-Sel-
  
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