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Autore: _ivan    23/05/2013    5 recensioni
Un londinese sfortunato, un cinico parigino e un'italiana che si porta sulle spalle l'eredità di una pessima reputazione. Non è l'inizio di una barzelletta, ma il profilo di tre studenti dell'Accademia di magia dell'Ardéche, dove quest'anno serpeggia uno spietato traditore.
Coinvolti nel groviglio di misteri che si celano nell'antica scuola, i tre impareranno ad affrontare i propri mostri, ad affinare l'ingegno e a dubitare di chiunque...anche dei loro più cari amici.
Genere: Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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|| Sarò breve: carico questa decina scarsa di pagine per farvi capire che sono ancora in vita e ancora in fase attiva. A dire il vero queste pagine le avevo scritte mesi fa - e ricorrette solo ora -, quindi non è che valga davvero tantissimo, tuttavia ci tengo a farvi sapere che sono in una fase creativa esplosiva che mi ha portato a buttar giù una cinquantina di pagine nuove. Le suddette le correggerò solo quando questo fiume in piena si calmerà un po' (non sia mai che cominciare a correggere mi blocchi tutto l'entusiasmo per il resto), quindi non posso darvi dei tempi precisi. Spero vi basti sapere che ci sono. Il mondo di Monetarium non è fermo, insomma...anzi!
Non è un periodo facile per me, quindi non siate esageratamente cattivi nei commenti: potrei rimanerci male (Fabio 1, Fabio 2 e Fabio 3, questo è per voi). Grazie a Ely79, betareader di questa storia e spalla forte alla quale appoggiarsi nelle lunghe giornate d'ufficio con superiori incompetenti.
Buona lettura!!




Un corvo lo stava fissando dal ramo basso di una betulla, gli occhi fluidi come petrolio. Alle sue spalle l’acqua sciacquettava placida, sulla riva del lago ai piedi del pendìo roccioso dietro l’Accademia.
Aveva provato a lanciargli un sasso più e più volte, ma l’animale aveva sbattuto le ali, gracchiato e non si era spostato dal suo scranno.
Snow si fissò i palmi senza bende, poi studiò con l’indice la macchia rossa che gli era rimasta impressa sul braccio dopo lo scontro con il Si’v del Cambiamento. Sospirò, si passò una mano tra i capelli e poggiò la schiena al tronco.
Una papera starnazzò forte e volò altrove, lontana. L’aria era fresca e umida, gradevole. Se chiudeva gli occhi poteva addirittura sognare di essere sulla riva del Serpentine, a Hyde Park, con i chiacchiericci lontani dei turisti nelle orecchie e la grande Londra tutta intorno.
In quei giorni non faceva che pensare all’Inghilterra: la situazione nel complesso lo infastidiva, eppure non riusciva a non godere di quella sensazione di calda malinconia che i ricordi risvegliavano in lui.
Sapeva che quel momento sarebbe giunto prima o poi, lo aspettava. Gli pendeva sulla nuca come la lama di una ghigliottina, fin dal primo giorno, e ora doveva solo prenderne atto, accettarlo. Gli mancava la sua casa.
Lanciò un sasso e l’acqua lo inghiottì con un tonfo. Il corvo gracchiò e volò via, incoraggiato da una folata di freddo vento autunnale. Snow incassò il petto tra le spalle e rabbrividì.
Il vento porta in giro i pensieri buoni, pensò, e spazza via quelli cattivi.
Aveva Mathieu e ora anche Denise, ma a volte sentiva che l’affetto di due sole persone non era abbastanza rumoroso e avvolgente da farlo sentire appagato. Chissà, piuttosto, come stavano i suoi vecchi amici in città.
Forse avrebbe dovuto frequentare l’Accademia di Glasgow, in Scozia: con tutta probabilità non sarebbe neppure successo il disastro nella Prima Sala e tutto il resto, con Vil’yhak, il segreto di Mathieu, Emilien e l’Elmo di Ade. Forse c’entrava lui anche per quello.
Lo scricchiolio del fogliame alle sue spalle lo fece scattare come una molla, allarmato.
I due ragazzi si fissarono confusi, quindi Paolo gli diede le spalle e scappò nella foresta.
Lefevbre. Ancora.
Qualcosa si innescò nella testa di Snow, una scossa che gli fece vibrare i muscoli, e senza neppure rendersene conto era già all’inseguimento di Paolo a grandi falcate. Un piede slittò sulla fanghiglia e mise alla prova il suo equilibrio. Vacillò, ma non cadde. Lefevbre correva zigzagando tra gli alberi, saltò la radice di un salice e si scontrò con il ramo di un arbusto, spezzandolo. Gli aghi di un pino schiaffeggiarono Snow e gli graffiarono il viso. Si coprì la faccia con le mani e tossì senza mai smettere di correre. Le piante, nei suoi occhi, si fusero come in un paesaggio acquerellato e poi lasciato sotto la pioggia.
 Raggiunse il suo limite più rapidamente di quanto credesse possibile, e ben presto dovette fare i conti con i polmoni e la milza, come lacerati da strappi. Ansimava rumoroso e spossato.
Paolo perse l’equilibrio, e questo permise a Snow di incenerire le distanze. Quando acciuffò un lembo del suo vestito lo tirò forte, rabbioso. Paolo si accartocciò gettandosi a terra, così Snow gli artigliò il braccio e rovinò con lui, sbuffando l’aria che aveva in corpo e rotolando nell’erba umida. Un lampo illuminò la terra.
Paolo inforcò gli occhiali sporchi sul naso, un’astina sbilenca, e Snow gli stritolò una spalla annaspando agitato. Prima che quello potesse rialzarsi e scappare, lo strattonò, lo costrinse a voltarsi e lo schiacciò sul terreno. La resistenza di Lefevbre si rivelò debole, malaticcia: fatta esclusione per un calcio che lo colpi forte al polpaccio, Snow non ebbe problemi a dominarlo. Una volta calmi e immobili, Snow ansimò, sudato.
In quell’attimo di pace i primi pensieri tornarono a rimbalzare nel cranio, e con essi la vergogna e la paura per il gesto violento che aveva appena commesso e nel quale non riuscì a riconoscersi. Tempo fa tutto ciò non sarebbe successo.
Se solo lo avesse visto Mathieu…
«Perché continui a seguirmi,» chiese senza punto di domanda.
Snow senti i muscoli affusolati di Lefevbre contrarsi sotto il suo corpo, invano, e i quattro Siv’ne adagiati sul suo petto tintinnare.
«È inutile» gli disse premendo più forte sulle sue spalle, poi deglutì «Tanto non mi toglierò da qui fino a quando non parlerai».
Una goccia di sudore gli colò dal naso dritto e picchiettò la fronte di Lefevbre, che per lunghi istanti rimase muto. Nei suoi occhi Snow vide una tranquillità che non potè che trovare fuori luogo e a modo suo inquietante.
«Non ho niente da dirti» rispose, guardandolo da dietro le lenti impiastricciate di terra.
Aveva una voce inadatta al suo aspetto fisico: dura, calda, da adulto, con una cadenza italiana quasi impalpabile.
«Sono libero di fare quello che voglio» aggiunse Lefevbre.
Snow rimase in silenzio a pensare.
Sospirò e si chiese sinceramente cosa stesse facendo. Questa storia era assurda sotto ogni punto di vista.
Allentò la presa e lo lasciò sistemare a terra, più comodo ma sempre al di sotto del suo corpo.
«Te lo chiedo per favore» gli disse.
Lefevbre sfilò la mano destra da sotto la gamba di Snow e la alzò lentamente, afferrò con cautela i tre Siv’ne di Snow e li guardò.
«Il Sogno» disse.
Snow annuì.
Vide Paolo stringere nel palmo le tre monete, prima con poca convinzione e poi sempre più forte, lo sguardo concentrato.
Snow cominciò ad agitarsi.
Un ticchettìo meccanico lo fece sobbalzare: un rumore artificiale, come di ingranaggio che si innesta, e del quale non intuì la provenienza. Sembrava essere vicino e allo stesso tempo lontano. Il suo primo pensiero andò ai Siv’ku, e solo il secondo a Paolo, al quale strappò di mano le monete.
«Hai sentito?» gli chiese.
Paolo guardò prima a destra e poi a sinistra, apatico, senza mai rispondere.
Snow si prese in una mano i Siv’ne e li strinse forte. Forse era solo suggestionato, e per questo stava esagerando. Dare la colpa a Paolo era assurdo: cosa mai avrebbe potuto fare sotto ai suoi occhi, a quegli stessi Siv’ne sui quali non trovava nulla di diverso?
Era solo un ticchettìo. Roccia contro roccia. Il verso di un uccello raro.
«Non ti sto spiando» disse Paolo «O almeno, non spio solo te. Sto facendo un’indagine, chiamiamola così».
Snow lo fissò.
«Di’ a Emilien che ha rotto. Sta esagerando».
Lefevbre scosse la testa.
«Non c’entra Emilien, e anzi, se vuoi un consiglio, non prenderei la faccenda sotto gamba. Gli stupidi e i cattivi tornano sempre indietro e lui, se posso permettermi, in questo caso sembra un vero boomerang. Non penso neppure sia realmente arrabbiato con voi. Magari si è dimenticato perfino il motivo per il quale dovrebbe odiarvi, anche perché se se lo ricordasse dubito sarebbe ancora al vostro inseguimento, ma si sa: l’orgoglio è la forza dei pazzi».
Snow lo fissò in silenzio. Aveva un che di ipnotico, di evanescente e incomprensibile. Gli sembrava parlasse in maniera confusa, eppure sempre con cognizione di causa. Chissà cosa sapeva di ciò che era successo con Emilien.
«Mi dispiace che ti sia sentito disturbato» continuò Paolo, invitandolo con una mano a scostarsi «Cerco solo di fare chiarezza su ciò che ti è accaduto nella Prima Sala, per capire se ci siano sotto dei motivi che vadano aldilà di ciò che suggerisce il folklore: la storia della sfortuna, e tutto il resto. È successa la stessa cosa a mio fratello quest’anno, a Pompei».
Snow si scostò e rimase in ginocchio lì di fianco, i muscoli e la mente deboli, svuotati. Nulla gli dava da pensare che Lefevbre stesse mentendo, eppure non riusciva ad essere totalmente convinto della sua versione dei fatti. Pareva tutto artefatto, cinematografico. O forse era semplicemente lui ad essere esageratamente diffidente, stressato. Mentre Paolo stiracchiava gli arti, Snow sollevò lo sguardo al cielo, dove una coltre di nuvole nere appesantiva il cielo oltre le fronde caduche.  
«Giura» gli disse, come potesse cambiare qualcosa.
Paolo annui.
«Giuro» rispose.
«Non potevi dirmelo?»
Paolo scrollò le spalle, quindi si sfilò gli occhiali dal viso e ne strofinò le lenti con il tessuto della tunica che aveva indosso.
A conti fatti forse avrebbe dovuto addirittura scusarsi con lui per i modi bruschi che aveva adottato. Rimase così con le labbra schiuse per un istante, prima di guardare altrove e deglutire.
Forse l’averlo perdonato per i pedinamenti insistenti era già stato abbastanza. In fondo neppure Paolo si era comportato in maniera pulita.
Lefevbre si alzò lentamente da terra, come una volpe ferita, mentre le prime gocce di pioggia cominciavano a punteggiare la foresta e le loro teste.
I profumi antichi e profondi della terra avvolsero Snow, che si passò una mano tra i capelli e sospirò abbattuto.
Pensò al rumore che aveva sentito, al comportamento di Lefevbre, a quello che gli era stato detto e al fatto che si fosse comportato come una bestia. Forse era davvero arrivato il momento di staccare la spina per un po’, di riprendere le energie lontano dallo studio, dalla presenza negativa di Adrien in casa e da tutti gli altri problemi.
Chiuse gli occhi e respirò piano. Accanto a lui, Paolo Lefevbre si allontanò tra gli alberi.
 
*
 
Il fiume Ardeche balzava nel lago in una fontana di spruzzi spumosi, e il Myst dorato che galleggiava nell’aria conferiva alla cascata un aspetto monumentale e fiabesco. Lo scroscio delle acque faceva tremare il terreno e donava sensazioni diametralmente opposte alla piacevole frescura del vapore che, teneramente, carezzava la pelle. Su una roccia velata di muschio argentato un colombo lo osservava attento. Quando Paolo alzò la mano nella sua direzione, quello attese un secondo e spiccò il volo verso il cielo plumbeo, oltre la sommità del dirupo della cascata, che sporgeva come il naso di un viso incartapecorito.
Un'ombra si mosse sotto lo specchio d’acqua, azzurro come una polla di vernice. Paolo, impassibile, la osservò strisciare e increspare la superficie. Portò una mano vicina all’orecchio destro e pigiò bene un dito al suo interno, poi ripetè col sinistro.
La testa di una Sy'ren emerse dall'acqua, la chioma di alghe brune galleggiante e aperta come un ventaglio. Paolo potè solo immaginare lo sciacquettìo del lago mentre ne carezzava le spalle bronzee e il collo lungo, sul quale si aprivano coppie branchie dorate. Il ragazzo la contemplò in silenzio: era di una bellezza disarmante, con profondi occhi bianchi che come nei Modigliani sembravano celare indicibili segreti. La sottile linea delle labbra si distese in un sorriso e si schiuse come la corolla di un fiore.
Mentre la Sy’ren recitava un carme di bisbigli, fece emergere una mano affusolata e con quella invitò Paolo a entrare nel lago. Le dita si mossero nell’aria lentamente, sature di carica erotica.
«Vai via» le ordinò Paolo.
La creatura interruppe il canto, corrugò la fronte e sibilò come un gatto. Le branchie squamose sul suo collo frusciarono e sbatacchiarono sulla pelle umana.
«Sparisci» ripetè.
Il viso della Sy’ren si plasmò in una smorfia di odio e la bocca si aprì mostrando file di denti dritti come lance. Mascella e mandibola schioccarono veloci mentre la pelle del mostro s’accendeva di un rosso intenso.
Paolo fece per scacciarla con la mano, ma quella strillò e rimase immobile nell’acqua. Dietro di lei, una grossa coda di pesce emerse dalla superficie e vi sbattè sollevando pesanti spruzzi. Fu una guerra di sguardi che si concluse quando il Siv’ku, senza armi con cui combattere, si immerse nell’acqua e sparì nelle profondità del lago.
Paolo si sistemò gli occhiali sul naso e si avvicinò alla riva. Per sicurezza non si sfilò neppure i tappi dalle orecchie, ma anzi li assicurò all’interno del timpano premendoli con l’indice.
«C’duha»  recitò pacato, senza inflessioni, con gli occhi sulla cascata.
L'acqua gorgogliò e sobbollì ad appena un passo dalla sua posizione, in quel punto affiorò una lastra di granito attorno alla quale si addensarono le pagliuzze del Myst. Paolo poggiò la punta della scarpa per verificarne la stabilità, quindi vi salì, e quando entrambi i piedi furono fermi una seconda piattaforma emerse e gli segnò il cammino. Seppure non potesse vederle, Paolo era certo che da qualche parte nell’acqua del lago le Sy’ren lo stavano osservando, forse intimorite dall’energia del Si’v della Roccia che aveva richiamato.
Ogni passo verso la cascata metteva alla prova il suo equilibrio: si sentiva tremare fin dentro le ossa, i vestiti infradiciati prima dal vapore e poi dagli schizzi. Si fermò ad appena tre metri dal muro d’acqua, e si specchiò in quel verde smeraldo.
«Fuu’t» disse.
Il Myst davanti a lui sciamò placido e uno dei quattro Siv’ne al collo si illuminò d’oro. L’energia magica si compattò e divenne al suo centro troppo luminosa da poter essere osservata: da quel globo si distesero liane che si aggrovigliarono e plasmarono, generando prima forme astratte e poi sempre più antropomorfe. Quando il bagliore si diradò, rimase il Si’v del Legno ad osservarlo con sguardo pacato, il volto come una mappa intricata di grinze e rughe, proprio come la corteccia del suo elemento. Il vecchio ciondolava al ritmo delle acque, in piedi su quelle e avvolto da un tenue bagliore spettrale. Il suo aspetto druidico era corredato da un’ampia maschera di agrifogli senza bacche tutt’attorno agli occhi. I capelli, pochi, erano concentrati sulla nuca, bianchissimi come quelli di tutti gli altri Si’v. Al posto di braccia e mani, tentacoli di radici danzavano nell’aria.
Lefevbre lo osservò in silenzio e gli sorrise; lui, lentissimo, gli diede le spalle e camminò sul lago. Sotto la superficie, un’ombra parve allontanarsi con uno scatto.
Il Si'v del Legno venne inghiottito dalle acque roboanti della cascata. Banchi di funi e rami nuotarono, si annodarono e rinverdirono, prima dritti e poi ad arco. I rami spezzati dall’acqua furono spinti in profondità e riaffiorarono a metri di distanza, su letti di foglie falciate prima ancora d’esser maturate del tutto. Lefevbre passò invano una mano sulle lenti degli occhiali completamente bagnate.
Quanfdo la volta di legno fu completa e il flusso della cascata deviato, il Si’v sbiadì in una brezza dorata.
Non vi era nessuna grotta oltre le acque, nessuna apertura segreta o nascondiglio di sorta: solo pietra viscida di alghe brune.
Una piattaforma di granito si sollevò dall’acqua ad un passo dalla posizione di Paolo e lo invitò a proseguire.
Ai piedi del dirupo poggiò una mano su una pietra e si sporse, i piedi ben saldi sul granito. Il sasso marchiato con il simbolo ‘₵’ fu difficile da trovare: non aveva considerato che l’acqua avrebbe cancellato le tracce del segno, di cui era rimasta solo una traccia sbiadita, ma poco importava, perché da lì a breve avrebbe cambiato nascondiglio. Spostò la pietra e infilò il braccio nel buco profondo che quella celava.
Quando lo estrasse, attento a non farlo strisciare contro le strette pareti di roccia, l’Elmo di Ade riflettè la luce del Myst e brillò come fosse vivo. Era lì ad attenderlo dove lo aveva lasciato, ed era bellissimo.
   
 
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